La repubblica democraticamente corrotta e l'ossessione dei ladri

Giuliano Ferrara

Per molto tempo sulle inchieste milanesi contro la corruzione ho  sostenuto quel che tutti sanno. Che erano politicamente orientate, che  i magistrati d’assalto come ceto codino e alcuni loro rappresentanti come persone ambiziose volevano riscattarsi e invadere il campo della politica, diventare famosi e dettare nuove regole di comportamento, fondare partiti, atteggiarsi a procuratori in crociata, esprimere sulla ribalta nazionale una cultura della giurisdizione ideologicamente corretta, maturata negli anni Settanta e poi esplosa nell’assedio riuscito alla Repubblica dei partiti.

    Per molto tempo sulle inchieste milanesi contro la corruzione ho  sostenuto quel che tutti sanno. Che erano politicamente orientate, che  i magistrati d’assalto come ceto codino e alcuni loro rappresentanti come persone ambiziose volevano riscattarsi e invadere il campo della politica, diventare famosi e dettare nuove regole di comportamento, fondare partiti, atteggiarsi a procuratori in crociata, esprimere sulla ribalta nazionale una cultura della giurisdizione ideologicamente corretta, maturata negli anni Settanta e poi esplosa nell’assedio riuscito alla Repubblica dei partiti. Mi sembrava che in primo piano fosse, solo ad avere il coraggio di guardarla, una torsione partigiana e faziosa della legalità. Forse il solo Francesco Saverio Borrelli, codino e reazionario come pochi in quanto borghese di ceppo meridionale inserito a Milano, borghese di abitudini e per stile di vita severamente scelto, perseguiva uno scopo genericamente etico; e infatti fu lui a svelare tutto l’arcano quando (voce dal sen fuggita) rimproverò pubblicamente a Di Pietro, ora in finte lacrime dopo aver goduto tanto delle vere lacrime degli altri, di aver dichiarato in privato a lui che “io a quello lo sfascio”.

    Non la penso più così. Era vero tutto questo, la giustizia fu politicizzata al di là dei dati oggettivi rivelati dalle inchieste o da alcune inchieste, ma quello che è accaduto supera di gran lunga l’uso politico della giustizia, e la prova generale era stata il caso Tortora. La politica era anormalmente corrotta nel senso che la caccia ai soldi si era trasformata in una pratica in nero emancipata da fini e realtà antiche di funzionamento del sistema, radicate nella guerra fredda e più in generale nella specificità di potere di ogni politica, e la pletora dei finanziatori aveva preso la mano ai capi dei partiti, generando cattive abitudini sconosciute all’epoca in cui garantire il funzionamento della democrazia, anche trasgredendo le regole della compunzione ipocrita che sono sempre un collaterale della vita dello stato, aveva perfino qualcosa di eroico, testimoniava di riservatezza, incorruttibilità personale, dedizione alla causa, radicalità dell’amore per una vita militante (Ugo La Malfa disse alla Camera che i soldi dei petrolieri, i quali ricevevano in cambio favori nella legislazione fiscale, servivano per stampare La Voce repubblicana, e lo disse con orgoglio da vecchio azionista e da vecchio siciliano integro). Ma la Repubblica democraticamente corrotta ha lasciato il posto a un falso paese della virtù, un luogo di oppressione culturale, di pulsioni etiche ossessive, di scemenze punitive sempre più diffuse che alla fine sono diventate una specie di falso senso comune.

    Bisognerà pur dirlo. Siamo diventati un paese ridicolo, malato di falso virtuismo, e abbiamo smarrito in tanti anni il gusto della vita pubblica, l’idea e la pratica di un esercizio efficace del potere, con i risultati che stanno sotto gli occhi di tutti. Più anticorruzione retorica, dosi sempre più massicce di discorsi alterati, ubriachi, sulla casta della politica, e la scomparsa della condizione democratica in un nuovo regime culturale rivelatosi indispensabile per l’emergenza ma che viene dal profondo della dimensione etica della tecnica, dall’idea della neutralità delle scelte, che non è il rovesciamento delle ideologie ma la vittoria finale di un’ideologia. I discorsi sulla corruzione sono automatici, algidi, apparentemente persuasivi, si danno sempre il braccio il magistrato, il funzionario della Corte dei conti, il giornalista di grido pistarolo o editorialista moraleggiante, i tribuni in malafede del programma di restaurazione della legalità, carcerieri del pensiero storico, della filosofia politica, gente che metterebbe al gabbio Croce e Machiavelli e Balzac e il romanzo russo, che ci fornisce non strumenti per capire ma mezzi per criminalizzare la varietà del mondo, quella che sta nei buoni racconti, nella verità delle vite di secoli di umanità, e non poteva che essere il grande processo del secolo alla vita privata di un uomo pubblico e privato e delle sue ragazze invitate alle sue feste il culmine guardone, intercettatorio, spionistico, morboso fino a vette ulceranti, di una trasformazione culturale rispetto alla quale verrebbe da dire com’era bello il vecchio mondo dei ladri e dei maschi italiani o latini lasciati in pace con i loro elisir d’amore. I magna latrocinia di Agostino non sono le banalità della corruzione politica, sono le Repubbliche o gli imperi in cui più della metà dei figli nascono fuori da un’unione d’amore tra maschio e femmina (ultime dall’America), sono gli stati che non fanno il loro dovere per tutelare la famiglia e la maternità, senza opprimere le donne e le libertà civili, senza andare contro le variazioni culturali del sistema di vita, ma anche senza indulgere a una sfrenata rincorsa del desiderio come legge, come codice civile di nuovo stampo.

    I ladri? Non erano il problema. Non sono il problema. Sono la nostra ossessione, un modo di volgere lo sguardo via dalla pazza e infernale vita che ci siamo costruiti, via dalla cultura di micragna e di sobrietà che sembriamo aver scelto, contro la quale si ergeva, non sicapisce fino a che punto consapevolmente, il partito ora scompaginato di una nuova destra ridanciana, allegra, populista, caciarona, pop e molto scombiccherata ma vitale e a suo modo sensata. La caccia al ladro invece della Repubblica presidenziale, delle riforme, di un regime fiscale da paese civile, invece di una nuova televisione, invece di una letteratura degna di questo nome, invece, di un cinema d’aggressione alle storie che parlano e incantano, invece di tutto quello che hanno i paesi, beati loro, in cui i magistrati carcerano qualche delinquente, lo standard etico è alto nelle istituzioni, ma nessuno è mai autorizzato a fare dei criteri di pubblica moralità una base generale per la politica, per il funzionamento delle istituzioni, i paesi in cui ancora si parla di guerra e di pace, si fanno le cose che contano, si discute e ci si scontra sulle dimensioni dello stato nella vita libera dei cittadini. Qui è solo questione di ladri e di puttane, uno spettacolo avvilente che è la vera eredità immoralistica delle inchieste di Milano sulla corruzione e della resa generale dell’intelligenza italiana che le accolse e le coccolò per evidenti interessi di bottega.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.