I segreti dell'anti Draghi

Alessandra Sardoni

L’iconografia  – gli occhi degli altri sono capaci di costruirne rapidamente una anche per chi le sfugga – consegna Vittorio Umberto Grilli, ministro dell’Economia del governo Monti dal luglio 2012, a una calcolatrice e a un algoritmo. E naturalmente al grigio, stereotipo cromatico delle tecnocrazie, sfumature in numero significativamente minore di cinquanta. Un aneddoto raccontato dall’ex portavoce di Ciampi oggi sottosegretario all’editoria, Paolo Peluffo nel suo libro “Ciampi, l’uomo e il presidente”, fissa l’immagine a una data.

    L’iconografia  – gli occhi degli altri sono capaci di costruirne rapidamente una anche per chi le sfugga – consegna Vittorio Umberto Grilli, ministro dell’Economia del governo Monti dal luglio 2012, a una calcolatrice e a un algoritmo. E naturalmente al grigio, stereotipo cromatico delle tecnocrazie, sfumature in numero significativamente minore di cinquanta. Un aneddoto raccontato dall’ex portavoce di Ciampi oggi sottosegretario all’editoria, Paolo Peluffo nel suo libro “Ciampi, l’uomo e il presidente”, fissa l’immagine a una data.

    E’ il 13 maggio 1999. Il Parlamento sceglie il successore di Oscar Luigi Scalfaro. Carlo Azeglio Ciampi attende nella sua stanza al ministero del Tesoro che i numeri certifichino la tenuta del patto tra Veltroni, Fini e Casini che lo porterà al Quirinale spezzando le aspirazioni (e il cuore) di Franco Marini cui D’Alema capo del governo dopo complotto e caduta di Prodi, ha promesso la medesima poltrona. Nell’ufficio del superministro sono riuniti quelli che già da qualche anno si chiamano Ciampi boys, le teste d’uovo uscite dalle università americane o dalla Bocconi che l’ex governatore ha selezionato per la Banca d’Italia e poi per via XX settembre, inner circle e serbatoio di successive eccellenti carriere. L’istantanea di quel giorno include il più talentuoso del gruppo, Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro e racconta di emozioni e scaramanzie perché, patti o non patti, l’elezione del presidente della Repubblica ha sempre un margine di incertezza, la possibilità dell’agguato. Vittorio Grilli che allora ha 42 anni e al Tesoro è arrivato grazie a Luigi Spaventa e allo stesso Draghi, è l’unico con la calcolatrice in mano. Tiene il conto delle schede. “Aveva immaginato un algoritmo per capire se il ritmo di voto conducesse al risultato positivo”, scrive Peluffo.

    L’algoritmo Grilli si rivelò vincente quanto il metodo Ciampi. E tuttavia non replicabile, neppure come amuleto, ad uso dell’autore, sconfitto il 24 ottobre 2011 nella sua ambizione più profonda, la presidenza della Banca d’Italia contesa, con l’appoggio muscolare di Tremonti sull’asse del nord, all’allora direttore generale Fabrizio Saccomanni cioè a Draghi.

    Per Grilli è stata quella la partita della vita, il punto di emersione dall’umbratilità mediatica del tecnico e, con il senno di poi, il gioco d’azzardo, il cedimento all’imprudenza, finito con il genere di consolazione che può arrivare dall’esercizio di un potere indirettamente interdittivo e un nome diverso a Palazzo Koch: Ignazio Visco, “altro uomo vicino a Draghi, ma uno dei pochi con cui Grilli non ha cattivi rapporti” osserva un insider che li frequenta entrambi a Bruxelles. E’ finita, come vedremo, con il sapore acre del paradosso se non della beffa: le ombre che le intercettazioni di conversazioni disinvolte fra Grilli e il banchiere Massimo Ponzellini – con richiesta di intercessione presso Bersani per ottenerne la non ostilità nella campagna per Bankitalia – hanno disteso retrospettivamente non su una poltrona conquistata, ma su una persa.

