A ogni latitudine l'ambiguità del mestiere è fatale ai reporter tutti d'un pezzo

Giuliano Ferrara

Douglas Brinkley si è fatto biografo di Walter Cronkite, personaggio-mito del giornalismo mondiale morto nel 2009, il reporter e conduttore delle news della Cbs di cui il presidente Lyndon B. Johnson disse, al culmine della crisi del Vietnam, “se ho perso Cronkite, ho perso il paese”. Il libro, uscito con clamore un paio di mesi fa, contiene cose poco lusinghiere sull’idolo televisivo e mediatico dei liberal e dei leftist di ogni continente e di una o due generazioni ideologiche.

Leggi Un funesto Biagi dei ricchi di Conrad Black

    Douglas Brinkley si è fatto biografo di Walter Cronkite, personaggio-mito del giornalismo mondiale morto nel 2009, il reporter e conduttore delle news della Cbs di cui il presidente Lyndon B. Johnson disse, al culmine della crisi del Vietnam, “se ho perso Cronkite, ho perso il paese”. Il libro, uscito con clamore un paio di mesi fa, contiene cose poco lusinghiere sull’idolo televisivo e mediatico dei liberal e dei leftist di ogni continente e di una o due generazioni ideologiche (creste, abusi cosiddetti d’influenza, conflitti di interesse, disinvolture, bugie, faziosità politica dissimulata, errori di linguaggio irrispettosi del diritto a un’informazione fattuale, trucchetti vari). Walter non passerebbe l’esame dei codici etici attuali, la sua immagine sarebbe distrutta nel mondo del Web e della libera critica eticamente corretta, e questo ha fatto notizia. Per noi fa ancora più notizia questo meraviglioso breve saggio di Conrad Black, già editore del Telegraph di Londra e del Sun di New York (giornali conservatori, uno di tradizione e l’altro di innovazione), grande protagonista mondano del jet set internazionale, biografo insigne di Franklin D. Roosevelt, finanziere colpito da uno scandalo riguardante l’abuso dei beni sociali amministrati e a lungo incarcerato dopo condanna della giustizia americana (abbiamo pubblicato suoi articoli importanti dalla galera negli anni scorsi).
    La tesi di Black, come il lettore può constatare, è che il libro in realtà è corrivo, fa le pulci alla persona ma non affronta la vera questione: un reporter che non sia colto e intelligente al di fuori della sua abilità di mestiere guarda il mondo con occhi opachi, si sottomette alle tendenze d’opinione, e alla fine distrugge l’integrità e la trasparenza di un giornalismo che invocando il criterio dell’onestà e della buona causa produce al contrario deformazione della realtà, cronaca e storia.

    Black svolge una tesi molto estrema, e la argomenta con puntiglio cavalleresco, ma senza mollezze. La storia della right nation, cioè di un’America che ha rotto con la cultura liberal in modo spesso sanguinoso, creando le condizioni di una divisione di principio mai sanata da Goldwater (1964) ai Tea Party, nasce per lui proprio dal giornalismo alla Cronkite, un Enzo Biagi dei ricchi, e dai suoi equivoci su storici passaggi come il Vietnam e il Watergate. Nasce cioè dalla faziosità dissimulata come opinione convenzionale obbligata, un fenomeno per combattere il quale sono nate, dalla Fox ai radio talk-host come Limbaugh al resto, le mille iniziative di rottura del vecchio trasversalismo professionale americano all’insegna del fair play. Black scandalizza quando dice che lo scandalo Watergate è stato una frode e in Vietnam era evitabile l’unificazione armata comunista del Tonchino, se solo Nixon non fosse stato politicamente distrutto.

    Ma, come si sa, oportet ut, gli scandali sono benvenuti quando ci sia da capire quali sono le pietre d’inciampo nell’accertamento di verità difficili, oltre l’opinione consolidata e gigioneggiante dei più. L’analisi di Black è sottile, non si ferma a peccati e peccatucci (alcuni leggeri o volatili o ambigui come quelli di cui si parlò nel suo processo), procede oltre e compone un ritratto culturale e civile da cui si può anche in parte dissentire ma che illumina nel suo spirito critico, e spiega in effetti la resistenza all’ovvio di ceto, al correttismo di combriccola, che si è espressa con successo crescente in una parte decisiva dell’America e del resto del mondo occidentale. Anche i nostri reporter che idoleggiano la loro condizione al di sopra delle parti, che si credono fulgidamente indipendenti, e che pensano sufficiente l’idolatria dei fatti per un mestiere molto più complicato, dovrebbero posare la loro testolina su queste righe. Grazie.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.