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Autodafé
“Journal bête et méchant”. Giornale stupido e cattivo, recitava lo slogan ironico del magazine Charlie Hebdo negli anni Settanta. Il giornale satirico della sinistra libertaria è da sempre il re della provocazione, il simbolo della libertà d’espressione in Francia e adesso anche la “Bête Noire”, la bestia nera dei fondamentalisti islamici. “L’onore della Francia è stato salvato da Charlie Hebdo”, aveva scandito Bernard-Henri Lévy nel 2006, quando il settimanale satirico ripubblicò le vignette danesi su Maometto.
Leggi Maometto nudo e irriso su Charlie Hebdo. Paura per i francesi all’estero
Roma. “Journal bête et méchant”. Giornale stupido e cattivo, recitava lo slogan ironico del magazine Charlie Hebdo negli anni Settanta. Il giornale satirico della sinistra libertaria è da sempre il re della provocazione, il simbolo della libertà d’espressione in Francia e adesso anche la “Bête Noire”, la bestia nera dei fondamentalisti islamici. “L’onore della Francia è stato salvato da Charlie Hebdo”, aveva scandito Bernard-Henri Lévy nel 2006, quando il settimanale satirico ripubblicò le vignette danesi su Maometto. Ieri lo hanno rifatto in nome della domanda che ha appena posto Bret Stephens sul Wall Street Journal: “Perché è lecito irridere una religione ma non un’altra?”.
Charlie Hebdo è al centro dei vari tipi di pressioni subite dall’occidente in questa guerra islamista alla libertà di parola. Pressione fisica e violenta, prima di tutto. Alcuni mesi fa la sede del giornale è stata infatti incendiata con bombe molotov. Ma anche una pressione legale. La rivista è sopravvissuta a un processo in grande stile intentato contro Charlie Hebdo dal consiglio francese del culto musulmano, che ne aveva chiesto il ritiro delle copie (un tribunale scagionò il magazine). “Un processo medievale”, disse l’allora direttore Philippe Val, un corsaro della libertà di parola, una mosca bianca schierata anche a difesa di Robert Redeker. “La nostra arma per opporci alla minaccia integralista è la penna. Ci chiedono di deporla”. Avendo capito quanto alta fosse la posta in gioco, Charlie Hebdo fu difeso anche da Libération con Laurent Joffrin: “Non sono le vignette a uccidere, ma le bombe”.
Ci sono due modi di reagire di fronte alla libertà di parola che in maniera rutilante e spesso volgare guasta i rapporti, già fragilissimi, fra l’occidente e l’islam. Si può fare come fece nel 2006 l’allora ministro dell’Interno e candidato alla presidenza, Nicolas Sarkozy: “Preferisco troppe caricature, piuttosto che nessuna”. Ieri anche il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, un socialista multiculti, ha scandito: “Siamo un paese in cui è garantita la libertà d’espressione”.
Negli Stati Uniti tira invece una strana aria di scuse preventive per i video e le vignette sull’islam. Il presidente americano, Barack Obama, è andato allo show di Letterman a criticare il filmato, mentre la sua ambasciatrice all’Onu, Susan Rice, dichiarava sempre in tv che la colpa dell’attacco mortale a Bengasi era di quel “video odioso”. Anche Hillary Clinton ha definito “ripugnante” il video, come se ciò comportasse di per sé conseguenze violente.
Henryk Broder, storico giornalista dello Spiegel, al Foglio sintetizza così il dibattito in corso: “Cosa vi fu prima, l’uovo o la gallina? Sono stati i caricaturisti a reagire agli attacchi omicidi degli integralisti islamici oppure i musulmani a reagire alle oltraggiose vignette, non facendo che opporre resistenza, nonostante qualcuno abbia poi passato un po’ il segno? I favorevoli all’appeasement appoggiano la seconda lettura: siamo noi che provochiamo, essi reagiscono. E si chiedono: dove sbagliamo, visto che ci odiano così? Fosse per loro non potremmo fare nient’altro che barricarci come se ci fosse un uragano, pregando che la tempesta passi presto e che non ne arrivino di nuove”.
E’ quello che hanno fatto le prestigiose edizioni di Yale, che in un libro pubblicato sull’affaire delle caricature, oltre a non riprodurre le vignette per timore di attacchi, hanno rimosso anche il famoso Maometto dell’Inferno di Doré, un capolavoro dell’arte. Non si contano i casi di vignettisti e artisti costretti alla macchia, che hanno rinunciato a produrre, scomparsi nell’anonimato, per colpa della propria “irriverenza” nei confronti dei tabù islamici. La chiamano “the hit list”. Salman Rushdie nei giorni scorsi ha ben detto che oggi nessuno avrebbe pubblicato i “Versetti Satanici”. Il rischio è che i vignettisti di Charlie Hebdo finiscano come i danesi del Jyllands-Posten, i primi cittadini dal 1945 a dover ritirare dalla vita pubblica per proteggere la propria incolumità. O come Molly Norris, la vignettista americana “scomparsa” dopo le minacce dei fondamentalisti. Un giorno il suo giornale, il Seattle Weekly, ha pubblicato queste righe: “Avrete notato che la vignetta di Molly Norris non è sul giornale questa settimana. Perché Molly non esiste più”.
Vogliamo che la libertà di parola faccia questa fine? Quando Charlie Hebdo finì sotto i colpi delle bombe molotov, la rivista Causeur scrisse che c’era il rischio di “autodafé a Parigi”. E’ la terribile parola che, nel linguaggio dell’Inquisizione, indicava l’abiura pronunciata dall’eretico. Siamo all’autodafé del vignettista blasfemo?
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