    Associate ai pubblici elogi all’operato di Giuseppe Guzzetti presidente delle Fondazioni bancarie quelle parole intercettate si sono allungate a ipotecare anche il presente alimentando il sospetto – si è visto negli editoriali antipatizzanti degli economisti Tito Boeri e Luigi Guiso – di una partigianeria del ministro dell’Economia pro fondazioni nel risiko della Cassa depositi e prestiti di cui queste sono azioniste insieme al Tesoro. Sono i giorni in cui la Cassa decide se e come intervenire per impedire che la tedesca Siemens acquisti l’Ansaldo, azienda del gruppo Finmeccanica. La forza o debolezza del ministro non è una variabile da poco.

    E certo non hanno aiutato le allusioni a contratti o consulenze affidati da Finmeccanica o aziende limitrofe alla ex moglie di Grilli, Lisa Lowenstein imprenditrice americana di gadget museali (con shop a Fiumicino, nell’epoca tardo Romiti) contenute in una conversazione anche questa intercettata fra il presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi ed Ettore Gotti Tedeschi, ex numero uno dello Ior tuttora membro del Cda della Cassa depositi e prestiti. Grilli e l’interessata hanno smentito così come, con più forza argomentativa, il rapporto dell’audit interno voluto da Orsi (pubblicato da Repubblica). Tuttavia il caso resta nell’aria sospeso – visto che era stato proprio Orsi, a parlare di contratti o consulenze per la signora Grilli – imbarazzante per Monti oltre che per Grilli: è il governo a dover decidere infatti della permanenza o dell’uscita di Orsi, nominato da Tremonti e da Grilli con vigoroso endorsement leghista (Roberto Maroni), indagato dalla procura di Napoli per corruzione internazionale, riciclaggio e finanziamento illecito ai partiti. Il risultato è che il dossier Finmeccanica, uno dei più complicati, politicamente sensibili e oggettivamente esplosivi, nonchè il destino del presidente Orsi sono tornati interamente nelle mani del presidente del consiglio.

    Entrambe le vicende telefoniche, Ponzellini (anche l’ex presidente della Banca Popolare di Milano è sotto inchiesta) e Lowenstein, costituiscono l’innesco di critiche sistemiche più insidiose e di dossier più corposi di quelli personali nella fase di transizione e sbriciolamento politico e ridefinizione dei poteri economici. E’ per questo che la figura un tantino misteriosa, la fisionomia da attore di film in bianco e nero, curiosamente i colori dell’attico romano, i capelli ben pettinati, il peso, dicono, sempre sotto controllo, di Vittorio Grilli, da un ventennio e svariati governi nel cuore della politica economica, diventa improvvisamente una chiave di accesso alle stanze di via XX settembre così come sono oggi. Nella dialettica fra vecchia e nuova tecnocrazia anch’essa percorsa da pulsioni rottamatrici. Fra quello che resta, non poco, del vecchio blocco di potere tremontiano e l’influenza dello sfaccettato network che guarda a Mario Draghi.

    L’algoritmo di Grilli dice ovviamente della frequentazione assidua dei numeri come si conviene a chi è entrato al Tesoro nel ‘93, è stato ragioniere generale dello stato dal 2002 a 2005 e poi – fino al 2011 – direttore generale. Con una breve pausa londinese al Crédit Suisse. Curriculum perfettamente componibile con la scarsa capacità empatica raccontata da chiunque amico (non molti) o nemico (non pochi) accetti di parlare di lui. Tutti con preghiera di anonimato. Grilli è un ambizioso del tipo “freddo” come le materie di cui si è prevalentemente occupato: vendita dei titoli di stato italiani, privatizzazioni. Non ne scalda l’immagine neppure la passione per i vini, il racconto di un corso da sommelier e di una fornitissima cantina personale. Né l’unico altro hobby de luxe risaputo grazie a un recente ritratto di Giancarlo Perna sul Giornale, una Jaguar del 1994, una Volkswagen del 1975 e una Rover, nel garage dei Parioli. Né l’ovvia predilezione sportiva, il golf cominciato negli anni americani. Proprio come Draghi anche se i due sono soci, poco assidui dati gli impegni, di due circoli romani diversi: l’Olgiata per Grilli, lo storico Acquasanta per Draghi. Semmai l’unica sfumatura calda nel grigio d’ordinanza è proprio nella competizione con Draghi cominciata come emulazione (Grilli è più giovane di dieci anni dell’attuale presidente della Bce), diventata via via competizione e poi avversione, reciproca da quando Grilli tentò di frenare la corsa di Draghi alla successione di Antonio Fazio, scalzato nell’estate dei furbetti nel 2005.

