Un funesto Biagi dei ricchi

Redazione

La biografia di Walter Cronkite scritta da Douglas Brinkley racconta tutto quello che una persona di buonsenso vorrebbe sapere sul tema, e te lo racconta in modo scorrevole e con rigorosa attenzione alle fonti. Racconta anche una storia più ampia, quella del conformismo politico e ideologico dei media americani nei 65 anni successivi alla Seconda guerra mondiale, e della solidarietà inconsapevole del blocco mediatico-universitario di area progressista.

di Conrad Black

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    Pubblichiamo l’articolo apparso sul New York Sun dal titolo “Così Walter Cronkite ha tradito il giornalismo e aizzato la rabbia che oggi sta ardendo contro i media”. Prima edizione National Review.

    La biografia di Walter Cronkite scritta da Douglas Brinkley racconta tutto quello che una persona di buonsenso vorrebbe sapere sul tema, e te lo racconta in modo scorrevole e con rigorosa attenzione alle fonti.
    Racconta anche una storia più ampia, quella del conformismo politico e ideologico dei media americani nei 65 anni successivi alla Seconda guerra mondiale, e della solidarietà inconsapevole del blocco mediatico-universitario di area progressista, serenamente ignaro delle interpretazioni alternative alle sue pagliacciate sulla guerra del Vietnam e sul caso Watergate. Non c’è la minima considerazione, nella mente dell’autore o nel suo lavoro, che la guerra in Vietnam avrebbe potuto essere vinta; oppure che alla guerra, iniziata peraltro dai Democratici con Kennedy e Johnson, ci fosse alcuna alternativa plausibile, morale o politica, se non la più rapida sconfitta degli Stati Uniti e la conquista dell’Indocina da parte dei comunisti. Né, in 667 pagine di testo, si spende una parola per considerare se la cacciata di Nixon e la ferita imposta all’Amministrazione non siano state altro che un atto di coraggio e professionismo generoso, oltre che di catarsi nazionale.

    Le persone interessate a scoprire le origini della rabbia collettiva contro i media nazionali – che è stata terreno di coltura fertile in cui sono cresciuti la Fox News, Rush Limbaugh, Ann Coulter, Hannity, Beck, l’intero Tea Party, schiere di milioni di persone con in mano i forconi contro i giornali e l’establishment liberal dei giornali, dell’università, di Hollywood e Wall Street – non devono andare oltre e cercare altro che non sia questo libro.
    Walter Cronkite era una persona perbene e un uomo di compagnia, che letteralmente non avrebbe fatto del male a una mosca, era gentile coi suoi figli, generalmente generoso coi colleghi giovani, autenticamente curioso delle notizie e, a suo tempo, un energico reporter. Aveva qualità umane non così diffuse nel suo ambiente. Riconobbe a Nixon un’uscita di scena decorosa e approvò il perdono presidenziale da parte di Ford. Il segreto del suo successo, ma questo Brinkley non lo scrive, era una fortunata combinazione di fattori: aveva la voce rassicurante di un medico di campagna nelle visite a domicilio; baffo maturo e rassicurante, non scapestrato e inquieto alla Errol Flynn o Clark Gable; molto meno assurdo, come quello di Hitler. Il suo culto di americano medio e il suo essere sempre a posto ma senza fronzoli era una truffa: ha influenzato il tono e l’ordine delle sue storie con i propri pregiudizi liberal, accuratamente nascosti dietro la sua maschera onesta da uomo della porta accanto.

    Inoltre l’altro piccolo segretuccio inconfessabile di Walter – e io l’ho conosciuto un po’ e posso testimoniarlo – è che al di fuori del suo settore non era molto intelligente. Un’estate affittai una casa vicino alla sua a Martha’s Vineyard e lo incontravo spesso nei giri newyorchesi. Non avrebbe potuto essere più squisito e non era né vanesio né cattivo, ma obiettivamente sapeva poco di quello che raccontava in tv. Questo era sorprendente, dato che il suo programma degli anni Cinquanta, “You are Here”, ricostruiva grandi momenti storici. Ricordo una di quelle registrazioni di discorsi famosi e notizie d’epoca in cui spiegava che dopo l’abbandono della conferenza di Monaco e l’invasione della Cecoslovacchia, la Polonia e l’Ungheria presero pezzi del paese colpito “come cuscinetto contro la Germania”. Quando lo conobbi abbastanza bene, domandai a Walter spiegazioni, visto che si trattava di un nonsense storico e geografico, e lui era perplesso, ma supposi che fosse un tentativo di conciliare l’opinione pubblica dei polacchi americani con la Guerra fredda.
     
