
Ripartire dalla Thatcher che non abbiamo mai avuto
Il manifesto del think tank conservatore inglese “Centre for Policy Studies” dimostra che nonostante le profonde differenze storiche e culturali, in termini di cultura politica e di politica economica i guai e le questioni che la Gran Bretagna, quindi i suoi partiti, hanno dovuto e devono ancora oggi affrontare non sono poi molto dissimili dai nostri.
di Federico Punzi - jimmomo.it
Abbiamo chiesto ad alcuni blogger di area liberale e/o di centrodestra di leggere il manifesto per una nuova destra pubblicato ieri dal Foglio, e di commentarlo alla luce dell'annuncio del ritorno di Silvio Berlusconi come candidato premier nel 2013.
Il manifesto del think tank conservatore inglese “Centre for Policy Studies” dimostra che nonostante le profonde differenze storiche e culturali, in termini di cultura politica e di politica economica i guai e le questioni che la Gran Bretagna, quindi i suoi partiti, hanno dovuto e devono ancora oggi affrontare non sono poi molto dissimili dai nostri. Non c'è da stupirsene più di tanto, dal momento che fin dai suoi albori la storia dello Stato moderno (se non dell'umanità) può essere letta attraverso il rapporto conflittuale tra l'autorità politica e la libertà degli individui.
Ma se la Gran Bretagna e i conservatori britannici appaiono leggermente in vantaggio rispetto al Belpaese e al centrodestra italiano, è perché loro una Thatcher l'hanno avuta, noi no. Silvio Berlusconi avrebbe potuto e dovuto esserlo, ma non ne è stato in grado, per responsabilità sue e per impedimenti esterni che qui non è il caso di rievocare.
Basterà ricordare il principale errore, che si può facilmente rintracciare nella premessa del manifesto: «L'arte del governo non si riduce alla sola competenza. Per avere successo, un governo deve offrire un programma capace di combinare politiche efficaci a un'ideologia in grado di ottenere il sostegno pubblico facendo leva sui principi morali e sui valori intellettuali. Quanto maggiori sono le sfide pratiche da affrontare, tanto maggiore è la necessità di un'adeguata intelaiatura intellettuale». Insomma, «la chiarezza ideologica non è un optional». Eppure, intelaiatura intellettuale e chiarezza ideologica sono proprio gli ingredienti che sono mancati alle coalizioni guidate da Berlusconi, con le eccezioni della breve parentesi di governo del 1994 e della campagna elettorale del 2001. Se a ciò si aggiunge il progressivo venir meno anche della «competenza», abbiamo un quadro preciso del fallimento (soppesate cose buone, errori e occasioni mancate) delle esperienze di governo del centrodestra berlusconiano. E' francamente difficile immaginare che ora, con questa sua ennesima ricandidatura, Berlusconi possa riuscire laddove ha fallito in vent'anni, ossia nel dare al centrodestra una ideologia politica ben definita (con l'aggravante di possedere sia i mezzi finanziari sia il carisma per riuscirvi).
La «deriva» descritta, e temuta, nei 6 punti del manifesto è praticamente la realtà in atto da decenni in Italia, tanto che c'è da sorprendersi se non siamo ancora falliti. La nostra situazione è molto simile a quella del Regno Unito pre-Thatcher della fine degli anni '70. Da noi è ancora dominante l'ideologia dello Stato-padrone e del cittadino-suddito, della spesa pubblica (da rendere più efficiente sì, ma non da ridurre), del posto fisso, del “godersi” la pensione a 50anni, dell'inflazione per far fronte al debito. Una società che colpevolizza la ricchezza e il merito, che impedisce l'accumulo del capitale, che frustra gli sforzi dei singoli per arrivare alla propria affermazione, ignora le regole basilari dell'economia ed è destinata al declino. Anche per l'italia, dunque, è valido l'avvertimento che si legge nel manifesto: «Finché questa ideologia continua a dominare, le riforme fiscali, economiche e sociali sono sostanzialmente impossibili da realizzare».
Qui sta il peccato capitale di Berlusconi ed è qui, oggi, il limite dell'esperienza tecnica di Monti: il cambiamento può essere compiuto «soltanto con il sostegno dell'opinione pubblica, che, a sua volta, richiede una conquista sul piano morale e ideologico». Il Cav ha combattuto e vinto più volte la “battaglia per i cuori e le menti” degli elettori, ma si è fermato alla sua persona, all'idea di impedire che gli eredi del Pci andassero al governo. Il consenso non si è tradotto nell'adesione intima, a livello intellettuale, ad un progetto di trasformazione della società italiana. Monti ha portato al governo l'ingrediente della «competenza», ma non la battaglia ideologica. D'altronde, non era questo, dichiaratamente, il suo obiettivo. La lezione più importante del manifesto però è che per realizzare vere riforme bisogna conquistare l'opinione pubblica «sul piano morale e ideologico». Nessuno pensi, quindi, di perpetuare il “montismo” anche dopo il voto del 2013 nella forma politicamente anestetizzata di un asettico tecnicismo sostenuto da una grande coalizione. Per sperare di avere successo Monti deve politicizzarsi, schierarsi, combattere anche la battaglia ideologica.
E veniamo alla tragica anomalia della politica italiana, che non ha né una tradizione conservatrice né una laburista cui aggrapparsi. Da una parte democristiani, socialisti ed ex missini, corporativi e statalisti; dall'altra democristiani ed ex comunisti (che non hanno nemmeno letto bene Marx), assistenzialisti e collettivisti.
In Italia ancor più che in Gran Bretagna, dunque, è necessario davvero per il centrodestra ripartire dal capitalismo del libero mercato. Disfarsi della credenza diffusa (purtroppo anche a destra) che la crisi è colpa del libero mercato, quando a fallire semmai sono state tutte le aberrazioni introdotte dalla mano pubblica, dalle autorità di politica monetaria (le banche centrali) a quelle di politica fiscale (i governi). Il problema di fondo, infatti, è che l'illusione di una crescita economica basata sulle “bolle”, cioè creata artificialmente con gli steroidi della moneta facile e del debito, è funzionale agli interessi di breve periodo dei politici più di quanto lo possa essere una crescita equilibrata ed ordinata, basata sul migliore sfruttamento dei fattori produttivi.
Per questo, proprio per quanto si legge nel manifesto (che essendo rivolto ai conservatori britannici è più concentrato sul settore finanziario e bancario), nessun centrodestra può pensare di ripartire – e qui le orecchie ci permettiamo di tirarle anche al Foglio – dal keynesismo di Krugman. Al contrario, da un'economia monetarista, dall'imprenditorialità, e dalla “killer app” dell'individualismo, contro la progressiva espansione dello Stato in quest'ultimo secolo, che non conosce precedenti nella storia dell'umanità.
di Federico Punzi - jimmomo.it


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