
Monti-Cav., viste parallele
“Il professor Monti due giorni fa ha sciolto la riserva e ha accettato l’incarico. Gli ho fatto la corte per lungo tempo, perché ritenevo che il paese dovesse farsi rappresentare da una personalità importante, riconosciuta nazionalmente e internazionalmente, molto vicina al mondo della finanza europea, stimata dai direttori centrali di tutte le Banche nazionali”.
“Il professor Monti due giorni fa ha sciolto la riserva e ha accettato l’incarico. Gli ho fatto la corte per lungo tempo, perché ritenevo che il paese dovesse farsi rappresentare da una personalità importante, riconosciuta nazionalmente e internazionalmente, molto vicina al mondo della finanza europea, stimata dai direttori centrali di tutte le Banche nazionali”. Dicono che Silvio Berlusconi, alla fine dello scorso ottobre, messo nell’angolo da se stesso oltre che dal circo mediatico-finanziario, abbia accarezzato almeno per un attimo l’idea di pronunciare queste parole e poi lasciare proprio a Mario Monti il suo posto a Palazzo Chigi, alla guida però di un governo sostenuto da una maggioranza di centrodestra o poco più allargata. Progetto abbandonato, forse prima ancora di sottoporlo allo stesso ex presidente della Bocconi: tant’è che alla fine il Cav., il 12 novembre scorso, è salito al Quirinale, ha rassegnato le dimissioni “da mai sfiduciato” e ha acconsentito al fatto che Monti guidasse un governo di soli tecnici. Eppure ciò non toglie che Berlusconi quelle parole su Monti le abbia effettivamente pronunciate: “Gli ho fatto la corte per lungo tempo”, “una personalità importante, riconosciuta nazionalmente e internazionalmente”, “molto vicina alla finanza”, etc. Per la precisione, le pronunciò sempre alla fine di ottobre, ma 18 anni fa.
Il 28 ottobre 1994, infatti, il Cav. presentò in conferenza stampa le due personalità scelte dal primo governo di centrodestra per essere parte della Commissione europea presieduta da Jacques Santer. Si trattava di Mario Monti, candidato a diventare commissario per Mercato unico, servizi finanziari e fiscalità, ed Emma Bonino, futuro commissario per la Tutela dei consumatori. Le domande dei giornalisti presenti, allora, si concentrarono perlopiù sulla radicale Bonino, uscita vincitrice dalla sfida con un altro papabile come Giorgio Napolitano; ma a posteriori, qualche attenzione in più a quel professore nato a Varese gli osservatori avrebbero potuto dedicarla. Forse oggi sarebbero meno sorpresi dall’atteggiamento da “venerato predecessore” che il Cav. sfoggia quando parla di Monti. “Conosco bene la serietà e la competenza di Monti – ha detto questa settimana Berlusconi al Corriere del Ticino, nell’ultima di una serie di interviste dai toni molto compassati concesse alla stampa internazionale – Mi piace ricordare che, già nel discorso di insediamento del mio primo governo del 1994, citai proprio il prof. Monti, ‘fautore come noi siamo di un liberismo disciplinato e rigoroso’”.
Quel riferimento non fu casuale; infatti, pochi giorni prima del debutto di Berlusconi alle Camere, lo stesso Monti sul Corriere della Sera aveva scritto: “Con il governo Berlusconi si apre una fase nuova, promettente per una moderna economia di mercato”. Ma quell’editoriale del quotidiano di via Solferino – si dirà – porta la data dell’8 maggio 1994: tutto questo, insomma, avveniva quasi un ventennio fa. Eppure, senza entrare nel dibattito sulle differenze anche antropologiche che già allora dividevano Berlusconi e Monti, ricostruire le alterne fortune del loro rapporto – innanzitutto in merito alle loro idee economiche – aiuta a spiegare la convinzione con cui l’ex premier sostiene ora il nuovo premier, e la naturalezza con cui il nuovo premier rivendica una certa continuità con l’ex premier. Quelle di Berlusconi e Monti, ça va sans dire, non sono storie e personalità sovrapponibili, ma vite (curiosamente) parallele sì.
