A un vescovo scortese

Giuliano Ferrara

E' sgradevole e offensivo che un vescovo cattolico e teologo come Bruno Forte, titolare a Chieti e Vasto, si comporti in modo intollerante con chi dissente da lui e dai più. Ma ci passo sopra e vado presto al sodo. Si dice indignato con il mio giudizio sul cardinal Martini, e affida l'indignazione al vaticanista del Corriere Gian Guido Vecchi, che non cita l'oggetto dell'indignazione perché nasconde un vezzo professionale di serie B sotto modi che una volta erano da sala stampa (non più da quando c'è quell'uomo intelligente e simpatico che è Padre Lombardi, della Compagnia di Gesù). 

Leggi B-XVI, una sintesi purificatrice con i luterani (nella fede) - LeggiUna verità su Martini nel giorno dell'addio al possente gesuita - Leggi Controversia su Martini - Leggi Il gesuita - Leggi Non barate, l'accanimento terapeutico non è mai piaciuto alla chiesa

    E’ sgradevole e offensivo che un vescovo cattolico e teologo come Bruno Forte, titolare a Chieti e Vasto, si comporti in modo intollerante con chi dissente da lui e dai più. Ma ci passo sopra e vado presto al sodo. Si dice indignato con il mio giudizio sul cardinal Martini, e affida l’indignazione al vaticanista del Corriere Gian Guido Vecchi, che non cita l’oggetto dell’indignazione perché nasconde un vezzo professionale di serie B sotto modi che una volta erano da sala stampa (non più da quando c’è quell’uomo intelligente e simpatico che è Padre Lombardi, della Compagnia di Gesù). Nel mio pezzo di sabato scorso, “Il gesuita”, avrei distorto il concetto ascetico, teologico e mistico di “indifferenza”, contenuto negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Su questa base avrei, nell’opinione dell’arcivescovo, attribuito al compianto cardinale una inclinazione al relativismo etico che non esiste al mondo, che gli è sempre stata del tutto estranea, perché l’indifferenza ignaziana “è l’esatto opposto del relativismo, significa proprio essere indifferenti ai nostri gusti per essere obbedienti alla volontà di Dio!”. Punto esclamativo, che ben sorregge l’indignazione. “Risibile” è poi ogni contrapposizione con il Papa, che Martini venerava. Punto, senza esclamativo. Devo abiurare le mie idee perché Forte è un successore degli apostoli e un teologo di rinomata fama? L’anatema riguarda anche Michele Serra, che ha definito Martini “capo dell’opposizione”? Anche Il Fondatore, che ha ripreso il titolo di Riformatore? Non posso abiurare. La mia anima, al contrario di tante altre, molte anche anime belle, non è affidata al reggitore della diocesi di Chieti, ma a una ragione rispettosa della fede degli altri. Non mi resta che argomentare meglio, sperando di farmi capire.

    Solo un rilievo pro domo mea, stilistico. Ho rispetto per il cardinal Martini e per la sua memoria. Lo conobbi, lo intervistai sulla sua lettera pastorale “Il lembo del mantello”, corse guardingo interesse reciproco e Martini non corresse una sola parola del testo che gli rimisi dopo il colloquio. Un colloquio fra relativisti, se posso dir così. Di quelli che vanno a stanare Dio dal talk show o dal Web. Fu il mio peccadillo di riottismo infantile. Ma a parte la conoscenza personale, sono capace di leggere, di mestiere scrivo, e quando ho visto l’intemerata vescovile domenicale contro quel che avevo scritto venerdì per sabato, avevo già prodotto, di sabato, un articoletto uscito ieri in cui invitavo i miei amici intransigenti, fra i cattolici, a considerare la bellezza della sua ultima confessione in pubblico, l’intervista dell’8 agosto a un confratello gesuita e a una giornalista (citati per nome, come si conviene tra non vaticanisti).

    Sostenevo, per chi (sono molti) non l’abbia letto, che la lotta tra il tempo e l’eternità, tra l’immutabile e il contingente, ha una sua asprezza drammatica, è certamente un problema per la chiesa. Platone, d’altra parte (o “dal canto suo”, come scriverebbe Eugenio Scalfari, martiniano e libertino dubbioso) definiva il tempo come “immagine mobile dell’eternità”, il che mi è sempre sembrato la chiave di volta per capire tutto, sebbene la scienza moderna abbia scelto la definizione meccanicistica, altrettanto interessante ma meno decisiva ai fini della buona vita e della salvezza oltre la morte, di Aristotele, il filosofo che definì il tempo come “numero del movimento secondo il prima e il poi”.  Anche nel breve ritratto eulogico precedente avevo avuto parole di genuino apprezzamento per le doti intellettuali dell’esegeta biblico e studioso, senza escludere che nella sua funzione pastorale e nella sua umanità fosse amico degli umili eccetera (perché avrei dovuto? ma perché avrei dovuto limitarmi a questo su un giornale laico?). Piantiamola dunque di mettere odio intollerante nella critica altrui per esprimere il proprio, nel caso, o altri malmostosi sentimenti.

