
Miriam 1926-2012
Donne così come fu Miriam Mafai, ebrea, atea, materialista, comunista, ilare, severa, sbrigativa, dolce di cuore e con un’affettata durezza di testa, donne così i ragazzi di questi anni non ne incontrano più. Nell’altro mondo impossibile in cui fu concepita e partorita, il 1926, abitavano i suoi genitori, il pigro e romano Mario Mafai, pittore goyesco e sua moglie Antonietta Raphael, pittrice e scultrice di grazia e colori, con Scipione e molti altri promotori di una delle scuole romane, quella degli anni Trenta.
Leggi il ritratto di Miriam Mafai scritto da Stefano Di Michele
Donne così come fu Miriam Mafai, ebrea, atea, materialista, comunista, ilare, severa, sbrigativa, dolce di cuore e con un’affettata durezza di testa, donne così i ragazzi di questi anni non ne incontrano più. Nell’altro mondo impossibile in cui fu concepita e partorita, il 1926, abitavano i suoi genitori, il pigro e romano Mario Mafai, pittore goyesco e sua moglie Antonietta Raphael, pittrice e scultrice di grazia e colori, con Scipione e molti altri promotori di una delle scuole romane, quella degli anni Trenta. Tre celebri sorelle: Giulia, Miriam e Simona, da sempre sulla bocca di tutto il vasto establishment che ruotava intorno al Partito comunista e alla sua Repubblica, identificazione totale e vertiginosa. Di questo paese nel paese, che contesta tutto, domina su tutto, trova ovunque lo spazio del compromesso, predica e manda, organizza lotte di massa all’ombra del sottile stalinismo di Togliatti e macera idee alla luce di una lettura canonica di Antonio Gramsci, Miriam fu la fanfara. Lo fu con la sua spasmodica e brillante risata, un colpo di piatti che risuonava secco e ardito in ogni salotto, in ogni ristorante, in ogni convegno o congresso. Lo fu con le sue storie personali e famigliari, con i quadri dei suoi, con i suoi figli da un matrimonio poi esaurito, con il suo amore trentennale per quel causeur della rivoluzione che fu Gian Carlo Pajetta, eroe della galera e dell’attivismo intelligente e perfido, morto nell’amarezza ventidue anni fa. Fu la fanfara degli italiani comunisti perché suonava la vita in fretta, con un ritmo da trotto svelto che la portava dal funzionariato di partito nell’Abruzzo della ricostruzione al Parlamento, alla testa del sindacato dei giornalisti, ma poi nella scrittura, nell’inviatura, nel commento tra l’Unità, Vie Nuove, Paese Sera e Repubblica, ultimo fedele approdo in una combriccola amicale tanto romana quanto lo era lei, aliena alla sua cultura politica ma non ai suoi costumi professionali all’impronta e alle sue abitudini di osservatrice accanita, in pieno controllo realista dei propri pregiudizi.
Scriveva libri su Pietro Secchia, che sognava la lotta armata, sulla sociologia del pane nero femminile sotto la guerra, su Botteghe Oscure, su Berlinguer, e sul fisico misteriosamente espatriato in Unione Sovietica, Bruno Pontecorvo. Di sé diceva che non amava approfondire, si considerava la prima vittima illustre del suo stesso cinismo, non conosceva il sussiego, quel portamento esigente del corpo che secondo il moralista La Rochefoucauld nasconde i segreti difetti dello spirito. Sussiego mai, il rispetto lo si impone, non lo si esige, e la vita è fatta di amore, di amori, di convenienze onestamente amministrate finché dura, di ideali sempre temperati da una dose massiccia di realismo, bisogna amarsi anche, godere, socializzare, ridere, ridere, ridere, e squillare insieme agli altri, restando sempre un po’ soli, perfino in famiglia. Non sono una madre mediterranea, sosteneva una volta che ebbe il sospetto di un desiderio di cura eccessivo da parte del figlio adolescente Luciano. Ed era un tratto, magari falso, magari contraddetto dalla verità quotidiana, di quelle madri che avevano intorno il partito, la comunità politica e popolare, le aristocrazie urbane d’Italia di un regime culturale internazionale, che era stato la storia, e il lavoro, l’autonomia non gridata e rivendicata ma praticata, insomma una forma di matriarcato psicologico unita a certi rispetti verso la tradizione.
Nella casa calda e modestissima di via Pio Foà, Monteverde versione Donna Olimpia, Roma, Miriam e Nullo (così lei chiamava Gian Carlo, con il nome di battaglia della guerra civile) ricevevano alla buona e l’unica forma accettata era la buona conversazione. A Natale i regali del capo comunista giravano per tutti, e di lui lei diceva che era il più grande regalatore di regali al mondo, nel suo mondo monacale non c’era posto nemmeno per i libri, che vanno letti, non conservati. Miriam era attenta e a suo modo anche premurosa, ma non coniugale. Non usava. La regola era il compagnonnage, letteralmente un affiancamento, nemmeno una complicità. Di qui uno speciale uso di mondo, in fondo molto francese, e alla fine una piccola casa a Parigi bene amata, la conservazione di un mito e di uno stile nel confondersi e trasformarsi delle generazioni, una vecchiaia con acciacchi ma anche lei messa di lato, affiancata ai brandelli di esistenza possibile negli ottanta anni.
Una volta, era un po’ che non scriveva, fu chiamata al telefono: “Miriam, ti ho sognata”, e lei canzonò e si canzonò: “Spero morta, lo sai che porta bene”. Pensarla fredda, che non ride e non guarda con elegante e terrificante spirito di giustizia, pensarla al suo ultimo giudizio, senza preti e avvocati difensori che non siano stati una modulazione di vita come la sua, come la sua fanfara, la sua marcia negli anni, tutto questo è abbondantemente ridicolo per quanto si debba crederci.
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