
L'annullamento dell'articolo 18, una strategia di sinistra
Non si può dire che la riforma dell’articolo 18, nella parte che riguarda la facoltà dell’impresa di licenziare, ce la chiede l’Europa. Va bene, è vero, ma non basta. Non si può dire che lo si fa a malincuore, che è una missione di rigore imposta dalle circostanze. E' vero anche questo, ma non basta.
Pubblichiamo l'editoriale di Giuliano Ferrara apparso nel Giornale del primo aprile 2012
Non si può dire che la riforma dell’articolo 18, nella parte che riguarda la facoltà dell’impresa di licenziare, ce la chiede l’Europa. Va bene, è vero, ma non basta. Non si può dire che lo si fa a malincuore, che è una missione di rigore imposta dalle circostanze. E' vero anche questo, ma non basta. Molta gente, probabilmente la maggioranza, teme che questa riforma sia essenzialmente un indebolimento della protezione sociale per legge dagli spiriti animali del mercato, e una lunga stagione di predicazione e di esperienza parasocialista, concertativa, statalista e assistenzialista ha messo la coscienza pubblica in uno stato di incomprensione e di disagio. Non esagererei nemmeno la considerazione di questi sentimenti, perché siamo pur sempre un paese che, quando un governo decisionista come quello di Craxi fece saltare il meccanismo punitivo per lo sviluppo della scala mobile dei salari, votò a favore in un referendum. Vero che erano gli anni Ottanta, un periodo di fiducia fattiva nella capacità di creare ricchezza dell’economia e di sfiducia forte nell’azione pansindacalista di contrasto al funzionamento del capitalismo, e oggi la situazione è diversa anche per il costo che la crisi finanziaria ci ha riversato addosso, ma fu pur sempre una storica sorpresa il voto contrario a un beneficio sociale che si esprimeva in moneta sonante nelle buste paga. A certe condizioni, dimostrammo di saper essere una comunità capace di un giudizio maturo su sé stessa, sconfiggendo la demagogia sociale più ottusa. Ma che si deve dire allora?
Come si fa ad uscire da una dimensione difensiva e incerta nei concetti e nei termini con i quali si difende una riforma necessaria di libertà e responsabilità? La prima questione da richiamare è che la dignità del lavoro non sta nella sua protezione corporativa, nel fatto che chi è dentro, è dentro, e chi è fuori, è fuori, in una sicurezza fondata su immobilismo e stagnazione. Il lavoro è un bene, se non vogliamo dire una merce per non scandalizzarecerto solidarismo della parte più conservatrice della cultura cattolica, e renderlo disponibile per tutti, questo bene, con il massimo coefficiente di stabilità produttiva e di qualificazione, lo rende dignitoso come bene sociale, come elemento decisivo non solo della Costituzione, che è un documento astratto di principi, ma dell’organizzazione economica di una società aperta.
Non era dignitoso il lavoro dei paesi socialisti, frutto di pianificazione e tutela che fruttavano bassi salari, condizioni tutorie complementari alla mancanza di libertà politica e civile, l’immobilismo mostruoso delle economie di stato. Anche la vecchia idea paternalistica dell’impresa, una cellula economica autarchica del capitalismo di origini agrarie, inscindibilmente legata alle fortune di una famiglia, in cui l’ala padronale che faceva scudo ai dipendenti, era pagata dalla loro cultura e pratica devozionale verso il parùn e il suo vecchio business .
Non è questione di monotonia del posto fisso, psicologismo sbagliato e controproducente: è che il posto garantito a scapito di chi è fuori,l’economia del solidarismo autoreferenziale, è la negazione della capacità di svilupparsi, di crescere nella ricchezza per tutti, in condizioni di libertà responsabile.
L’impresa deve funzionare e fare la sua missione specifica, creare lavoro, ingrandirsi e specializzarsi, competere nel mercato dei beni e dei servizi, riuscire nel suo progetto: solo in questo quadro il lavoro è la personificazione di una vita professionale dignitosa, promuove mobilità tra le generazioni e all’interno delle generazioni, ti mette in grado di essere padrone di te stesso anche quando sei un lavoratore dipendente.
Non è vero che un giudice, salvo il diritto imprescrittibile alle cause di lavoro per verificare la autenticità delle ragioni economiche di un licenziamento, sia la figura giusta per decidere del futuro di un’impresa e dei suoi lavoratori.
Non è vero che dobbiamo scegliere il modello tedesco, è un inganno perché tutti sanno che il modello tedesco è la cogestione con i sindacati dell’impresa, e nel segno di una egemonia della classe imprenditoriale, di una adesione non classista delle organizzazioni sociali agli scopi dell’impresa, e lì i magistrati del lavoro sono solo l’estrema risorsa e sono una scuola di educazione civile al diritto oggettivo, non una casta di sostenitori dei valori di solidarietà e, come hanno scritto in sentenza i giudici di Potenza che hanno reintegrato i lavoratori Fiat che avevano bloccato una linea di montaggio, di «forte antagonismo».
Su questi problemi, su queste verità, la gente deve essere disingannata e disincantata. Bisogna dirla tutta, perché le verità parziali e imbarazzate non consentono una battaglia leale per la serietà della discussione nel paese su una legge che può ridare fiducia agli investitori, creare più lavoro anche per i giovani e le donne, stabilizzare diritti che il blocco del lavoro in uscita ha sempre sacrificato.
Chi mette su un’impresa e rischia i propri capitali, il proprio lavoro, la propria vita professionale in quell’impresa sarà incentivato a fare, e a fare meglio, se non è prigioniero di una tutela illogica delle posizioni acquisite nella pianta organica, se ha il potere ciclico di modellare la forza lavoro sugli scopi e le condizioni di vita della «ditta».
E chi lavora la sua dignità non la trae dalla «giusta causa» come automatismo di tutela, oltre tutto un arnese inservibile nell’economia mobile e globale, ma dal successo del sistema delle imprese, dalla creazione di un mercato del lavoro che funziona.
E in un senso non poi così paradossale, come scrissero Francesco Giavazzi e Andrea Alesina, se «sinistra» è concetto di progresso contro la conservazione di ideologie patriarcali, allora un mercato del lavoro libero è una cosa di sinistra.
Finché non sapremo essere chiari su questo, molta gente si terrà le sue paure, sapientemente alimentate da chi non crede nella società aperta e nel capitalismo, e ha una cultura veteroclassista.


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