In morte del Barça, il vitello blaugrana che si credeva un popolo eletto

Jack O'Malley

Questa mattina ho aperto i giornali e il senso di colpa mi ha schiaffeggiato senza pietà: “Devi smetterla di bere, non la reggi più quella roba” mi dicevo mentre sfogliavo le notizie di un favoloso pareggio del Chelsea al Camp Nou e le mie tre o quattro teste litigavano sul modo più rapido per smaltire l’hangover. Albert Camus, uno che di calcio s’intendeva, ha scritto che la “grandezza arriva come un bel giorno”, e aveva ragione.

    Questa mattina ho aperto i giornali e il senso di colpa mi ha schiaffeggiato senza pietà: “Devi smetterla di bere, non la reggi più quella roba” mi dicevo mentre sfogliavo le notizie di un favoloso pareggio del Chelsea al Camp Nou e le mie tre o quattro teste litigavano sul modo più rapido per smaltire l’hangover. Albert Camus, uno che di calcio s’intendeva, ha scritto che la “grandezza arriva come un bel giorno”, e aveva ragione. E’ un fatto naturale eppure del tutto inaspettato, sorprendente. Mentre mettevo a fuoco le immagini che mi passavano davanti credo di aver sperimentato qualcosa di simile a quello che voi italiani avete visto quella mattina del 2006, quando la Gazzetta dello Sport vi rincuorava dicendo “è tutto vero”, la sbornia non si era portata via nottetempo una coppa che pochi avevano osato sognare.

    Chiarisco subito un concetto: il motivo del mio gioire, l’essenza più intima del mio “bel giorno”, non è la vittoria del Chelsea, quanto la sconfitta del Barcellona. Vedere giocare i blaugrana è uno spettacolo – come la donna cannone, la casa degli spettri, la quadriglia, la gara di mangiatori di hamburger – vederli perdere, e perdere in quel modo, è un’ascesi. Meraviglioso sentire l’imbarazzo dei commentatori tv che si sono trovati a dovere parlare di calcio, e questo li ha presi alla sprovvista, abituati com’erano a ragionare di calcetto. Qualcuno dirà che non c’è onore nell’infierire sul cadavere, ma, dico io, dipende poi dal cadavere. Quello che è caduto sotto i pochi e iracondi colpi del Chelsea è il cadavere di una squadra-modello, di un brand sorridente, di uno sfrontato inno al bel gioco che si è illuso, e continuerà a illudersi, non c’è dubbio, che la perfezione sia di questo mondo. Con le sue pretese di superiorità antropologico-calcistica benedette dal timbro umanitario dell’Unicef, il Barcellona è un golpe palla a terra che vuole detronizzare gli immondi sovrani del calcio. Di questo si tratta: il mondo del calcio si divide in due categorie. C’è chi ne rispetta le leggi, ne sfida i limiti in un duello leale e terribile, e c’è chi pretende di redimerlo, di perdonarne i peccati con una trama di passaggi perfetti e percentuali bulgare di possesso palla. Per estirpare il male e piantare nel mondo il “modello barça” come segno della redenzione non basta un misto di cantera e giacche stirate, serve almeno l’assistenza divina, altrimenti si finisce per votarsi a un idolo fasullo, un vitello blaugrana al quale tutti si prostrano soltanto perché è più semplice.

