Magnifici segnali di vita

Ritanna Armeni

Le femministe dovrebbero essere contente. Le donne che hanno lottato per la libera scelta della maternità e, quindi, per leggi che garantissero anche l’aborto a chi non poteva o non voleva fare un figlio, non possono non osservare con soddisfazione un cambiamento nel modo in cui le giovani donne oggi intendono esercitare questa scelta. Mentre fino a qualche anno fa libera scelta significava per molte possibilità di abortire, oggi significa all’opposto possibilità e libertà di essere madri.

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    Le femministe dovrebbero essere contente. Le donne che hanno lottato per la libera scelta della maternità e, quindi, per leggi che garantissero anche l’aborto a chi non poteva o non voleva fare un figlio, non possono non osservare con soddisfazione un cambiamento nel modo in cui le giovani donne oggi intendono esercitare questa scelta. Mentre fino a qualche anno fa libera scelta significava per molte possibilità di abortire, oggi significa all’opposto possibilità e libertà di essere madri. Anche quando si è giovani, anche quando tutto congiura contro la maternità: il lavoro, i soldi, la società, il modo di pensare delle generazioni precedenti, la mentalità comune e diffusa.

    A me sembra un cambiamento importante. E anche un passo avanti nella affermazione della libertà femminile con cui spero che questa società si trovi a fare i conti. Come spesso accade, è il cinema a raccontare un cambiamento culturale. Qualche anno fa avevamo visto “Juno”, la storia di una giovanissima che, rimasta incinta, aveva voluto tenere il suo bambino e aveva ottenuto la solidarietà della famiglia e degli amici. Colpivano in quella storia, sicuramente inusuale, l’allegria, il buonumore con cui era raccontata. Una maternità precoce può non essere un dramma, può arricchire e non spezzare la vita di una ragazza se lei la vuole, se attorno a lei c’è un clima di accettazione.

    Poi questo tema è emerso in altri film. In “17 ragazze”, uscito di recente, giovani donne di un liceo di una città del nord della Francia esercitano la loro ribellione contro una società asfittica e avara di amore e di comprensione rimanendo incinte, ed esibiscono la loro pancia come una bandiera di libertà. Anche nell’ultima commedia di Carlo Verdone, “Posti in piedi in paradiso”, a un padre sgomento che già pensa al dramma dell’aborto si contrappone una figlia diciassettenne e serena che quel figlio lo vuole tenere e lo tiene. Queste affermazioni cinematografiche hanno almeno tre elementi in comune. Intanto l’assenza di ogni astratta ideologia pro life. Non è in nome della vita dell’embrione o “contro l’aborto” che si vuole essere madri, ma in nome della propria vita che si ritiene possa essere più felice con la scelta della maternità. In secondo luogo la marginalità dell’uomo e del suo ruolo. E quindi l’assenza della coppia. Sono le donne che fanno una scelta. L’uomo le accompagna, può essere amico, può aiutare. In qualche caso può addirittura essere usato e scomparire. Comunque non è protagonista di una scelta che rimane esclusivamente della giovane madre. Il terzo elemento comune è lo sgomento e l’impreparazione sociale di fronte al desiderio di maternità. Vissuta, almeno nel primo impatto, quasi come una stravaganza, un imprevisto, qualcosa di estraneo che entra all’improvviso con un aspetto dirompente e di rottura in una società che, nella sua organizzazione, non la prevede.
    Fuori dalle sale cinematografiche la realtà ha molte più sfumature e mediazioni. E anche, ovviamente, molte più contraddizioni. Ma quei film hanno colto molto del clima nuovo e dei cambiamenti culturali avvenuti nel rapporto con la maternità o con la sua eventuale interruzione. Anche nella realtà le giovani donne oggi vogliono essere madri per scelta. Non c’è in loro alcuna ideologia pro life. L’aborto? Semplicemente, come lo scrivano Bartleby, preferiscono di no. Sanno che possono farlo, ma non è la loro scelta. Anche nella realtà il ruolo dell’uomo è comunque fortemente ridimensionato. E le famiglie sono sbigottite, non capiscono. Appaiono più pronte ad affrontare un dramma che una gioia.

    E la società? La società reale è peggiore di quella che appare nei film. Molto peggiore perché nella realtà quella maternità è allontanata, se non ostacolata. I comportamenti dello stato, delle istituzioni, delle aziende, dei luoghi di lavoro spingono verso la negazione. Basta pensare alla pratica ampiamente diffusa delle dimissioni in bianco, cioè delle lettere di dimissioni firmate anticipatamente dalle donne e usate dalle aziende per licenziarle nel caso rimangano incinte. La Fiat ha escluso dal premio di produzione le dipendenti in congedo per maternità. Non riescono a fare le ore di lavoro necessarie a ottenerlo. I contratti a tempo determinato – quelli che possono ottenere le giovani donne nel caso migliore – allontanano la maternità nel tempo. Altrettanto punitivo è il clima che si respira nei luoghi di lavoro dove formalmente le leggi vengono rispettate. La legislazione italiana, che sulla carta è una delle migliori, non impedisce il disappunto e l’ostilità dei dirigenti, il rallentamento della carriera delle donne, un mobbing tanto più velenoso perché accettato da tutti. E certo non impedisce che già dopo il primo figlio la donna torni a casa perché non è sostenuta da servizi adeguati.

    Mi sono sempre chiesta – e non è una provocazione – perché  i movimenti per la vita, invece che fare le loro manifestazioni fuori dagli ospedali dove secondo la legge si può interrompere la gravidanza o organizzare la cosiddetta “obiezione di coscienza” dei medici, non vadano a protestare nei migliaia di luoghi in cui questa è effettivamente ostacolata, è allontanata. Ce ne è una vasta scelta.

    Ma proprio gli ostacoli che la maternità incontra, il fatto che di figli se ne possono fare pochi e con difficoltà, insieme alla consapevolezza che gli anticoncezionali possono essere liberamente usati e che (ed è importante) abortire è possibile, c’è una legge che lo garantisce, l’ha resa preziosa, oggetto di intimo desiderio, obiettivo fortemente perseguito perché, esso sì, negato e, comunque, mai aiutato. Per questo ha acquistato in questi anni un aspetto eversivo. Per questo quando arriva se ne coglie prima l’aspetto di rottura, di diversità e di libertà. Per questo l’aborto viene visto come un triste adeguamento alla realtà e non, come fino a qualche tempo fa, una ribellione a essa. Il simbolico femminile è cambiato, anche se la realtà ne appare poco influenzata. E questo è comunque un bel risultato per chi molti anni fa ha lottato per la libera scelta delle donne.

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