Sostiene il liberal-liberista Antonio Martino che nel 1994 fu lui, in quella fase particolarmente ascoltato dal presidente del Consiglio, a insistere perché Berlusconi nominasse Monti commissario dell’Unione europea: “Lo avevo incontrato per la prima volta nel 1975, a Venezia, e avevo conversato con lui e Rainer Masera di modello americano e modello sovietico. Loro erano per la ‘terza via’ europea, io ero per un approfondimento di liberalizzazioni e privatizzazioni a partire dagli stessi Stati Uniti.
L’arrivo di Ronald Reagan mi diede ragione. Nel 1976, poi, dopo la fine del lungo blocco dei concorsi decretato da Tristano Codignola, sia io sia Monti vincemmo il concorso per la cattedra di Economia politica. Lui era di tre mesi più giovane e perciò mi rubò il primato d’età”. La prima tappa (accademica) di Monti fu a Torino, pare anche con gli auspici di Sergio Ricossa e quindi con credenziali liberali di non poco conto. “Lo conoscevo e lo stimavo come studioso monetario, seppure ahimé non monetarista, e a Berlusconi proposi il suo nome per Bruxelles – ricorda Martino al Foglio – Il Cavaliere mi disse: ‘Diglielo tu’”. Diversi osservatori dell’epoca ricordano che Monti non accettò immediatamente. Voleva prima essere sicuro che avrebbe operato in un settore veramente di sua competenza. “Anche questa fu prova di onestà intellettuale”, osserva Martino, che ci mise “10 giorni per convincerlo”. Ci riuscì, e poi seguirono appunto quelle parole decisamente calorose pronunciate dal Cav. in conferenza stampa.
Diciott’anni dopo, per fare il punto sui rapporti tra i due, non si può che partire da una sintetica valutazione delle scelte di politica economica dei primi 100 giorni del governo Monti. Accanto a un’ulteriore messa in sicurezza dei conti pubblici, infatti, le cose “notevoli” accadute finora sono soprattutto due. La prima è la riforma compiuta del sistema pensionistico, ovvero il tema su cui nel 1994 cadde il primo governo Berlusconi, pur aiutato in quella battaglia da endorsement liberal e bipartisan come quelli di Franco Modigliani e Romano Prodi. Il secondo snodo paradigmatico è la rivoluzione avviata nel mercato del lavoro, che passa per la messa in discussione di quel tabù chiamato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Anche qui, si tratta essenzialmente della stessa riforma che Berlusconi avviò all’inizio della sua seconda legislatura, con il Patto per l’Italia del 2002 con le parti sociali, ma che la Cgil di Sergio Cofferati fece di tutto per affondare preventivamente. Pensioni e lavoro: basta questo per ritenere che, in 100 giorni, “Monti ha dimostrato di incarnare il ‘vorrei ma non posso’ di Berlusconi, prima ancora che della sinistra”, osserva Benedetto Della Vedova, oggi esponente di Fli-Terzo polo, ma in passato trait d’union tra la cultura riformatrice-radicale e il Popolo della libertà berlusconiano.
D’altronde proprio per il Berlusconi liberal-liberista delle origini, Monti aveva rappresentato a lungo una sponda più avvicinabile e dialogante (di molte altre) all’interno di quel “salotto buono” e di quell’aristocrazia venale a lui mai così congeniali o affini. Già nel 1991, l’allora rettore della Bocconi – a quella carica era arrivato nel 1989, per poi succedere nel 1994 al repubblicano Giovanni Spadolini come presidente dell’Ateneo – parlava di “ethos dell’impresa” come fondamentale per rifondare nel paese un’economia vitale. Nel 1992 lo stesso Monti, durante uno dei primi seminari di Confindustria nei quali figurava tra i principali relatori, biasimò in maniera generalizzata le “lacune dei governi” precedenti, bersagliando tutti gli ultimi anni della Prima Repubblica. Si tratta solo di assonanze con la rupture berlusconiana della “discesa in campo”, certo, poi però nel 1994, alla vigilia dell’insediamento di Berlusconi, venne anche l’apertura al “liberismo disciplinato e rigoroso” sul Corriere della Sera. Nel settembre dello stesso anno, poco dopo aver salutato durante un evento in Bocconi il presidente del Senato Carlo Luigi Scognamiglio Pasini come “il più illustre dei laureati bocconiani”, Monti si spinse a commentare perfino il cambio di regime politico impresso dai referendum elettorali e dalla polarizzazione berlusconiana: “Siamo tutti contenti di esserci mossi verso un sistema che dovrebbe garantire teoricamente maggiore e più lunga governabilità”.