    E’ più semplice credere ai dribbling di Messi, ai passaggi di prima, ai numeri da circo, all’allegria, alla remuntada e a tutta questa zuccherosa crema catalana piuttosto che venire a patti responsabilmente con la propria natura terrena. L’assunto da cui tutto muove è che il Barcellona è “més que un club”, come dicono loro, che però stavolta è stato cacciato dalla Champions da “just a club”; anzi, prima della cura di Di Matteo era molto meno di un club. Era un agglomerato informe unto da soldi russi e amministrato da un mourinhello di borgata. Nei pub e nelle cervecerie si è detto fino allo sfinimento che il Chelsea non ha meritato di passare il turno. Ma cosa significa, nel calcio, meritare? Il presidente del més que un club, Sandro Rosell, ha confuso il concetto di merito con quello di intrattenimento e, sobriamente rammaricato, ha detto: “Se vincesse sempre chi gioca meglio non perderemmo mai”. Non sa che una frase del genere è una violazione del principio di non contraddizione calcistico. Chi gioca meglio è la squadra che mette le “balls” in campo, chi lotta con furore predatorio per piegare l’avversario. Questo conta, e mettermi a spiegare che “il gioco all’italiana”, “il gioco all’inglese” e “il gioco alla spagnola” sono categorie più datate della sigla di “Dribbling” sarebbe un insulto all’intelligenza.
    Il Barça, questo è ovvio, è stato padrone del campo. Ha avuto più occasioni. Ha schiacciato l’avversario. Lo ha schiacciato così tanto che dopo il 2 a 0 di Iniesta, con i Blues in dieci, tutto il mondo, ormai drogato dalle prestazioni a ripetizione, ha visto un’umiliante goleada materializzarsi. E’ a quel punto che ho stappato la seconda bottiglia. L’ho trangugiata in piedi, dritto come una stalagmite, mentre Ramires faceva quello che d’ora in poi sarà per sempre un “gol alla Ramires” ma che fino all’altro giorno era un gol alla Messi. Ho continuato a suggere alcol mentre gli idoli di questo umanesimo pallonaro cercavano di gestire lo svantaggio (complessivo, s’intende) con quell’aria che dice: “E’ solo questione di tempo, il gol ve lo facciamo”. Invece non l’hanno fatto. Ci sono andati vicini, ma come si poteva segnare con quel sublime catenaccio guidato dal terzino Drogba, giocatore di lotta e di governo che l’altra notte ha dato anche quello che non aveva?
    Il rigore sulla traversa è stato un episodio beffardo per chi crede che il calcio si vinca ai punti, invece quest’arte nobile non è affatto, è drammaticamente umana e talvolta concede qualcosa alla perversione, come nella ginocchiata di Terry, episodio meraviglioso con il senno di poi.

    I commentatori sportivi in tv, poi, erano più imbarazzati di Messi dopo la quarta partita di fila da giocatore normale. Avevano preparato e imparato la parte a memoria, le facce sorridenti e tutti i luoghi comuni in fila: gli extraterrestri, il fair play di Guardiola, il possesso palla, Messi più forte di Maradona e Pelé, la cantera e la squadra più bella del mondo, invece è toccato loro discutere di calcio, e questo li ha presi alla sprovvista, abituati com'erano a ragionare di calcetto. Il secondo tempo passato in trincea ad allontanare i palloni dalla propria area con qualunque parte del corpo è calcio. Drogba che fa il terzino, lo stopper, l’ala e il centrocampista contemporaneamente è calcio. E quando una sua entrata troppo generosa in area stava per scrivere un altro capitolo della saga sfigata del Chelsea in Champions League, ci ha pensato quella strana forma di giustizia ingiusta che si può trovare solo nel football. Dare un rigore al miglior rigorista del mondo a quel punto del match era come dare a Repubblica un’intercettazione di Ruby: comunque vada ci tireranno fuori qualcosa. La traversa che ieri mattina vibrava ancora al Camp Nou è lì a raccontare che no, i blaugrana forse non sono più il popolo eletto degli dei del calcio. Ci si è allora provati a buttare – parlo sempre dei commentatori – sull’applauso dello stadio a fine partita. Che sportività, che emozione, che amore disinteressato.

    Roba che da noi in Inghilterra si fa da anni, e non solo alle squadre che dopo tre Champions League vinte escono in semifinale, ma alle squadre che retrocedono dopo una stagione inguardabile. Ma la retorica ha la sua liturgia, e capisco che vada celebrata fino all’amen dei nuovi luoghi comuni, quelli che “è finito un ciclo”, “Guardiola se ne va” e via dicendo. Invece di chiedersi come avessero fatto i Bleus a battere i blaugrana, ci si chiedeva come avessero fatti i blaugrana a non battere i Bleus. Ha vinto il migliore perché il migliore è quello che su due partite non ne perde nemmeno una, non chi colpisce tanti pali e mette molti palloni inutili in area di rigore. E non ci si può contenere quando quell’ennesima palla sparacchiata a caso dalla difesa precipita sui piedi di Torres, un niño perduto e forse ritrovato ma poi chissà se dura (e a questo punto chissenefrega), e lui si fa la metà campo più lunga della sua vita prima di mettere a sedere Valdes e metaforicamente mandare un “baciatemi il culo” ai tifosi del Camp Nou. In quel momento ho pensato alla pessima serata di Platini e Blatter, che vedevano rompersi il loro giocattolo. E ho stappato un’altra bottiglia. Ora il Chelsea dovrà giocarsi una finale comunque da sfavorita, e senza Terry,  ma soprattutto senza Ramires e Meireles, per quella regola idiota che vuole squalificati anche i giocatori che si prendono due cartellini gialli in sei partite. Ma a questo punto può anche perdere 4 a 0. Il compito affidatole dal destino, far cadere i falsi idoli, è stato portato a termine.