    Secondo un giudizio altrettanto condiviso a Grilli sono riconosciute preparazione tecnica e competenza. L’autorevolezza a Bruxelles è attestata da tutti gli economisti che lo conoscono bene anche se tutto sommato lo frequentano poco. Ha studiato e anche insegnato nei posti giusti, alla Bocconi, all’Università di Rochester (New York State), a Yale con Francesco Giavazzi, Spaventa e per l’appunto Draghi. Ha scritto un saggio con Alberto Alesina e uno con l’economista americano Robert J. Barro. Ha il set di conoscenze che ne deriva. E quelle strane pause sonore, strani vocalizzi che gli accademici italiani anglofoni hanno riportato in patria nell’intercalare: la “schwa” nome ebraico della “a” del sanscrito, suono a metà fra la a e la e dominante in inglese che Anthony Burgess consigliava a chi, straniero, avesse dubbi di pronuncia e che proprio gli economisti italiani hanno portato nei talk show italici dell’epoca Monti: la “schwa” di Grilli si è sentita a Ballarò, quelle di Luigi Zingales, Michele Boldrin, Paola Sapienza a Otto e mezzo e Piazzapulita. Assimilazione fonetica d’ambiente che segnala provenienza comune, ma che non copre le distanze. E non stempera la durezza degli attacchi. Almeno a giudicare dall’editoriale che proprio Zingales (molto attivo sulla scena politica italiana, è tra i firmatari del Manifesto Fermare il declino) ha sferrato contro Grilli sul Sole 24 Ore del due ottobre scorso, a partire dalle famigerate intercettazioni di cui sopra.

    “E’ inaccettabile”, scrive nel passaggio clou Zingales, “che Grilli abbia usato nella sua campagna per Bankitalia “il presidente di una banca che poi sarebbe andato a regolare. Pensiamo veramente che poi non avrebbe chiesto nulla in cambio dei suoi servigi?”. Zingales implora: “Vittorio, per amore del paese, chiarisci”. “Vittorio” chiarisce con missiva allo stesso quotidiano concordata con Monti. Respinge le “false insinuazioni” sulle consulenze all’ex moglie, rivendica l’amicizia di vecchia data con Ponzellini e definisce “obbrobrio” l’idea che “un’eventuale nomina alla guida della Banca d’Italia avrebbe potuto allentare il controllo della vigilanza”. Aggiunge una specie di pubblica rinuncia alla tentazione di restare in scena in un eventuale Monti bis. Il direttore del Sole Roberto Napoletano bolla la questione come una “leggerezza”. Ma non basta. Ed è qui l’aspetto di sistema. Perché precisamente il rapporto con Ponzellini così come quegli ottimi con Guzzetti e con il banchiere Giovanni Bazoli, presidente di Intesa, costituiscono l’argomento forte per le critiche di una parte influente di economisti italiani, l’ala liberal e liberista della voce.info e di noisefromamerika.org che hanno da tempo nel mirino le Fondazioni bancarie. Gli osservatori sono pronti a misurare i gradi di separazione dal pensiero di Draghi.
    “Lo sanno tutti che Grilli era il candidato delle banche per Bankitalia e che per questo non ci è andato”, riassume senza giri di parole un grosso calibro dei governi di centrosinistra. Che indica tuttora nell’asse del nord, Tremonti-Bazoli-Guzzetti, il network di Grilli.