Ciò non equivale evidentemente a fare di Monti un berlusconiano ante litteram o viceversa. Anche perché già allora, secondo l’economista, “l’opera di ricostituzione dell’economia italiana” si fondava su due pilastri: l’economia sociale di mercato, certo, ma anche il riequilibrio della finanza pubblica. In effetti già a quel tempo la riforma delle pensioni era per Monti una priorità. Che guarda caso risultò decisiva per le sorti del primo esecutivo Berlusconi: fu per opporsi alla riforma previdenziale proposta dall’allora ministro del Tesoro, Lamberto Dini, che la Lega nord si dissociò dalla maggioranza di governo determinando la caduta dell’esecutivo dalla culla e dando vita a un governo tecnico, presieduto dallo stesso Dini, che mantenne in vita le pensioni di anzianità a cui, in particolare, teneva la Cgil.
Monti invece su questo fronte non ha mai desistito e, pur vestendo i panni di commissario Ue, non ha evitato di invocare a più riprese la “disossificazione” dell’economia italiana, che passa obbligatoriamente attraverso un confronto serrato con le parti sociali, definite anche come “grandi corporazioni non rappresentative di giovani ed esclusi” (1998). Vale per le pensioni, come anche per la flessibilità da introdurre sul mercato del lavoro. Così il 26 agosto del 1998, parlando al Meeting di Rimini organizzato da Comunione e Liberazione, Monti si spinse a dire: “Se c’è uno sciopero giustificato non è quello generale, ma quello generazionale”.
Il prof. invece è sempre stato meno convinto dagli appelli anti fiscalisti del centro-destra, già nel 1994: secondo Monti quella era una fase – non così dissimile dall’attuale – nella quale mostrare rigore sui conti pubblici equivaleva a fare professione di europeismo, essendo il rispetto dei parametri di Maastricht la condizione per entrare nell’euro per tempo. Ma profondi dissidi ideali con la strategia del primo governo Berlusconi non ce ne furono, se è vero che nel settembre 1994, a un altro seminario autunnale di Confindustria, Monti disse pure: “Sull’Europa condivido le linee della visione liberale che viene esposta in molti paesi e che in Italia recentemente ha espresso l’attuale ministro degli Esteri: grande impegno per il mercato unico, meno burocratismo e allargamento”. Il ministro degli Esteri di allora era il filoatlantico Martino (Forza Italia) e, senza voler a tutti i costi precorrere i tempi, le parole di Monti sembravano prefigurare le alleanze a geometria variabile di queste settimane, con Monti che insieme a David Cameron (Londra) e Mark Rutte (Olanda) brandisce il mercato unico come contrafforte all’egemonia pro austerity di Berlino e Parigi.
Questo infatti è il leitmotiv del Monti europeista che, prim’ancora di essere un federalista (in una recente intervista a Die Welt ha perfino negato l’utilità degli Stati Uniti d’Europa di spinelliana memoria, pur facendo parte a Bruxelles dello “Spinelli Group”), è un convinto assertore dell’Europa quale mercato unico dove merci, servizi e persone possano circolare quanto più liberamente possibile.
