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Con un'Argentina fatta su misura ora Messi è davvero il dio del pallone
Ha cancellato di colpo i fantasmi di Pelé e Maradona: Leo Messi è il miglior calciatore della storia. Qualcuno era scettico, diceva che se con il Barcellona ha vinto tutto quello che c’era da vincere è perché attorno ha gente come Xavi e Iniesta che non si trovano a ogni angolo di cantera. Con la Nazionale argentina invece è sembrato molto meno fenomenale, per non dire normale e quindi inutile.
di Raffaele Selvatico
Ha cancellato di colpo i fantasmi di Pelé e Maradona: Leo Messi è il miglior calciatore della storia. Qualcuno era scettico, diceva che se con il Barcellona ha vinto tutto quello che c’era da vincere è perché attorno ha gente come Xavi e Iniesta che non si trovano a ogni angolo di cantera. Con la Nazionale argentina invece è sembrato molto meno fenomenale, per non dire normale e quindi inutile. Venerdì 12 ottobre, due del mattino ora italiana, stadio “Las Malvinas argentinas” di Mendoza, è arrivata la risposta: con una prestazione che non si può dire perfetta solo perché la perfezione non è di questo mondo, ha asfaltato praticamente da solo l’Uruguay. Una gara valida per le qualificazioni al Mondiale del 2014 in Brasile, ma quando è derby del Mar de la Plata non è mai una partita qualsiasi: è sfida infinita tra due paesi appena separati da un esiguo braccio di mare ma lontanissimi per storia e cultura calcistiche che se le suonano dal 1902. In molte occasioni storiche, Olimpiadi (1924 e 1928), Coppa Rimet (1930) l’Uruguay ha vinto a sorpresa e fatto piangere l’Argentina intera. Nel 2010, in Sudafrica, l’Uruguay piace e vola fino alle semifinali, l’Argentina prende quattro pillole dai tedeschi e torna a casa. L’anno dopo è Coppa America: Argentina eliminata proprio dall’Uruguay che va in finale e vince. La Celeste dunque sembra tornata ai fasti di un tempo, buona difesa, solido centrocampo e davanti tre ire di dio, Cavani, Suárez e Forlán, il tutto disposto dalla mano sapiente di un allenatore che sa di calcio. Ebbene, non c’è mai stata partita. L’Argentina l’ha surclassata con un asfissiante possesso palla a centrocampo. Con Mascherano a fare da schermo davanti alla difesa. E Gago, che era sembrato un vagito nella Roma, playmaker: che poi vuol dire farsi dare palla e passarla a Messi, che subito innesta il dai e vai con i rapidi compagni d’attacco: risultato, due gol, l’assist ad Agüero per il terzo, una traversa, un palo che ancora trema. Due sere fa, è ancora sua la serpentina in area che scardina la scorbutica difesa del Cile, suo il diagonale che manda il portiere per stracci e apre la strada a una nuova vittoria. Sabella, nuovo ct dell’Argentina, non è un presuntuoso: Maradona dall’alto del suo nome e del suo prestigio credeva di poter dire come e dove Messi dovesse giocare: e lo tenne fuori dall’area dei sedici metri, dove le sue accelerazioni bestiali tagliano le gambe a qualsiasi difensore al mondo.
Il postulato di Sabella è semplice: se Messi vince con il Barcellona e non con l’Argentina è l’Argentina che deve cambiare ed essere più simile possibile al Barcellona. Così, nonostante una difesa e un portiere a volte da brividi, ha avuto il coraggio di rischiare: è l’Argentina la squadra da battere ai prossimi Mondiali. Nessuna Nazionale europea ha mai vinto un titolo in territorio sudamericano e i concorrenti continentali sembrano mal messi, non solo Uruguay e Cile ma anche il Brasile, giovane e troppo tenero. Sabella ha dunque serie chance di entrare nella storia proprio là da dove Maradona uscì. E’ vero che come ct lo volle Cristina Kirchner più che altro per meriti politici, per l’amicizia con Castro e Chávez, per il suo antiamericanismo e perché in un paese malato di malinconia e ricordi ci voleva un’icona popolare alla stregua di Gardel, Evita, Guevara o Carlos Monzon. Non bastò il rosario a farne un bravo tecnico e naufragò, forse la paura di vedere oscurata la propria personale grandezza gli ha giocato un brutto scherzo. Accusano Pelé di essere un conformista vanitoso che si contempla allo specchio: anche Diego, pur tenebroso e controcorrente, non scherza. In 65 partite con la maglia dell’Argentina, Leo Messi ha segnato 30 gol. Ma nelle ultime undici, da quando cioè gli hanno fatto la squadra su misura, ne ha segnati tredici, più di un gol a partita, una media stratosferica.
Sta dimostrando che è qualcosa di più di fenomeni come possono esserlo i Cristiano Ronaldo, gli Ibrahimovic o i Rooney: è l’unico calciatore universale, il solo che risulta decisivo ovunque giochi, nel club o nella Nazionale. Decisivo come lo fu Alfredo Di Stefano, spesso trascurato dalle classifiche, che per svariati anni portò sulle spalle fino alla vittoria il Real Madrid, l’Argentina prima e le Furie rosse dopo. Di Stefano, un altro argentino trapiantato in Spagna. Messi dunque, a 25 anni, il più grande di tutti i tempi. Di lui, che vuole essere ricordato solo come un bravo ragazzo, si potrà dire “feliz, solitario y final”.
di Raffaele Selvatico


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