    Tito Boeri, presidente della Fondazione De Benedetti, e Luigi Guiso, dell’Istituto Einaudi, prestigioso luogo di ricerca della Banca d’Italia, hanno chiesto espressamente a Grilli appena insediato a via XX settembre di intervenire contro l’autoreferenzialità delle fondazioni, le loro posizioni di vantaggio, gli organismi pletorici, le commistioni con la politica anche in termini di curricula dei propri dirigenti. Il tema è caldissimo perché in queste settimane si devono definire le modalità di partecipazione delle fondazioni alla Cassa depositi e prestiti. Senza contare che tra breve, in concomitanza con le elezioni politiche, la Cdp rinnoverà i suoi ambitissimi vertici. Dal 2003 anno della riforma voluta da Tremonti (e da Grilli) la Cdp, il serbatoio di liquidità più imponente 296 miliardi di euro, è stata trasformata nel veicolo per portare il debito fuori dal bilancio dello stato. Le Fondazioni, diventate azioniste per il 30 per cento, sono state il mezzo, secondo i critici dell’operazione, per una falsa privatizzazione. Si muovono infatti in una terra di mezzo fra pubblico e privato, per quella mostruosità che il loro inventore Giuliano Amato segnalò in partenza definendole “Frankenstein”.

    “Grilli aleggia da sempre in Cassa depositi e prestiti”, dice al Foglio un dirigente del Pd che ha avuto incarichi con il governo Prodi. Alla Cassa è ancora forte l’influenza di Tremonti attraverso Giovanni Gorno Tempini, vicinissimo a Bazoli (viene dalla Mittel), nominato proprio dall’ex ministro e da Grilli direttore generale del Tesoro. Ottimi sono anche i rapporti di Grilli con Franco Bassanini che della Cassa è il presidente. “Il ministro ha il potere di rivedere un trattamento fin qui molto vantaggioso delle Fondazioni”, scrive Boeri.

    Il messaggio è ovviamente rivolto anche a Monti. E’ lui che nominando Grilli ha scelto la continuità, per “non scontentare troppo Tremonti”, dicono nel centrosinistra.
    Monti stima Grilli per la sua competenza e per i buoni rapporti con gli omologhi europei a cominciare dai tedeschi, ma a distanza si direbbe, nell’alchimia delle mappe di potere. Gli ha consegnato il ministero più importante, ma ha nominato, dopo protratta vacanza, un direttore generale per nulla gradito, Vincenzo La Via, altro Draghi boy, rampollo dell’aristocrazia intellettuale di sinistra, nipote di Stefano Siglienti, il primo ministro delle finanze post fascismo e di Enrico Berlinguer. Senza contare che su dossier particolari, vedi il riordino degli incentivi per le imprese ha chiamato Francesco Giavazzi, l’economista italiano al momento più in sintonia con il presidente della Bce. “Il comitato di coordinamento costituito a Palazzo Chigi con Passera e Visco non lo vede come un limite ai suoi poteri?”, gli chiedeva Ferruccio De Bortoli nella prima intervista da ministro il 15 luglio scorso. “Assolutamente no”, rispondeva Grilli. “E la presenza del governatore di Bankitalia in un organismo governativo non rappresenta un’anomalia? “Non credo, non riduce minimamente il suo livello di autonomia…”. Insiste De Bortoli: “Diciamo che in un governo politico la cosa non sarebbe avvenuta?” “Forse sì”, chiude il ministro.

    La verità è che la prima fila ha il suo contrappasso. Difficile spegnere le luci e tornare per l’appunto alle sfumature di grigio. Poco praticabile l’opzione contraria, buttarla in politica, nel montismo dei molti e diversi riti. Grilli non è un uomo che possa concepire il salto verso il mare aperto del consenso.
    Forse ci ha pensato in estate, quando analogamente a Corrado Passera lasciò pubblicare da “Oggi” alcune foto in costume da bagno (rosso) insieme alla nuova compagna Alessia Ferruccio, manager Consip sfiorata dalle polemiche per un repentino avanzamento di carriera in concomitanza con quella del marito. 

    Ma Grilli è già in lotta contro la sua stessa impopolarità presso l’establishment di cui pure fa parte. Ed è tutto da misurare il ricavo in termini di immagine della paternità di una legge di stabilità che somiglia troppo a una manovra, criticatissima dagli osservatori, divisiva per la maggioranza. Un copyright che Monti gli ha lasciato e che si rivela più ingombrante che gratificante. 