    Una sera raccontò ai colleghi corrispondenti
    che durante la visita di stato in Cina del 1972 in cui accompagnò Nixon avevano trovato una “luna hitleriana, come la chiamavamo in guerra”. Pensai che fosse impazzito. Spiegò che intendeva una luce ideale per bombardare i bersagli tedeschi nel 1942-1945, ma continuò a sembrarmi una metafora molto bizzarra per un viaggio diplomatico.

    Era, come Edward R. Murrow, Eric Sevareid, Theodore H. White e altri, uno di quei giornalisti che implicitamente ti fanno capire di avere uno sguardo cosmopolita e un passato perfino affascinante e avventuroso, per aver visto la guerra da corrispondente e le grandi capitali del vecchio mondo nell’inverno inoltrato del combattimento. Cronkite arrivò più vicino di molti altri al teatro di guerra e gli piaceva mettersi il giubbetto da combattimento. Era un buon reporter, ma era solo un reporter, fino alla sua trasfigurazione nell’allegoria della credibilità come mezzobusto. Durante la sua carriera da giornalista fu accanitamente di parte, ma poi una volta in video compì un dignitoso sforzo per dissimularlo. Ma nei suoi giorni di gloria da anchorman della Cbs fu anche commentatore radiofonico. Come ricorda benevolmente Brinkley, “l’orrore per la continuazione della guerra del Vietnam da parte di Nixon costrinse Cronkite a diventare l’opinionista di sinistra della Cbs”.

    Brinkley sottolinea positivamente il fatto che Cronkite utilizzò espressioni dissimulatorie come “alcune persone ritengono” per attaccare Nixon, e che lo stesso Cronkite disse che “la parte divertente del gioco era ridicolizzare Nixon”. Cronkite “attaccò anche l’Amministrazione Nixon con una certa regolarità per aver abbandonato le classi meno abbienti, per gli insulti razzisti, per le violazioni alla Costituzione americana”. Non riferì però che Nixon risparmiò al paese l’incubo dell’accompagnamento coatto dei bambini a scuola contro la segregazione; che invece mise fine all’apartheid scolastico grazie ad accordi distrettuali e regionali; o che il livello di povertà e di criminalità scese in maniera sostanziale sotto la sua Amministrazione.

    Naturalmente Cronkite aveva pienamente diritto alle sue opinioni e perfino a esprimerle finché queste si configuravano come commenti e non come notizie; ma sebbene fosse assai professionale, non fu sempre così. Doveva molta della sua visibilità al suo operato come corrispondente dall’esercito del generale Eisenhower, e il suo più grosso scoop fu il ritorno di Eisenhower in Normandia vent’anni dopo il D-Day; ma poi contestò la candidatura di Ike alla Casa Bianca perché “cercava di sfruttare il suo status di eroe di guerra”. Come George Washington, Andrew Jackson, Theodore Roosevelt, e altri sette presidenti, insomma. Cronkite aveva ogni diritto di sostenere Adlai Stevenson, ma non sostenendo che un generale non può correre per la presidenza.

    Cronkite venne regolarmente considerato un potenziale candidato dai Democratici. Robert Kennedy gli chiese di candidarsi al Senato per il collegio di New York, e a un certo punto venne spinto (comparvero pure adesivi sulle macchine americane) a correre anche come vicepresidente nel 1972 affiancando George McGovern. Brinkley anche qui gli dà una mano: “Ciò che Cronkite ammirava di più in McGovern, la ragione per cui avrebbe almeno preso in considerazione l’idea del ticket democratico, era la condanna dei folli attacchi di Nixon coi B-52 su Hanoi e Haiphong, che uccidevano decine di migliaia di civili nordvietnamiti”. Non uccidevano tutti questi civili, e aiutarono a porre fine alla guerra. Quando “Cronkite sospettò che l’Amministrazione Nixon stesse cercando di creare consenso per il suo ultimo aiuto all’esercito sudvietnamita”, lui, ex corrispondente di guerra, ignorò il fatto che è ciò che normalmente si fa con gli alleati, e che Nixon stava portando il paese definitivamente fuori dalla guerra iniziata e largamente perduta dai suoi amici Democratici, e che l’armata sudvietnamita aveva sconfitto i comunisti, con l’ausilio dell’aviazione militare statunitense, nell’aprile 1972.

