
La notte della sconfitta, ma chissà
La notte che perse la rielezione, ma poi non si sa, Barack Obama era particolarmente charming, persuasivo per i beautiful people, equilibrato, malinconico, sexy e triste con il sorriso largo e la luce bianca dei denti. Mitt Romney era azzimato, era “di tutto punto”, era eccitato, voglioso, comiziesco, sfidante perfetto e una punta pacchiano in confronto all’incumbent.
Leggi Il “surge” di Mitt Romney di Mattia Ferraresi
La notte che perse la rielezione, ma poi non si sa, Barack Obama era particolarmente charming, persuasivo per i beautiful people, equilibrato, malinconico, sexy e triste con il sorriso largo e la luce bianca dei denti. Mitt Romney era azzimato, era “di tutto punto”, era eccitato, voglioso, comiziesco, sfidante perfetto e una punta pacchiano in confronto all’incumbent. La differenza era semplice: il democratico nero ha qualcosa di un leader rassegnato, che non padroneggia il rendiconto della realtà con l’agio fantastico esibito un tempo nella progettazione della speranza; il repubblicano bianco è aggressivo, vuole fare il presidente al posto dell’altro e lo mostra senza remore psicologiche, è informato sulle cose che contano, dalle tasse ai posti di lavoro, dall’invadenza dello stato nelle cure sanitarie e nel settore privato dell’economia al modello di società fondato sul vecchio sogno dell’autogoverno dei cittadini, sfotte con spirito pratico gli investimenti inutili in energia pulita, esige soluzioni a nome di gente delusa dalle chiacchiere dello Scam-Man, l’acrobata della narrazione.
Non è detto. C’è ancora tempo per Obama e il suo team di Chicago, nonostante la ripresa lenta che non produce posti di lavoro. Il presidente di regola dovrebbe essere rieletto, le eccezioni sono rare. E’ anche vero che il ciclo economico è sempre decisivo, altra regola con rare eccezioni, per le sorti di un’elezione americana, e l’aria che tira oggi tira per lo sfidante. Ma il fattore decisivo è la trasformazione del candidato in presidente. Il candidato Obama fu imbattibile quattro anni fa. Libero da impacci, recitò una grande storia autobiografica, agitò il mito della bipartisanship in un paese ferocemente diviso dalle conseguenze dell’11 settembre (due guerre, patriot act), impose l’immagine di un afroamericano colto, competente, aristocratico, cool, la novità assoluta in un paese che pensava di voler cambiare strada nel mezzo di una crisi avventurosa, micidiale. Oggi Obama non è più un candidato, deve rispondere di sogni offuscati e di interessi lesi e di una società che poteva preferire un community organizer dopo la sbornia di leadership di guerra nei due mandati di Bush & Cheney, ma ora chiede una guida politica tosta; la parte del candidato tocca adesso a Romney, è lui quello libero di attaccare con slancio offensivo, di formulare la narrazione dello spirito pratico e di frontiera e di incassare tutto quel che si può incassare, a partire dalle deludenti performance del presidente in carica. E questo mestiere Romney lo sa fare, a quanto pare.
Alla fine Obama può riprendersi dal brutto colpo nell’arena, da lui subito con una strana ma non inspiegabile passività, ma non sarà facile. Perché è stato un presidente molto irritante dal punto di vista ideologico degli americani che hanno vissuto e nutrito il ciclo liberale e liberista, socialmente conservatore, individualista degli ultimi decenni. Clinton aveva assecondato la cosa, strappò la triangolazione politica ai repubblicani, fu a suo modo parte della Right Nation. Obama non ce l’ha fatta, ma ha cercato di giocare la carta moderata, in particolare con una tenuta rigorosa sotto il profilo della sicurezza nazionale (Guantanamo, droni e operazione Bin Laden) e con un tentativo blando di regolazione del mercato finanziario, ma il mondo va ormai dove vuole e lui, in patria e all’estero, fa figura di isolato, di cavaliere dalla faccia triste, hidalgo al tramonto e senza più troppa speranza da offrire neanche all’esercito umanitario che lo aveva portato in trionfo. Sondaggi e chiacchiere a parte, media a parte, si sa (ma non si dice) che sulla carta può perdere.
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