Lavoro, tabù&veti come per la scala mobile

Marco Valerio Lo Prete

La riforma del mercato del lavoro è oggi un tornante insidioso nella storia del sindacato, tanto insidioso quanto lo fu il superamento della scala mobile per i partiti italiani. Parola di Ottaviano Del Turco, socialista, già tra i fondatori del Pd e sindacalista di lungo corso nella Cgil. Il parallelo con la svolta degli anni Ottanta, secondo Del Turco, aiuta a capire la fase attuale soprattutto se si procede per differenze.

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    La riforma del mercato del lavoro è oggi un tornante insidioso nella storia del sindacato, tanto insidioso quanto lo fu il superamento della scala mobile per i partiti italiani. Parola di Ottaviano Del Turco, socialista, già tra i fondatori del Pd e sindacalista di lungo corso nella Cgil. Il parallelo con la svolta degli anni Ottanta, secondo Del Turco, aiuta a capire la fase attuale soprattutto se si procede per differenze. “Fino alla metà degli anni Ottanta – dice al Foglio l’ex ministro delle Finanze – lo stato aveva autorità politica in tutti i campi della vita degli italiani, ma non poteva toccare il tema del lavoro senza una trattativa preventiva con il Partito comunista”. Il decreto del 1984 con il quale Bettino Craxi intaccò il meccanismo di rivalutazione automatica delle retribuzioni in base al costo della vita, e il successivo referendum che vide confermata quella posizione, “fu una svolta nel senso che segnò la fine del ‘diritto di veto’ del Pci sul lavoro”. “Diritto di veto”, d’altronde, fu proprio l’espressione che l’allora segretario di Botteghe Oscure, Alessandro Natta, non ebbe problemi a fare sua durante una cena con lo stesso Del Turco (segretario generale aggiunto Cgil), Luciano Lama (segretario generale Cgil) e Claudio Martelli (Psi): “Non potete decidere senza di noi – disse Natta agli altri che cercavano di ricucire – E’ un veto? Se volete chiamarlo così…”.

    Oggi però, osserva lo stesso Del Turco, il Pd di Pier Luigi Bersani non sembra porre ultimatum al governo Monti, anzi. Non a caso nelle ultime ore, complice anche la decisione di ieri del comitato centrale della Fiom-Cgil di convocare per oggi uno sciopero, sono le posizioni dei sindacati a ondeggiare di più. “Qualsiasi accordo firmi, la Cgil rischia di cadere preda di una guerra intestina”, osserva infatti Del Turco, a lungo leader della corrente socialista nel sindacato di Corso Italia. Quanto alla Cisl, “trattare è la ragione stessa d’esistenza del sindacato guidato da Bonanni, la cui vittoria sugli altri rappresentanti dei lavoratori è stata finora culturale ed è consistita nell’imporre la centralità della persona invece che quella delle masse”. In tale tenaglia, la Uil di Luigi Angeletti è a “rischio irrilevanza”, e così si spiegano i recenti e minacciati strappi.

    Il premier, Mario Monti, parlando della trattativa in corso con sindacati e industriali, ha detto che “ognuno deve cedere qualcosa”. Del Turco è convinto che sia così, e sostiene che ciò debba valere anche per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che oggi regola i licenziamenti; per questo invita la Cgil a fare sua una lezione di Bruno Trentin, segretario generale della Fiom (quando Del Turco era nella Fiom) e poi della Cgil: “Nel 1990 fu profeta inascoltato. Disse che la storia delle relazioni industriali italiane somigliava troppo al processo di formazione della crosta terrestre, una sovrapposizione di strati nuovi e diversi senza alcuna selezione, fatto di continue aggiunte. Ma per il bene del paese e della sua economia, non si può sempre sommare”. Del Turco per esempio distingue tra l’accordo del 1992, “sanguinoso per il sindacato, ma che permise il giorno dopo a Carlo Azeglio Ciampi di abbassare il tasso di sconto e guadagnare credibilità internazionale”, e l’accordo interconfederale del luglio 1993, “di tipica matrice consociativa tra industriali e sindacati”, concepito per aggiungere e sommare vantaggi per tutte le corporazioni in campo. Di fronte al governo di Mario Monti che “rompe con lo schema dell’indecisionismo soprattutto democristiano che aveva caratterizzato tanti decenni di storia italiana”, “la Cgil continua come una falange macedone: va solo avanti, non piega mai a sinistra o a destra”. Che poi “piegare” sarebbe tutt’altro che disonorevole: “Il negoziato non è finalizzato ad aggiungere sempre e comunque un altro pezzo per tutti, come sembrano credere ancora in Cgil, ma dovrebbe puntare a uno scambio tra interessi diversi che porti a posizioni più avanzate”. Anche perché dopo il blitz del governo Monti sulla riforma delle pensioni, se il segretario generale della Cgil Susanna Camusso restasse “fuori” anche questa volta sarebbe “un dramma”.

    Uno scenario cupo che sarebbe rischiarato soltanto dall’eventuale scelta del Pd di approvare comunque la riforma del lavoro in Parlamento, bloccando “l’aggiornamento agghiacciante della foto di Vasto, dove a Bersani, Vendola e Di Pietro si vorrebbero aggiungere metalmeccanici e No Tav, oltre a Ferrero e Diliberto”. Il Pd, votando a favore della riforma Monti, farebbe prova di “autonomia”, conclude Del Turco, costringendo pure la Cgil a “smettere di vivere di rendita politica protetta”.

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