    Veniamo alla sostanza, oltre l’indignazione sempre vacua e la caducità di una polemica d’occasione (nella chiesa purtroppo se ne fanno tante allo scopo di “posizionarsi”, come si dice con brutta espressione). Io non sono un giansenista né tampoco un puritano, questo dovrebbe essere assodato, per quel che conti. Ma mi è capitato di leggere la pedagogia cristiana di Pascal in difesa dei giansenisti di Port Royal, contenuta nelle Lettere a un provinciale eccetera (giugno 1657), insomma in una delle più limpide, teatrali, faziose e intrepide testimonianze della cultura cristiana e francese. In particolare la quinta lettera, che sottopongo senz’altro all’attenzione dell’arcivescovo Forte. E’ ovvio che l’indifferenza gesuitica è un’ascesi, ma intramondana, come dicevo è un “concetto teologico vertiginoso e uno spunto mistico”, quindi non è indifferentismo agnostico o una forma di relativismo rispetto alla fede, non sono proprio così scemo, sono scemo, d’accordo, ma non così.

    Il problema è che da tempo, da molti secoli prima del banale articoletto del Foglio in memoria del cardinale, alla spiritualità e ascesi dei membri della Compagnia, che ammiro di vera testa e di vero cuore, è attribuita una inclinazione al relativismo in fatto di cultura e di morale. Per la verità lo stesso Martini, poche settimane dopo l’elezione del professor Ratzinger al Soglio di Pietro, avvenuta con il suo stesso voto dopo una campagna del futuro Benedetto XVI contro “la dittatura del relativismo” culturale e morale, rivendicò in una celebre omelia, in diretta e leale polemica con il nuovo Pontefice e con le sue idee guida, l’esistenza di un “relativismo cristiano”. Occorre non tradire la sincerità di Martini con eccessi di ipocrisia ecclesiale, per quanto motivati da posizionamento “progressista”. Vi prego, siate bravi preti, teologi composti, successori degni degli apostoli, e siatelo sempre in spirito di verità, cooperatori della verità, mica siete dei giornalisti.

    Bossuet definiva i gesuiti “esperti in benevolenza”, in questo fu una carogna. E di uno di loro tra i più spericolati casuisti, Etienne Bauny, diceva che “fa scivolare un cuscino sotto le chiappe del peccatore” (oops, non è ovviamente un ritratto di Martini, ma dei martiniani di complemento sì). Questo cuscino che scivola e questa benevolente expertise sono cosa diversa, Sua Eccellenza consentirà (e spero lo consenta anche il martiniano Adriano Sofri, uno che nella morale personale la casuistica non sa nemmeno dove stia di casa), dalla distinzione canonica tra l’errore e l’errante, conosciuta anche ai papi fulminanti dell’Ottocento, che peraltro ne fecero un uso per così dire sparagnino.

    Per dirla con Roger Duchêne, il secentista (citato in un buon libro di Jean Lacouture) che pure attribuiva a Pascal dei toni da “impostura” per la sublime e immortale violenza macellaia con cui prese i gesuiti nel mirino, “la commedia inventata da Pascal mette in scena il problema dello statuto dell’azione umana”. Che non ci sia anche oggi e soprattutto oggi, ma in ogni tempo infine, un problema di “statuto dell’azione umana”, che forse va addirittura oltre le polemiche feroci sulla grazia, sulla predestinazione, su molinismo e agostinismo, su mille altre questioncelle teologiche di cui Ella, gentile Bruno Forte, è un esperto benevolente?

    La chiamano morale, meglio dire cultura, criterio di vita pubblicamente discutibile nel rispetto delle persone e delle scelte private, e naturalmente della ragione umana che è intersoggettiva, è sensibile a una verifica pubblica attraverso la discussione. Non credo, come credeva fermamente il gruppo di Port Royal, fortunato per disporre di un portavoce come Blaise Pascal, che i gesuiti siano opportunisti alla ricerca del potere, non solo questo, e poi il potere si è dissolto ampiamente nel mondo postmoderno, è una fiction, credo invece che il loro sia zelo missionario, relativismo da inculturazione obbligata,  e che lo sbocco finale sia una completa secolarizzazione della chiesa cattolica apostolica e anche un poco romana. Sono romano, papista almeno quanto i reverendi padri sebbene senza martirio e non perinde ac cadaver, e penso da laico che un mondo totalmente secolarizzato diventa un mondo banalmente religioso, in cui la fede cristiana non è più segno di contraddizione, in cui il politicamente corretto è il nuovo idolo obbligatorio, per tutti, e dunque totalitario.