    Brinkley ci dice che “Walter Cronkite rinunciò alle elezioni per proteggere l’integrità del giornalismo americano”. Indovinare le sue motivazioni di allora significherebbe avere la palla di vetro, sebbene la premonizione che McGovern stesse per correre la più disastrosa e incompetente campagna della storia americana potrebbe aver avuto il suo peso. Data la sua posizione, non avrebbe permesso che il suo nome fosse sventolato come un candidato qualunque. Con i suoi perenni e sottili attacchi ai tentativi americani di salvare il Vietnam del sud, Cronkite contribuì in maniera rilevante alla distruzione dell’integrità giornalistica americana.
     
    Ho già detto la mia su questo in altri articoli
    e in altre occasioni, ma i sudvietnamiti, che regolarmente rinnovavano il loro supporto aereo agli Usa, avrebbero potuto vincere, dopo la partenza delle forze americane di terra; e la richiesta di Cronkite di una pace negoziata dopo l’offensiva del Tet del 1968, che sapeva essere una richiesta di resa, visto che Hanoi non avrebbe negoziato null’altro a quei tempi, interpretò erroneamente ciò che avvenne in Vietnam; contribuì ad affondare il suo amico Lyndon Johnson, e riempì Cronkite di un arrogante attaccamento alla sconfitta nel Vietnam che non riconsiderò mai neanche alla luce dei cambiamenti positivi che intervennero nel corso della guerra. Quasi tutto sul Watergate è una truffa, con la possibile eccezione (probabilmente indimostrabile) delle ragioni per cui Nixon autorizzò il pagamento delle spese legali ad alcuni degli imputati e alle loro famiglie.

    L’intera tesi Cronkite-Brinkley secondo cui “Nixon (…) fu l’antieroe e (…) lavorò dal lato oscuro della politica” fu una mostruosa diffamazione di un presidente capace, magari a volte nevrotico, e una ferita quasi mortale all’America in quanto società politica. Finché l’America liberal non avrà fatto i conti con ciò che fece in Vietnam e col Watergate, o finché non abbandonerà almeno l’affettazione e l’esaltazione delle loro certezze morali, non ci sarà nessuna forma di consenso politico che sarà possibile raggiungere in America. E facendo le barricate contro un altro miracolo Reagan (per evitare il quale il mentore di Brinkley, Stephen Ambrose, ha abiurato la sua fobia anti Nixon nella sua verbosa biografia del presidente in tre volumi, e ha pianto il suo impeachment), continueranno a esserci presidenti dimezzati e un Congresso assetato di soldi (da entrambi gli schieramenti).
     
    A Douglas Brinkley una volta fu commissionata una recensione di un mio libro e invece recensì me, e io non farò lo stesso con lui. I lettori dovrebbero essere consapevoli che si tratta di uno scribacchino Democratico almeno quanto lo stesso Cronkite. E’ anche notoriamente scortese, collaboratore del volgare, patinato e pretenzioso Vanity Fair, e uno dei principali propalatori del mito di John Kerry come illuminato eroe di guerra – qui stranamente ammissibile come presidente. Ma è anche uno scrittore decoroso e un ricercatore competente. Non c’è niente di male a essere Democratici, ma la partigianeria senza soluzione di continuità non è storiografia. Questa è una biografia informativa su Walter Cronkite, ma soprattutto la dimostrazione delle dimensioni e del vigore del virulento aneurisma liberal che ancora minaccia i vasi sanguigni politici dell’America.

    di Conrad Black
    (traduzione di Michele Masneri)

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