Proprio su questo europeismo pragmatico scommise una seconda volta Berlusconi, nel 1999. L’ex ministro Pdl, Renato Brunetta, ricorda che fu infatti il leader del centrodestra ad accordarsi 13 anni fa con l’allora premier Massimo D’Alema per confermare Monti a Bruxelles, con la Commissione stavolta presieduta da un altro italiano, Romano Prodi. Perché il Cav. insistette su di lui? “Perché era uno dei più bravi, uno dei più seri”. Dal 1999 in poi, l’ex ministro con Monti a Bruxelles ci ha lavorato direttamente: “Io ero vicepresidente della commissione Industria del Parlamento europeo, lui era commissario Ue. Agimmo insieme nel settore delle liberalizzazioni, a quell’epoca soprattutto del mercato automobilistico”.
Nel 2004 il mandato della Commissione Prodi terminò e la traiettoria di Monti, in Italia, tornò a incrociare per un attimo – seppure significativo – quella di Berlusconi. Sempre nel 2004, infatti, Gianfranco Fini pose un aut aut sulla testa dell’allora ministro dell’Economia Tremonti, e il 3 luglio l’ebbe vinta con le dimissioni dell’ex commercialista di Sondrio. Berlusconi nell’immediato assunse su di sé l’interim di Via XX Settembre, salvo poi pensare quasi immediatamente al coinvolgimento di Mario Monti. Un coinvolgimento auspicato allora anche dal Corriere della Sera, come dimostra un editoriale di quei giorni firmato da Stefano Folli: “E’ essenziale che non vada sprecata l’occasione di dare all’Italia un grande rappresentante dei suoi interessi in Europa, nonché una personalità che sul piano interno sia in grado di dire i ‘no’ necessari a salvaguardia del bilancio pubblico (…). Inutile dire che il nome di Mario Monti, commissario europeo uscente (e rientrante, nelle speranze di molti), risponde all’insieme di queste esigenze”.
L’ipotesi saltò – ricorda al Foglio chi assistette alla rapida trattativa avvenuta allora ad Arcore – perché Monti pose come condizione preliminare per il suo ingresso nel governo il personale rifiuto a tagliare le tasse in quella fase. Il suo convincimento infatti, come già nel 1994, non era certo che il fisco andasse bene così (asfissiante) com’era, ma che “aprire ulteriori buchi nel bilancio” sarebbe stato quanto mai irresponsabile. Il Cav. però era allora alla ricerca di un segnale di netta discontinuità con lo sparagnino Tremonti, e anche per questo di Monti a Via XX Settembre non se ne fece nulla.
E’ soprattutto attorno a questa dialettica tra rigore fiscale e riforme pro crescita che ha ruotato il confronto a distanza, nella legislatura ancora in corso, tra Berlusconi (premier) e Monti (questa volta editorialista del Corriere della Sera). Nel momento in cui il Cav. raccoglieva i consensi maggiori dall’opinione pubblica, ovvero dopo il terremoto dell’Aquila e all’indomani del discorso di Onna con cui il premier cercò di “riunificare il paese”, l’ex commissario Ue dalle colonne del Corriere della Sera, il 12 luglio 2009, gli suggerì di sfruttare così lo “slancio” e lo “spirito” dell’Aquila: “Berlusconi dovrebbe ispirarsi proprio all’aquila: rapace di grande prestanza fisica, ma che ha il suo vero punto di forza nella vista, capace di fissare nitidamente obiettivi lontani.
L’obiettivo: l’Italia nel 2015-2020. Il progetto: un insieme coerente di riforme per la crescita dell’economia e della società”. Su questo fronte, Monti, che pure non ha mai disconosciuto il ruolo di Giulio Tremonti nella salvaguardia del bilancio pubblico ai tempi della crisi, ha allo stesso tempo cercato quando possibile di andare oltre la posizione del responsabile di Via XX Settembre. Da qui, quindi, l’interlocuzione a distanza con il premier. Il prof. infatti tre anni fa, proprio come Tremonti, riconosceva che le “peculiarità italiane hanno attutito l’impatto della crisi sul nostro sistema economico e sociale”, ma dallo stesso Tremonti dissentiva macroscopicamente sulla necessità delle riforme sviluppiste. “Di fronte al rifiuto sistematico di Tremonti e Sacconi di avviare riforme durante la crisi, con la motivazione di non lacerare il tessuto sociale – ricorda il bocconiano Della Vedova, che Monti lo ebbe anche come prof. – il nuovo premier ha sempre opposto una piattaforma ‘banalmente’ riformatrice”.