    Di nuovo la parola a Pascal (modesta traduzione mia, all’impronta): “Sappiate che l’oggetto della loro azione non è di corrompere i costumi: non è il loro disegno. Ma non hanno nemmeno come scopo unico quello di riformarli. Sarebbe cattiva politica. Ecco che cosa pensano. Hanno una opinione di sé stessi abbastanza buona da credere che sia utile e anzi necessario alla religione che il loro credito si estenda per ogni dove, e che appartenga a loro il governo di ogni coscienza. Da questo principio si inferisce senza difficoltà che se reclutassero solo dei casuisti permissivi, manderebbero in rovina la loro aspirazione principale, abbracciare tutti, perché coloro che sono davvero pii cercano una condotta più sicura e solida. Ma siccome i pii sono pochi, i gesuiti non hanno bisogno di direttori spirituali severi in grande quantità per assisterli. Pochi per pochi; invece una folla di casuisti permissivi s’offre alla folla di coloro che cercano permessi. E’ in ragione di questa condotta, necessaria e accomodante, come la chiama P. Petau, che tendono le braccia a chiunque incontrino (…) Così fanno di ciascuno un loro amico, e si difendono contro tutti i nemici. Ove fosse loro rimproverato il permissivismo estremo, subito esibirebbero in pubblico i loro direttori di coscienza austeri (…)”.

    Segue un’intemerata molto ingenerosa e molto efficace contro le missioni asiatiche, fondata sulla prescrizione gesuitica di portare il Cristo crocifisso nascosto nell’abito, perché da quelle parti fa scandalo la sola idea di un Dio che soffre, e di pensare a lui mentre si adorano gli idoli pagani. E nella sua esasperazione polemica, nel suo errore da distinguere dall’errante, Pascal, cristiano combattente e scrittore problematico per la chiesa cattolica, ma esempio di stile e di rigore personale fino alla morte e oltre, si fida di citare un perfetto verso d’Ovidio, il licenzioso, buono alla bisogna per descrivere una morale pagana: “Se un Dio ci costringe, un altro Dio ci libera”. Pascal era un genio religioso e letterario esperto delle ruseries della teologia postmoderna, come si vede.

    Il paradosso è che i gesuiti, una Compagnia illustre (lo ripeto) di cui il cardinale faceva parte et pour cause (lo ripeto), per ragioni complesse, ma tutto sommato lontane dal nucleo del magistero degli ultimi tre papi, hanno deciso di assimilare lo spirito protestante che li combatté con tanto accanimento. Da un mezzo secolo e più, questo hanno deciso di fare. Questo è parte della gloria particolare e originale dell’ordine, non è banalmente un’eresia o è un’eresia missionaria, ed è un problema per la chiesa. Ma se si portasse alle estreme conseguenze conciliari il complesso delle suggestioni modernizzatrici del cardinal Martini e di altri in materia di relativismo etico, sempre per realizzare il fine della creazione, sempre in obbedienza a Dio e a esclusione del male assoluto prescritto espressamente, il cattolicesimo diventerebbe un’anticaglia, il Papa sarebbe un primus (forse) inter pares, il popolo di Dio come assemblea dominante si accomoderebbe in ogni casa tranne che nella agostiniana casa di Dio, i preti si sposerebbero e divorzierebbero, le donne prenderebbero la parola in chiesa (addirittura), chiunque arda potrebbe sposarsi con chiunque, il preservativo diventerebbe la bandiera culturale delle generazioni e non un rimedio tecnico da trattare con estremo pudore, l’aborto verrebbe sanzionato come un “caso” verso il quale si eserciti solo benevolenza da esperti, e la frontiera della vita umana o di una cultura non arrendevole al riduzionismo biologico e storico sarebbe arretrata, questione bruciante, su una linea di resa pacificatrice alle ragioni del secolo montante. Nel che in fondo c’è poco di nuovo, e quel che c’è di nuovo alla mia ragione laica non piace. Va bene come abiura?

    Leggi B-XVI, una sintesi purificatrice con i luterani (nella fede)

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.