L'ostracismo sarebbe un regalo e un errore, dice Assouline

Redazione

Nel suo ultimo libro “Langue fantôme”, che raccoglie le pagine sul caso Breivik che ripubblichiamo e che stanno generando scandalo in Francia, Richard Millet passa in rassegna alcuni scrittori contemporanei, a cominciare dai Nobel Mario Vargas Llosa (“il luogo comune politicamente corretto”) e Jean-Marie Gustave Le Clézio (“manicheo”).

    Nel suo ultimo libro “Langue fantôme”, che raccoglie le pagine sul caso Breivik che ripubblichiamo e che stanno generando scandalo in Francia, Richard Millet passa in rassegna alcuni scrittori contemporanei, a cominciare dai Nobel Mario Vargas Llosa (“il luogo comune politicamente corretto”) e Jean-Marie Gustave Le Clézio (“manicheo”). E Umberto Eco, accusato da Millet di essere il “paradigma della decadenza della letteratura”, sinonimo di “distruzione della lingua”, di “regressione letteraria” e di “insignificanza pomposa”. Il Nome della Rosa, scrive l’editor e autore di Gallimard, non sarebbe altro che “un romanzo a uso dei quasi-analfabeti”.

    Di seguito riportiamo alcuni giudizi contenuti nel Blog sul Monde di Pierre Assouline, scrittore intelligente nato a Casablanca nel 1953, già collaboratore di grandi testate della gauche tra le quali il Nouvel Observateur.

    “Richard Millet è tutto salvo che uno scrittore insignificante. L’aggettivo è scelto di proposito: è il termine che torna più spesso nei suoi testi per designare comprensivamente l’essenziale di quanto è pubblicato come letteratura nella maggior parte degli scrittori contemporanei. Insignificante lui non lo è, né nella sua opera narrativa né nei suoi saggi né nel suo impegno personale, e potrei dire lo stesso della posizione che vuole rivestire sulla scena letteraria e politica se denunciasse l’inanità dello spettacolo che essa produce. Escluderlo dal dibattito delle idee trattandolo da pazzo, da reazionario, da fascistoide o da razzista equivale a farne un martire sacrificato sull’altare della Letteratura, morto nel campo d’onore della difesa della lingua e dunque dell’anima perduta della Francia, un ostracismo che a lui forse piacerebbe anche ma non ha alcun interesse generale. Bisogna leggerlo e discuterlo perché quello che mette i gioco non è affatto insignificante”.

    “Si vede come il soldato perduto di una causa perduta, franco tiratore isolato nel campo di rovine morale e intellettuale di un’Europa devastata, oggetto dell’odio unanime dei contemporanei, con Lévi-Strauss come solo scudo per proteggersi dall’accusa di razzismo. Nella sua deriva paranoica, il proscritto autoproclamato si staglia solo, abbandonato, solitario. Minoritario dentro una minoranza. In ritiro come Blanchot nel luogo tutto suo delle Pensèes. Di più e meglio: uno scrittore maledetto. Suicida nella società, s’immagina come ultimo araldo della purezza in una discarica di spazzatura – come Artaud, più o meno, il quale però non sedeva nel comitato di lettura della Gallimard, era rinchiuso nel manicomio di Rodez. Non solo vuole mettersi nei panni di Thomas Bernhard, per un processo piuttosto ingenuo di identificazione, vuole essere il solo a difenderlo dall’accusa di nichilismo e il solo ad averne scoperto la potenza  comica (mi spiace ma non è così, altri l’hanno fatto). Su molti piani (difesa della lingua o di una certa idea dell’istruzione e dell’insegnamento, denuncia dell’opinione politicamente corretta) lo hanno preceduto Renaud Camus, Alain Finkielkraut, Pierre Guyotat, Pierre Bergougnioux, Pierre Michon e altri. Ma spaventato dal mondo che si annucia, vorrebbe essere l’ultimo dei Mohicani”.