Cari italiani, ecco la lezione tedesca per essere più competitivi

Giovanni Boggero

A dividere Italia e Germania non c’è soltanto il famigerato spread tra i rendimenti dei titoli di stato. O meglio, quest’ultimo sembra idealmente stare a indicare la misura anche di un altro differenziale, quello di competitività tra economia italiana ed economia tedesca. Il governo lo ripete ormai da qualche settimana, al punto che Mario Monti aveva dato appuntamento alle parti sociali per il 18 ottobre scorso.

    Torino. A dividere Italia e Germania non c’è soltanto il famigerato spread tra i rendimenti dei titoli di stato. O meglio, quest’ultimo sembra idealmente stare a indicare la misura anche di un altro differenziale, quello di competitività tra economia italiana ed economia tedesca. Il governo lo ripete ormai da qualche settimana, al punto che Mario Monti aveva dato appuntamento alle parti sociali per il 18 ottobre scorso: entro quella data, chiedeva il presidente del Consiglio, industriali e sindacati avrebbero dovuto presentare un’intesa al governo per rilanciare la competitività del sistema produttivo. Ma l’intesa ancora non c’è. “Non penso che sia difficile raggiungerla”, ha detto ieri il direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci. Di diverso avviso la Cgil; ieri il segretario generale Susanna Camusso è tornato a incolpare il governo per il mancato accordo, e ha aggiunto: “Mi pare di poter dire che non c’è nessun negoziato”.

    Resta invece il gap di competitività che ci separa dai paesi del nord Europa. Per colmarlo, spiegano gli esperti, occorre che l’Italia renda più produttivo il fattore lavoro. Negli ultimi dieci anni, mentre nella Repubblica federale la produttività aumentava più di quanto aumentassero i salari, in Italia i salari sono aumentati ben poco rispetto al tasso di inflazione, ma comunque più della produttività. Da che cosa è dipeso? Il problema, ne sono convinti anche diversi economisti tedeschi, non sta solo nel cuneo fiscale e contributivo elevato, ma nel valore aggiunto troppo basso. Per spiegare il quale, DB-Research, il centro studi di Deutsche Bank, punta il dito innanzitutto contro una regolamentazione rigida nel mercato dei servizi e dei prodotti, la carenza di investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo, i forti ostacoli burocratici e la spesa pubblica inefficiente. Ma anche le norme giuslavoristiche e sindacali incidono sul valore dell’output. In particolare, a costituire un problema è il dualismo esistente nel nostro mercato del lavoro, frutto tanto delle riforme di metà anni Novanta e di inizio Duemila, quanto della resistenza dei sindacati nei confronti di una piena liberalizzazione. In un mercato del lavoro in cui ai tutelati con il posto fisso si affiancano precari senza tutele, spiega l’indagine di DB redatta da Laura Puglisi, i riflessi sulla produttività sono particolarmente negativi e si traducono in bassi investimenti in capitale umano e in un’offerta di lavoro per i soli (o quasi) lavoratori scarsamente qualificati.

    Deutsche Bank boccia Fornero e Cgil
    Che fare dunque? Innanzitutto, riformare la contrattazione, spezzando la posizione di preminenza attribuita al contratto nazionale e dando maggiore spazio alla contrattazione aziendale con lo scopo primario di garantire una differenziazione dei salari. I contratti nazionali delle diverse categorie, nonostante le differenze di produttività nelle venti regioni italiane, stabiliscono infatti una sorta di salario minimo e hanno condotto a un livellamento dei salari su tutto il territorio nazionale. Gli effetti di una tale politica li ha dovuti sopportare in particolare il mezzogiorno. Per Deutsche Bank, inoltre, anche una modifica radicale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non sarebbe un tabù; anzi, il reintegro nel posto di lavoro, prassi del tutto eccezionale in Germania, addossa notevoli costi alle imprese, costrette a riassumere un lavoratore licenziato, magari anche dopo molti anni dalla fine del rapporto. Sostiene la banca tedesca che, contrariamente alle attese, la riforma Fornero del mercato del lavoro non garantirebbe alcun passo in avanti, visto che, d’ora in poi, il giudice del lavoro dovrà distinguere tra licenziamento disciplinare, economico e discriminatorio. Insomma, il quadro giuridico potrebbe complicarsi ulteriormente. Infine, sottolinea ancora l’indagine, andrebbe emendata la disciplina che limita a un massimo di due mesi il “patto di prova”, ossia il periodo iniziale del rapporto di lavoro nel quale il lavoratore è ancora liberamente licenziabile. Finora l’ostacolo maggiore a una trasformazione del mercato del lavoro sul modello tedesco è stata la Cgil, chiosa Deutsche Bank.

    Conta la qualità di prodotti e servizi offerti
    Anche per Karl Brenke, macroeconomista del berlinese Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (Diw), istituto di ricerca economica vicino ai socialdemocratici, sarebbe sensata una modifica delle regole sulla contrattazione che, sul modello tedesco, tenesse almeno conto delle differenze esistenti a livello regionale. Lo stesso dicasi per la liberalizzazione in materia di licenziamento, la tutela contro il quale è ancora particolarmente rigida per una fetta importante di lavoratori. Tale liberalizzazione andrebbe, tuttavia, affiancata a una riforma dell’apprendistato che, come in Germania, garantisse una formazione professionale dei giovani fin dalla scuola dell’obbligo, quella che in tedesco si chiama “duale Berufsausbildung”. Ma la competitività si riacquista, spiega Brenke al Foglio, anche attraverso un riaggiustamento macroeconomico. Ai tedeschi toccherebbe alzare un po’ i salari e sopportare un pizzico di inflazione in più, mentre l’Italia dovrebbe accontentarsi di far ristagnare i salari qualche altro anno.

    Secondo Hagen Lesch, economista dell’Institut der deutschen Wirtschaft (Iw), istituto di Colonia vicino a Gesamtmetall, la Confindustria metalmeccanica, il problema non è solo di assicurare un sistema di contrattazione decentrato, bensì di consentire una certa flessibilità tra un livello e l’altro, attraverso la stipula di accordi in deroga. La presenza di un unico sindacato, annoverata spesso tra i vantaggi delle relazioni industriali teutoniche, è un’arma a doppio taglio, sostiene in una conversazione con il Foglio. In Germania il sindacato unico ha garantito la moderazione salariale, ma in Italia l’eventuale monopolio del sindacato attualmente dominante potrebbe forse rallentare l’adozione di accordi strategici per l’apertura e la flessibilizzazione dei contratti collettivi di lavoro. Infine, la qualità dei prodotti. Come scriveva qualche tempo fa l’economista tedesca Janina Fischer su International Trade News, anche Lesch è dell’avviso che la maggiore o minore competitività di un’economia non dipenda soltanto da prezzi e costi dei fattori, ma anche dalla qualità dei prodotti e servizi offerti. Anche questa è la chiave del successo sui mercati mondiali di tante imprese tedesche.