Napolitano fa da scudo a Monti e Fornero sulla riforma del lavoro

Marco Valerio Lo Prete

A quanto pare non si dovrà attendere il primo marzo, giorno in cui governo e parti sociali si incontreranno per discutere di licenziamenti e articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per vedere i sindacati piuttosto contrariati. Ieri infatti – spiegano fonti che hanno partecipato al negoziato – è bastato che nella sede del ministero del Lavoro di Via Veneto si entrasse nel merito del capitolo “ammortizzatori sociali” per registrare lo sconcerto dei rappresentanti dei lavoratori.

    A quanto pare non si dovrà attendere il primo marzo, giorno in cui governo e parti sociali si incontreranno per discutere di licenziamenti e articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per vedere i sindacati piuttosto contrariati. Ieri infatti – spiegano fonti che hanno partecipato al negoziato – è bastato che nella sede del ministero del Lavoro di Via Veneto si entrasse nel merito del capitolo “ammortizzatori sociali” per registrare lo sconcerto dei rappresentanti dei lavoratori. Senza contare che, a metà mattinata da Milano, il premier Mario Monti ha ribadito che “a marzo il governo presenterà al Parlamento la riforma del mercato del lavoro, con o senza l’accordo con i sindacati: noi speriamo con, ma non possiamo consentire poteri di blocco troppo paralizzanti”. La proposta dell’esecutivo, per quanto riguarda la rete di tutele sociali, è nota: i nuovi ammortizzatori dovrebbero entrare in vigore dall’autunno 2013, e un’unica indennità di disoccupazione dovrebbe sostituire la disoccupazione ordinaria, la disoccupazione con requisiti ridotti, la mobilità, la disoccupazione speciale, e la cassa integrazione straordinaria e in deroga. Rimarrà in piedi la sola cassa integrazione ordinaria per i lavoratori di imprese che attraversano crisi reversibili. Una novità emersa ieri è che l’esecutivo sta pensando anche a “incentivi” in favore di contratti stabili rispetto a quelli a termine.

    Perfino Confindustria, che pure ha fatto sapere di sostenere il governo nello sprint riformatore da concludere entro marzo, si è detta “d’accordo con i sindacati” su un punto: “Per almeno due anni è importante mantenere gli ammortizzatori che ci sono oggi. Cambiarli in un momento così difficile rischia di creare danni ai lavoratori, 18 mesi sono assolutamente insufficienti”. I rappresentanti dei lavoratori non si sono limitati a criticare la tempistica, ma la stessa ratio della riforma. Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha definito “sicuramente faticosa” la discussione con l’esecutivo, poi ha sollevato il “problema essenziale” delle risorse, da trovare prima di costruire un sistema più universale di tutele. Critico anche il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni: “Vogliamo capire se il governo vuole una riforma o una controriforma”.

    A fronte dello scetticismo dei sindacati, un sostegno indiretto all’operato dell’esecutivo è arrivato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “La coesione sociale è importante per la crescita del paese e non significa immobilismo ma mettere in piedi un sistema di welfare e sicurezza sociale diverso da quello che è stato creato in passato”. D’altronde finora il governo ha trattato sempre in maniera congiunta il tema della flessibilità in uscita (articolo 18) e quello degli ammortizzatori sociali, e ciò ha contribuito anche a raccogliere consensi trasversali, tra i politici come tra gli addetti ai lavori. Ieri per esempio, il giuslavorista e senatore del Pd Pietro Ichino, nella sua newsletter, è tornato a spiegare “a che cosa serve la riforma degli ammortizzatori sociali”. E’ una questione di giustizia sociale: “A chi perde il posto occorre dare un sostegno del reddito anche più robusto di quello offerto dalla cassa integrazione – sostiene Ichino – la proposta è di aumentare la copertura dell’ultima retribuzione al 90 per cento per il primo anno e alzare il ‘tetto’ mensile a 3.000 euro. Ma questo intervento deve essere coniugato con un’assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione e deve essere condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore”. Ichino non manca di fornire dati a sostegno della sua tesi, portando in particolare l’esempio del Veneto, una delle regioni che – in questo periodo di crisi – resta tra le più vitali: “Il dato relativo al Veneto non si discosta dalla media nazionale: se dunque, come si è visto, otto lavoratori su dieci senza particolari aiuti ritrovano il posto entro un anno, con una buona assistenza intensiva si può realisticamente puntare alla ricollocazione entro un anno almeno di nove lavoratori su dieci. E del decimo entro il secondo anno”.

    Sulla prima pagina del Corriere della Sera di ieri, anche i liberisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno sostenuto che riforma dei contratti e riforma dei sussidi “vanno fatte insieme”. “La strada spagnola è quella giusta: far pagare alle imprese una parte dei sussidi di disoccupazione fa sì che esse ci pensino bene prima di licenziare un dipendente, tanto più quanto più a lungo è durato il rapporto di lavoro”. Alesina e Giavazzi sottolineano l’importanza di questo meccanismo per aumentare l’efficienza del mercato del lavoro: “Agevolare le imprese se il licenziamento dipende da motivi economici evita che si tengano artificialmente in vita imprese decotte, come invece avviene in Italia quando si prolunga oltre misura la cassa integrazione”.