Clima e diritti riproduttivi, truffa fallita

Redazione

L’inutile summit delle Nazioni Unite sul clima e lo sviluppo sostenibile che è stato chiamato Rio+20, e che si è appena concluso nella città brasiliana, ha segnato – in sordina – un’importante vittoria contro l’ideologia antinatalista. Quella che vede come campioni l’Unpfa e l’Ippf , i quali, in accordo con la Norvegia e l’Islanda, avrebbero voluto inserire nel documento finale di Rio+20 un richiamo ai “diritti riproduttivi” (leggi: aborto, sterilizzazione e contraccezione di massa), al fine di legare le politiche di “pianificazione familiare” per contrastare la crescita della popolazione alla ricerca di una crescita economica sostenibile.

    L’inutile summit delle Nazioni Unite sul clima e lo sviluppo sostenibile che è stato chiamato Rio+20, e che si è appena concluso nella città brasiliana, ha segnato – in sordina – un’importante vittoria contro l’ideologia antinatalista. Quella che vede come campioni l’Unpfa (Un Population Fund) e l’Ippf (International Planned Parenthood Federation), i quali, in accordo con la Norvegia e l’Islanda, avrebbero voluto inserire nel documento finale di Rio+20 un richiamo ai “diritti riproduttivi” (leggi: aborto, sterilizzazione e contraccezione di massa), al fine di legare le politiche di “pianificazione familiare” per contrastare la crescita della popolazione alla ricerca di una crescita economica sostenibile. E invece i nipotini di Malthus sono dovuti tornare a casa con le pive nel sacco. Un consistente gruppo di nazioni ha aderito alla sollecitazione della Santa Sede (che ha un seggio da osservatore in sede Onu) nel respingere una posizione che, oltre a essere profondamente offensiva per le donne – la promozione di aborto e sterilizzazione per il bene del clima e contro l’effetto serra non dovrebbe essere troppo anche per i pro choice più convinti? – è anche fuori dal tempo.

    Perché il nostro tempo è semmai segnato da un’emergenza contraria a quella paventata negli anni Sessanta dai fautori del controllo demografico “costi quel che costi”. Costi anche la politica del figlio unico obbligatorio nella Cina popolare, paese premiato nel 1983 dall’Onu per le sue magnifiche azioni di contenimento della popolazione, nonostante si sapesse già con quali metodi liberticidi e violenti venisse perseguito il “controllo della fertilità”. Metodi che, per la cronaca, non sono affatto cambiati, visto che qualche settimana fa la foto straziante di una donna cinese prelevata dalla sua casa e costretta ad abortire al settimo mese, ritratta sul letto d’ospedale accanto al suo bambino ormai senza vita, ha fatto il giro del mondo sul Web. E ha provocato finalmente un po’ di imbarazzo al governo cinese, che ha promesso sanzioni per i funzionari addetti alla pianificazione familiare, forse troppo zelanti, e ha graziosamente concesso la possibilità di un secondo figlio per quella donna.