Così per esempio, mentre Tremonti tra 2010 e 2011 restava silente sulle traumatiche vicende di Fiat, che vedevano l’ad Sergio Marchionne contrapporsi per mesi ai sindacati e alla stessa Confindustria per strappare contratti più flessibili ed esigibili nelle fabbriche italiane, Monti invece interveniva nel gennaio 2011 sul Corriere della Sera, parlando delle “illusioni” generate da Berlusconi ma riconoscendo allo stesso tempo come esemplari “le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili”. Sempre a gennaio anche Berlusconi si espresse sul referendum della fabbrica Mirafiori che si avvicinava, appoggiando Marchionne anche lui: “Se un’intesa come questa sarà bocciata, le imprese e gli imprenditori avrebbero buone motivazioni per spostarsi in altri paesi”.
Proprio perché Tremonti “non ha affrontato, né forse valutato, adeguatamente i problemi della competitività, della crescita, delle riforme strutturali indispensabili per rimuovere i vincoli della crescita” (Monti, agosto 2011), l’ex commissario ha scelto a più riprese come interlocutore (anche polemico) il Cav. A febbraio dello scorso anno, per esempio, salutò come “geniale” ma quantomeno tardiva la proposta di dare una “frustata pro crescita” all’economia italiana che Berlusconi aveva lanciato con una lettera aperta sul Corriere della Sera. La critica fondamentale dell’ex commissario fu duplice: “Non ha mai mostrato di considerare l’economia – tranne l’agognata riduzione delle tasse – come una vera priorità del suo governo, né ha mai assunto un visibile ruolo di coordinamento attivo e di impulso della politica economica, come fanno da tempo altri capi di governo”.
L’ex ministro Brunetta, che oggi invita a “stare ai fatti” e sostiene che “il decreto Romani-Brunetta-Calderoli (mai approvato, ndr) conteneva il 70 per cento delle misure dei decreti che Monti ha ribattezzato Salva Italia, Cresci Italia e semplificazioni”, non sarà per nulla d’accordo, ma in fondo Monti ha finito per imputare a Berlusconi esattamente quanto aveva imputato al governo Prodi nel 2007: “I costi della politica, le radici dell’impazienza e forse domani della rivolta contro i politici – scriveva – sono anche, e forse soprattutto, i costi del non decidere, del decidere a vantaggio delle corporazioni, del decidere contro i giovani”.
Quell’intervento sul quotidiano di via Solferino, profeticamente intitolato “Sono i tecnici i veri politici”, suscitò molte polemiche. Alle quali Monti rispose sempre sul Corriere, sostenendo per esempio che i “governi tecnici (…) non sono mai desiderabili in una democrazia”, rifiutando le critiche del quotidiano Liberazione che aveva definito il suo articolo “un vero e proprio manifesto programmatico che suggerisce un governo di tecnici, e affossa ancora la politica”. “Ipotesi fantapolitiche”, chiosò Monti. Eppure a quattro anni di distanza dev’essere stato proprio il circolare sempre più frenetico di queste “ipotesi fantapolitiche”, dentro e fuori il Palazzo, a convincere Berlusconi d’una cosa semplice, per quanto difficile da ammettere: che lui aveva in fondo tanto consenso e parecchie buone intenzioni, ma che per vedere queste “intenzioni” trasformate in “azioni” avrebbe dovuto passare il testimone a qualcuno che – teorizzando dal 1994 “il superamento dello stato conservatore”, come lui teorizzava il superamento del tremontiano “stato criminogeno” – avrebbe potuto fare a meno di ricercare “tanto consenso”.


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