    “Bad character” direbbe di lui Berlusconi, come disse durante un consiglio europeo di Tremonti, che resta ancora oggi relativamente vicino a Grilli con un rapporto lungo due governi, cementato dalla comune frequentazione dell’Aspen di cui Tremonti è il presidente. Meno di quindici giorni fa, Grilli ha partecipato a una riunione a porte chiuse del think tank americano molto trasversale su cessione del debito pubblico e privatizzazioni. Di Tremonti Grilli ha parlato ancora una volta con De Bortoli: “Il rapporto personale con Giulio non è cambiato, quello gerarchico era molto diverso, prima io ero parte dell’amministrazione dello stato, oggi sono membro di un governo che fa della collegialità il suo punto di forza”.

    Negli ambienti di governo si enfatizzano semmai le frizioni con Pietro Giarda, i rapporti tiepidi con Fabrizio Barca, la rivalità scoperta con Corrado Passera, dispiegatasi, in consonanza questa volta con il ragioniere dello stato Mario Canzio, già all’epoca del primo decreto sviluppo, negli stop and go e soprattutto nei veti sulle coperture che facevano (e fanno) slittare i consigli dei ministri e il varo delle creature dell’ex ad di Banca Intesa. “Grilli sa di non poter aspirare a restare ministro in un eventuale Monti bis, troppi competitor per quel ruolo”, dice chi lo conosce bene e scommette che il suo prossimo approdo “sarà in una banca”. Del resto era pronto per lui un posto d’oro alla Barclays quando Napolitano e Monti lo hanno chiamato a fare il viceministro con la promessa del ruolo di titolare dopo l’interim di emergenza che Monti si era autoaffidato.

    Grilli rappresenta la longevità della struttura profonda del Mef e più in generale della Pubblica amministrazione. Il suo costituirsi in blocco. Come fa notare Guiso con una notazione di carattere generale: “In qualunque organismo chi resta a lungo costituisce un blocco, è tipico di qualunque burocrazia. Le nostre amministrazioni hanno più potere dei ministri di turno”. Eppure, tra via XX settembre e Palazzo Chigi, di Grilli si dice piuttosto che sia un “esecutore” sia pure bravissimo, eccezionale. Il che apre la strada a chi lo accusa di aver fatto una cosa e il suo contrario, “il rigore e il condono tombale, ha firmato le nomine Tremonti”, come sussurrano vecchi staff. “La creatività di Tremonti semmai era attribuibile a Domenico Siniscalco”, racconta oggi un importante esponente del Pd ben introdotto e non da oggi nel mondo dell’economia. “Sua la deroga al patto di stabilità, la finanza creativa”. Tremontiana la riforma della Cassa Depositi e Prestiti. Certo è difficile ricostruire chi abbia fatto cosa, chi abbia inventato al ministero dell’economia, il Mef come da acronimo in voga negli ultimi anni.

    Dentro il Mef ci sono incrostazioni di rapporti, personalità professionalmente longeve e di potere come il ragioniere Mario Canzio e il capo di gabinetto Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto anche con D’Alema alla Farnesina e Di Pietro alle Infrastrutture, per dire della continuità e del particolarissimo spoil system all’italiana. Ci sono da sempre con la curiosa circostanza di essere indicati alternativamente uno come la creatura dell’altro, uno irriducibile nemico dell’altro, ma poi tutti a comporre il blocco. Eugenio Scalfari consigliò a Monti di stare in guardia disegnandoli come prosecuzioni del potere lettiano (Gianni) e tremontiano. Monti rispose, “grazie, lo so”, e li difese.
    I mesi successivi hanno piuttosto messo in luce un altro aspetto, ancora una volta sistemico, la forza dei grandi dirigenti pubblici. “Nessun governo l’ha saputa usare così male come quello tecnico” osservava di recente un esponente di spicco del Pdl che preferisce non essere citato.
    Di sicuro è che curiosamente sono i tecnici, l’emergenza, la spending review, ad averne provocato l’emersione, il punto debole. Forse di questo mancato ricambio, di questa emersione, Grilli il freddo che ha visto passare i ministri Ciampi, Visco, Padoa Schioppa e due volte Tremonti, può essere il paradigma.