Estremo tentativo di non rompere

Spiriti animali addomesticati

Giuliano Ferrara

Nonostante gli allarmi ansiogeni della bella Italia consociativa e pigra, gli spiriti animali sono stati evocati, cavalcati e infine addomesticati. Addomesticati, ma non fino al punto di mandare in vacca una delle più radicali riforme di struttura, insieme a quella delle pensioni, che sono nella missione politica e ideologica (sì, ideologica) di questo governo tecnocratico, e che furono un generoso ma arruffato e sconfitto tentativo del secondo governo Berlusconi.

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    Nonostante gli allarmi ansiogeni della bella Italia consociativa e pigra, gli spiriti animali sono stati evocati, cavalcati e infine addomesticati. Addomesticati, ma non fino al punto di mandare in vacca una delle più radicali riforme di struttura, insieme a quella delle pensioni, che sono nella missione politica e ideologica (sì, ideologica) di questo governo tecnocratico, e che furono un generoso ma arruffato e sconfitto tentativo del secondo governo Berlusconi: la facoltà di licenziare i dipendenti per ragioni economiche e organizzative. Questa facoltà, considerata decisiva in una lettera del 4 agosto della Banca centrale europea al nostro governo, scritta nel bel mezzo della devastante crisi da debito in cui ci trovavamo (e in parte ci troviamo ancora), diventa legge dello stato. Secondo noi ha vinto la ragionevolezza, insieme con una misura di libertà e responsabilità senza la quale le economie capitalistiche languono e i corporativismi ribaldi fioriscono; secondo un imbarazzato direttore di Repubblica, il giornale edito da Carlo De Benedetti, finanziere che giudica la riforma dell’articolo 18 una perdita di tempo, ha vinto l’istinto di classe, che ha preteso e ha avuto uno “scalpo”.  Solito moralismo.
    Mario Monti ed Elsa Fornero presentano in Parlamento, superando lo scoglio di un mancato accordo con sindacati e padronato, e liquidando nuovamente (dopo le pensioni) la pratica della concertazione sociale come costituzione materiale del paese, un testo univoco. Però non si tratta, come da banalizzazione pericolosa della Cgil, di “licenziamenti facili”. Resta ovviamente il diniego di ogni forma di discriminazione. C’è un diritto di reintegro nel posto di lavoro quando il licenziamento per motivi disciplinari sia considerato dal giudice abusivo. E per il resto, in rapporto con la capacità di esistere economicamente e di competere delle imprese, chi sia licenziato per ragioni economiche, senza “giusta causa” (secondo la vecchia dizione di Giacomo Brodolini e del suo Statuto dei diritti dei lavoratori di mezzo secolo fa), ottiene un indennizzo variabile, e consistente, ma non il reintegro. Promuovere dinamismo nel mercato del lavoro, favorire la mobilità sociale in entrata e in uscita dalla produzione, è da oggi una “giusta causa”. Rivoluzione, direbbero i professori di linguistica, “semantica”.

    Il governo ha scelto non già la strada del decreto legge, che avrebbe innescato un melodramma tardo thatcheriano. Sotto la convergente pressione dei sindacati aziendalisti e riformisti (Cisl e Uil), del presidente della Repubblica, della sinistra rappresentata alle Camere dal Pd, ma anche in osservanza della filosofia borghese di sinistra del ministro del lavoro Elsa Fornero e della cultura di economia sociale di mercato del premier, la facoltà di licenziare è stata introdotta senza seguire la strada della divisione o diaspora sindacale, Fiom e NoTav a parte; promuovendo una discussione parlamentare non del tutto priva di insidie, e ovviamente aperta a una definizione puntuale delle norme legislative che è il residuo e inalienabile potere dei deputati e dei senatori; e, sopra tutto, ristrutturando l’intero mercato del lavoro, i suoi contratti che sono il sale della vita di milioni di persone, e le tutele sociali di chi esce dal circuito produttivo per un tempo indefinito, con uno sforzo di innovazione che piacerà ai giovani, alle donne, al mondo del precariato sociale (in estensione oltre un certo limite patologica). Per evitare il caos, per cercare di mettere il paese in condizione di svilupparsi, di uscire da quest’aria di bafogna, per restituire ossigeno ad aziende poco propense ad investire e a investitori poco propensi a cercare fortuna in Italia, si è scelto di limitare fortemente il “tempo determinato” come modalità di lavoro, e al tempo stesso di rendere ogni posto di lavoro, sicuro e fisso e “monotono” nella vecchia accezione, in un certo senso “precario” e a tempo determinato.

    Sono i paradossi delle società aperte. E’ un cambiamento radicale nel modo di organizzare l’economia, in un insediamento storico come quello europeo di oggi, che ha fatto della protezione sociale una casa robusta e attraente ma anche un idolo che impigrisce e dissuade da un’esistenza libera e dalla capacità di garantirsi i mezzi per vivere non alle spalle dello stato e del debito pubblico. Sono stati riformati gli ammortizzatori sociali cosiddetti, cioè i modi attraverso cui in parte lo stato in parte le imprese in parte i lavoratori pagano la precarietà intrinseca ai cicli economici (un nuovo regime a partire dall’anno 2017, con anticipazioni e razionalizzazioni che la Fornero ha ben spiegato). E qui le imprese associate in Confindustria, da molti anni bastione di un certo immobilismo, dopo le botte che si era preso il movimentismo di Luigi D’Amato, mugugnano ma abbozzano, a quanto pare.
    Ora bisogna sperare che entro venerdì il testo con la riforma sia pronto, che in Parlamento non ci siano tattiche dilatorie o ostruzionistiche, che lobby e sindacati non si organizzino per schiacciare l’autonomia decisionale di governo e politica sotto gli interessi particolari. Bisogna anche sperare che la faccenda poi funzioni, e bene. Nel senso che fino ad ora, con il caos organizzato seguito ai mozziconi di riforma possibili entro l’ambito dell’articolo 18, da cui è seguita la famosa precarizzazione, dei risultati ci sono stati. Questa nuova riforma di portata molto notevole introduce delle flessibilità, e anche delle rigidità, e la scommessa è che il risultato per l’economia sia di incremento della competitività e produttività delle imprese e del lavoro.
    Conclusione politica. Eleggi due o tre governi che hanno un programma rivoluzionario, liberale, e finisci in una buriana che ti travolge nell’indifferenza dell’establishment e dei padroni. La democrazia bipolare, malgrado risultati plebiscitari, ha subito una sonora sconfitta. Oppure metti la “serietà” prodiana al governo, e non ne parliamo nemmeno: effetti smozzicati, crisi di leadership, trionfo dei lobbismi e altri clamorosi fallimenti. Non che non abbiano fatto niente, questo sarebbe ingeneroso, e da Treu a Maroni a Sacconi di cose buone ne sono venute, anche nel campo del mercato del lavoro (e uno serio come Marco Biagi l’hanno pure ammazzato come un cane per questo). Metti però a capo dell’esecutivo della gente tecnicamente competente, che non risponde a nessuno ma che è legittimata dalla Banca centrale europea, dalla Germania, da un capo dello stato energico nel fronteggiare l’emergenza, e sostenuta da partiti sconfitti sia nel governo sia nella costruzione dell’alternativa al governo, e in campo resta una sfilza di riforme che evocano gli spiriti animali del capitalismo, promettono senza la sicurezza di mantenere una fase di crescita oltre il rigore, e forse non saranno troppo docilmente addomesticabili. Forse.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.