Fidel e la funzione antiveritativa del giornalismo nell'epoca dei tweet

Piero Vietti

Fidel è morto, viva Fidel. Ci sono episodi che fanno sperare che il giornalismo come Dio comanda non sia ancora stato sostituito da quella forma bassa di citizen journalism in cui cercano di trasformare Twitter. Succede che lunedì sera qualcuno cinguetta che “Cuba Press ha verificato la morte di Fidel Castro. Stasera la comunicazione ufficiale dal governo del paese”. Basta questo, e la notizia fa il giro del mondo e viene retwittata anche da parecchi giornalisti (che non verificano se la verifica di Cuba Press sia effettivamente avvenuta). Poi la smentita, arrivata ieri mattina.

    Fidel è morto, viva Fidel. Ci sono episodi che fanno sperare che il giornalismo come Dio comanda non sia ancora stato sostituito da quella forma bassa di citizen journalism in cui cercano di trasformare Twitter. Succede che lunedì sera qualcuno cinguetta che “Cuba Press ha verificato la morte di Fidel Castro. Stasera la comunicazione ufficiale dal governo del paese”. Basta questo, e la notizia fa il giro del mondo e viene retwittata anche da parecchi giornalisti (che non verificano se la verifica di Cuba Press sia effettivamente avvenuta). Poi la smentita, arrivata ieri mattina.

    Il fatto che Twitter per molti giornalisti abbia sostituito la consultazione delle agenzie ha accelerato il dibattito in rete, dato brio alle discussioni e maggiore eco alle notizie. In molti casi però ha trasformato l’accertamento della verità (parola scivolosa, in questo mestiere) in un retweet. La fretta di dirlo prima degli altri, di essere quello che lo segnala in anticipo e che lo fa diventare “trending” nelle discussioni porta spesso a prendere topiche abbastanza grosse (il che è pericoloso, considerando che un lettore ha ancora, inspiegabilmente forse, fiducia che il giornalista in questione sappia di cosa scrive e non voglia fregarlo).

    Solo pochi giorni fa qualche giornalista italiano ha rilanciato la bufala, nata su Twitter, del leader sudafricano Nelson Mandela in fin di vita in ospedale. Per qualche ora in molti ci hanno creduto, salvo apprendere poi che la notizia era priva di fondamento, nata anzi da un tweet equivocato e poi rilanciato in modo errato. Alla base di questi equivoci c’è anche il pressappochismo dei giornali: la scorsa settimana il Guardian ha pubblicato un paio di articoli con dati sballati sulla Grecia (uno diceva che il tasso di suicidi era tra i più alti in Europa dopo la crisi e l’altro che in un anno un decimo della popolazione greca aveva lasciato la madrepatria). Dopo che la notizia era stata ripresa ovunque, il Guardian ha fatto retromarcia, smentendo i dati. Ormai il danno era fatto, e per giorni – grazie al circolo virtuoso/vizioso dei retweet – le false notizie hanno continuato a girare, riprese persino dall’agenzia Reuters. Fidandosi della fonte originaria, in pochi avevano effettivamente letto gli articoli, perdendosi così la smentita. Che il giornalismo stia cambiando (in molti casi in meglio) grazie ai social network è indubbio. Che questa sia l’occasione per fare ancora meglio il mestiere sarebbe bellissimo.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.