L'uomo di latta

A chiamarlo fiabescamente “l’uomo di latta” è stato il terragno magnate Jack Connors, noto anche come “l’ultimo re di Boston”. “Non c’è dubbio che abbia creatività imprenditoriale, bell’aspetto e notevoli doti di leadership”, ha esordito una volta con l’intento di addolcire una pessima conclusione: “Ma non ha cuore, come l’uomo di latta”.

    A chiamarlo fiabescamente “l’uomo di latta” è stato il terragno magnate Jack Connors, noto anche come “l’ultimo re di Boston”. “Non c’è dubbio che abbia creatività imprenditoriale, bell’aspetto e notevoli doti di leadership”, ha esordito una volta con l’intento di addolcire una pessima conclusione: “Ma non ha cuore, come l’uomo di latta”. Come il personaggio di Frank Baum, anche Mitt Romney è alla disperata ricerca di un cuore di carne che riscatti le sembianze troppo meccaniche, l’umorismo incomprensibile, la cravatta preannodata, il ciuffo impossibile da spettinare. Romney non uscirebbe da un’analisi fisiognomica con un surplus di autostima. L’insieme dei caratteri che esibisce pubblicamente, dai lineamenti al portamento fino a quel sorrisetto che indossa quando altri argomentano contro di lui, restituisce sensazioni identiche a quelle che Connors ha elaborato dopo decenni di frequentazione dell’ex governatore del Massachusetts, uomo volitivo, ordinato, ordinario, scaltro, pragmatico, operoso, flemmatico, ambizioso, frugale, calcolatore e leader per via di abilità organizzative affinate nel tempo e disciplina famigliare, non per dono carismatico. Soprattutto, Romney ha una forma mentis analitica, intesa anche nel senso kantiano di impossibilità di uscire dai confini della tautologia nel descrivere il mondo, caratteristica che lo contrappone a quei presidenti americani che prima ancora di mettere in fila un paio di concetti sensati di politica economica o estera sono riusciti ad aggiungere, grazie alla loro stessa presenza, elementi inediti nella narrazione di sé e del mondo.

    Per Reagan una delle chiavi sintetiche era la geniale ironia, per Kennedy l’allure di Camelot e i capelli al vento, per Obama è il sincretismo culturale che la sua stessa pelle racconta a piena voce. Loro leader sintetici, Romney operaio analitico.
    Il giornalista e scrittore Ronald Scott, un lontano cugino di Romney, nel suo libro “Mitt Romney: An inside look at the man and his politics” ha fissato le sei caratteristiche fondamentali del candidato alla Casa Bianca: “1) E’ un problem solver che di rado accetta il “no” come risposta. 2) Agisce pragmaticamente e preventivamente. 3) Ama avere tutto sotto controllo e può essere un rigidissimo controllore. 4) Non è capace di interpretare le persone, si aspetta che tutti intendano le cose in modo letterale e crede che tutti le recepiscano in quel modo. 5) Non è in grado di prevedere attacchi alle spalle, quindi si fa cogliere impreparato. 6) Se mai gli capita di fare un errore lo tiene per sé, nonostante rimanga certo che sia l’esito di un fraintendimento”.

    C’è un aneddoto famigliare che spiega la psicologia di Romney meglio di centinaia di discorsi politici. In un pomeriggio straordinariamente caldo del maggio di molti anni fa, Mitt ha portato moglie e figli al lago per una gita ristoratrice in barca. Dal bosco è apparso un ranger che ha notato che la licenza della barca di Romney non era stata rinnovata. La discussione si è trasformata in un alterco e il poliziotto, inflessibile, ha concluso con una battuta: “Mettere la barca in acqua oggi le costerà almeno cinquanta dollari”. Il ranger si riferiva alla multa che avrebbe dovuto comminare, ma Mitt l’ha preso alla lettera: ha messo mano al portafoglio e ha estratto i biglietti verdi necessari. Naturalmente s’è beccato una denuncia per tentata corruzione. Nemmeno la sua lunga esperienza politica gli ha tolto il tic dell’interpretazione strettamente letterale delle parole. Quando qualcuno gli chiede conto del suo cambio di posizione sull’aborto (nel 2002 era un convinto pro choice) oppure sulla riforma sanitaria (quella da lui promossa in Massachusetts assieme all’acerrimo nemico Ted Kennedy è il prototipo dell’Obamacare) lui spiega che “ha cambiato idea”, ma fatica a cogliere il sottotesto. Che abbia cambiato idea è un fatto autoevidente, la ratio delle domande sulle sue resipiscenze è se queste non avvengano a comando. Allora aveva bisogno di accarezzare l’elettorato liberal del Massachusetts, ora deve piuttosto conquistarsi una base elettorale che sull’aborto non è disposta a negoziare. E forse nemmeno sulla riforma sanitaria che passerà al vaglio della Corte suprema a marzo.

