I merkeliani oltranzisti bocciano l'operato di Fmi e Ue in Grecia

Marco Valerio Lo Prete

La Troika in Grecia ha fallito: il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea sono stati troppo ottimisti sulle capacità del paese di uscire dalla crisi economica, mentre la Banca centrale europea aiutando Atene ha aumentato i rischi per tutta l’area dell’euro, e così a guadagnarci da questa lunga fase di turbolenza dei mercati è stata soltanto la finanza internazionale.

    La Troika in Grecia ha fallito: il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea sono stati troppo ottimisti sulle capacità del paese di uscire dalla crisi economica, mentre la Banca centrale europea aiutando Atene ha aumentato i rischi per tutta l’area dell’euro, e così a guadagnarci da questa lunga fase di turbolenza dei mercati è stata soltanto la finanza internazionale. Il giudizio in questione non è quello di un convinto no global né di un economista liberal e impertinente à la Paul Krugman, ma è quanto messo nero su bianco dalla Stiftung Wissenschaft und Politik, l’Istituto tedesco per gli Affari internazionali e la sicurezza, fondazione finanziata direttamente dalla cancelliera Angela Merkel e nel cui board sono rappresentati tutti i partiti politici del Bundestag. Il taglio istituzionale della pubblicazione, evidentemente, non ha indotto gli autori a smussare linguaggio e conclusioni, come dimostra già il titolo del report: “Il fallimento della Troika ad Atene”. Lo studio dimostra ancora una volta – come analizzato ieri dal Foglio – che dietro la Merkel si muove un “partito” di falchi, animati innanzitutto da Bundesbank e industriali, che chiede ancora più rigore fiscale in Germania e in Europa. Non a caso ieri il governatore della Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, ha ribadito al Wall Street Journal che “la crisi può essere risolta solo continuando con riforme strutturali dolorose e con il consolidamento fiscale”, e ha rivendicato le sue critiche alle scelte troppo espansionistiche della Bce di Mario Draghi.
    E’ in questo filone intransigente che si inserisce lo studio appena pubblicato dalla merkeliana Stiftung Wissenschaft und Politik. La convinzione di partenza degli autori, Heribert Dieter e Annkathrin Frind, è che “anche dopo la ristrutturazione di successo del debito pubblico greco, avvenuta nel marzo 2012, la maggior parte dei problemi economici del paese resta da risolvere”. Proprio la settimana scorsa il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ha sostenuto che l’Unione europea ha fatto per la Grecia più di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti per l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, soprattutto in termini di risorse messe a disposizione. Anche questo argomento è contestato dalla Stiftung Wissenschaft und Politik: “La terapia che era alla base del Piano Marshall è completamente fraintesa dagli odierni sostenitori di un piano simile”. Secondo gli economisti della fondazione, George C. Marshall mise l’Europa in condizione di aiutare se stessa e coordinarsi al suo interno, ma in realtà Atene per anni ha già goduto di quelle “opportunità che il Piano Marshall voleva dare all’Europa occidentale: la Grecia è stata parte di una Comunità europea, con tutti i vantaggi di un mercato comune, aiuti finanziari, sostegno al business. In altre parole: la Grecia ha già beneficiato di un Piano Marshall e non ha bisogno di un secondo piano simile”. “Il solo governo greco”, notano con malizia gli autori dello studio, “si è avvantaggiato” del crollo dei tassi d’interesse medi sul debito pubblico (dall’11,9 al 4,2 per cento tra 1994 e 2007), aumentando la spesa pubblica e l’indebitamento.

    L’avvertimento per la Bce di Mario Draghi
    Fmi e Ue però hanno insistito nell’errore, guardando alla Grecia come a “un problema dell’Unione europea” invece che un problema di “politica dello sviluppo”. L’economia del paese è a tal punto “sottosviluppata”, in particolare del suo settore manifatturiero, da essere comparata nello studio a quella dei paesi dell’est subito dopo il crollo del Muro di Berlino. A fronte diquesta situazione disastrata, Fmi, Ue e Bce hanno assunto un atteggiamento paternalistico (“Si sono concentrati sul fatto di dire alla società greca cosa andava fatto”), peraltro smentito dalla storia. Quello che invece i piani di salvataggio non hanno previsto è stato il ruolo della “diretta responsabilità” di politici e cittadini greci. Questi ultimi, sollevati dalle loro “responsabilità”, sono oggetto delle critiche della Fondazione tedesca anche per un’altra ragione: “Gli elettori greci hanno esibito l’incapacità di riflettere sui propri errori”.

    Per la Bce presieduta da Mario Draghi il rapporto finanziato da Berlino riserva poi un avvertimento per il futuro: “La speranza della Banca centrale europea è che le banche utilizzeranno la liquidità fornita per comprare bond statali. Con questa politica monetaria europea, si spera che il combinato disposto di sforzi di consolidamento a livello nazionale e approvvigionamento di liquidità al settore privato renderà possibile il ritorno a una politica più sostenibile nel tempo. Il fallimento della troika ad Atene fa però nascere seri dubbi sul fatto che questo piano possa portare ai risultati attesi”. Soltanto “un obiettivo” sarebbe stato raggiunto dalla Troika: “I mercati finanziari sono stati in grado di prepararsi prima del default greco”. Rimandare il fallimento per due anni, insomma, è stato utile a banche e investitori internazionali che così hanno evitato “un secondo choc in stile Lehman Brothers”. Nessuna via d’uscita per i Greci, dunque? Una strada la Fondazione merkeliana la indica: è quella seguita da Vietnam e Singapore. L’alternativa paternalista, c’è scritto alla lettera, l’abbiamo vista all’opera in Africa.