Santi, peones e pm

Nella procura di Palermo volano schiaffi fra togati

Redazione

Ormai lo contestano tutti. Dal capo dello stato ai peones del suo ufficio. L’altro giorno lo ha fatto un pm semisconosciuto, che non abita né sta in pianta stabile sui giornali né in tv e addirittura non ha nemmeno un profilo su Facebook. “Perché, ad oggi – ha scritto Marco Verzera a Francesco Messineo – non è stato divulgato via mail l’avviso di conclusione delle indagini preliminari o (se formulata) la richiesta di rinvio a giudizio del procedimento 11719/12, in modo da consentire a ciascun collega di farsi almeno un’idea sommaria, ma pertinente, delle contestazioni formulate dal nostro ufficio?”.

    Palermo. Ormai lo contestano tutti. Dal capo dello stato ai peones del suo ufficio. L’altro giorno lo ha fatto un pm semisconosciuto, che non abita né sta in pianta stabile sui giornali né in tv e addirittura non ha nemmeno un profilo su Facebook. “Perché, ad oggi – ha scritto Marco Verzera a Francesco Messineo – non è stato divulgato via mail l’avviso di conclusione delle indagini preliminari o (se formulata) la richiesta di rinvio a giudizio del procedimento 11719/12, in modo da consentire a ciascun collega di farsi almeno un’idea sommaria, ma pertinente, delle contestazioni formulate dal nostro ufficio?”. Il procedimento 11719/12, per essere chiari, è quello sulla trattativa fra mafia e stato, la madre di tutte le inchieste, secondo alcuni pm della procura di Palermo: ogni giorno, da mesi, se ne leggono su molti giornali, alcuni in particolare, i più minuti dettagli. Perché allora, protesta il magistrato palermitano col suo capo, Messineo, non ci avete dato neanche le carte che sarebbero state il minimoindispensabile per avere la possibilità di capire da noi di cosa si parla? Democrazia, si chiama questa.

    Antonio Ingroia va in giro per l’Italia a criticare questo e quello e Marco Verzera contesta il capo dell’ufficio e indirettamente anche il suo vice, lo stesso Ingroia, deus ex machina della procura. Al di là delle critiche, magari interessate e comprensibili, degli imputati Nicola Mancino, Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri; al di là delle perplessità e/o degli imbarazzi dello stesso capo dello stato, di Luciano Violante, di molti magistrati di tutta Italia, tra cui l’ex presidente dell’Anm Giuseppe Cascini, sull’inchiesta delle inchieste ci sono dubbi e perplessità da parte dei magistrati della stessa procura. Non ha firmato le conclusioni e la richiesta di processo lo stesso Messineo. Non ha firmato uno dei titolari del fascicolo, Paolo Guido. Remano contro anche loro? Sono pavidi, temono che finalmente venga fuori la verità? Eppure attorno a questa indagine si sta distruggendo un ufficio. Dopo mesi, anni di mugugni con cui la procura aveva ingoiato – ad esempio – la molto discutibile enfasi e l’alone di santità giudiziaria che avevano circondato un pataccaro come Massimo Ciancimino, Verzera è stato il primo a contestare apertamente la gestione che ha consentito tutto questo. Poi è arrivato anche un altro peone, Maurizio Agnello: “Che fine hanno fatto i ripetuti richiami e gli appelli, formulati nelle assemblee, allo spirito di gruppo e all’unità dell’ufficio? Ricordo che, fino a qualche tempo fa, per prassi consolidata, venivano trasmessi a tutti i sostituti gli atti e i provvedimenti più rilevanti”. Qualche tempo fa. Perché più d’uno ragiona, alla procura di Palermo, come l’Uomo qualunque: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Messineo non è un uomo qualunque: è il capo della procura di Palermo. Lui lascia però che gli altri facciano i bagni di folla, incassino standing ovation, firmino autografi e copie di libri. E appare sempre più solo, isolato, depresso, parafulmine di tutte le critiche, degli attacchi, di possibili procedimenti disciplinari: qualcuno dice che si sia giocato il posto di procuratore generale, cui ambiva per togliersi dalla mischia. Si trova a pagare le conseguenze di un’inchiesta che ormai vive del sostegno popolare invocato nelle piazze, giorno dopo giorno, dall’ormai prossimo partente per il Guatemala, Ingroia. Chi si azzarderà ad assolvere un imputato di questo processo, sapendo che  verrà accusato di fermare la verità? Chi dice che non siano pronte contro i giudici traditori il doppio delle 157 mila firme raccolte dal Fatto a favore dei pm di Palermo?

    Dove interrogare Berlusconi?
    Ecco, anche alla procura di Palermo non apprezzano più che i colleghi cerchino il tifo da stadio. Il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, lo dice chiaro: i magistrati non devono cercare il consenso popolare. E l’ufficio inquirente un tempo diretto da Caselli e Grasso è sempre più sfilacciato. La tensione spacca anche il pool, su fatti banali. Per esempio, dove interrogare Berlusconi, in un’altra indagine-madre, quella sulla presunta estorsione subita dal Cavaliere per opera di Dell’Utri? A Roma o a Palermo? Nella Capitale subito o nel capoluogo siciliano una settimana dopo? Ingroia e Messineo hanno scelto la prima soluzione. Poi, forse per ripicca, hanno deciso che dovevano andare solo tre pm, lasciando fuori – ufficialmente per motivi di anzianità – Nino Di Matteo e Francesco Del Bene. Se litigano fra di loro anche i santi, apriti cielo.