    Romney sa di essere l’uomo di latta. Come il personaggio del mago di Oz, anche il candidato “inevitabile” del Gop se ne va in giro risolvendo i problemi che si presentano nel corso dell’intreccio, ma il problema fondamentale, quello di un cuore caldo e pulsante dentro alla gabbia toracica di metallo, riaffiora nelle parole e nell’iconografia. Se Karl Rove, il grande architetto di Bush, dice che gli americani votano soltanto una persona con cui berrebbero volentieri un paio di birre, un consigliere di Romney ha spiegato che “se anche Romney bevesse, non sarebbe il tipo con cui vorresti bere una birra”. Una volta Romney si è quasi scusato per la sua freddezza: “Sono una persona normale, ho delle emozioni”, e recentemente ha iniziato a fare le interviste in maniche di camicia e senza cravatta, mise inconcepibile per un banchiere mormone cresciuto all’ombra di ideali perfettamente pettinati, quello che durante la campagna elettorale per il governo del Massachusetts andava in giro per lo stato a fare comizi con Powerpoint. Aveva scambiato la promozione politica con un meeting di lavoro a Bain Capital, la banca che ha co-fondato nel 1984 e della quale è stato amministratore delegato per ampi tratti della carriera, ma tanto bastava per aggiudicarsi l’elezione locale in uno stato in cui la forma mentis finanziaria è ampiamente diffusa.

    Per convincere gli elettori repubblicani – e poi semmai tutti gli altri – a livello nazionale, la forza narrativa, il senso del romanzo, l’accesso a una visione ideale e persino onirica della cosa pubblica sono fattori non secondari del successo e Romney, al quale il senso tattico non manca, sa che nemmeno un cuore di seta come quello che si aggiudica l’uomo di latta dopo tante peripezie può bastare. Ed ecco che allora spunta la camicia sbottonata, la giacca sportiva, entra in scena Ann, la moglie di una vita, per fare da cassa di risonanza alle parti più soffici del Bildungsroman romneyano. Il racconto della sclerosi che ha assalito la moglie in quei drammatici anni in cui lei, ha confidato, ha persino pregato che Dio le concedesse la morte, la fedeltà incondizionata del marito, disposto a lasciare tutto pur di starle accanto – quando la salute di Ann è radicalmente migliorata, Mitt ha ribadito che se dovesse ricomparire anche solo una traccia del morbo lascerebbe ogni ruolo pubblico – sono i passaggi di un necessario percorso di umanizzazione. Per Mitt la campagna elettorale non è altro che questo.

    Esistono diverse versioni di Mitt Romney: c’è il businessman di successo, l’internazionalista mormone, il politico trasformista, il conservatore intransigente, c’è il Romney del Michigan, quello di Boston e quello in missione francese per conto di Mormon; ma sotto la patina sfaccettata delle apparenze c’è quello che Isaiah Berlin chiamerebbe un “riccio”, un tipo intellettuale che fa discendere tutta la complessità del suo operato da una singola idea o convinzione. E questa convinzione è impastata nella tradizione del mormonismo. Mitt è nato e cresciuto a Bloomfield Hills, nel Michigan. Chi, per esigenza di semplificazione, dice che la sua città è Detroit tradisce il fatto che dopo le sommosse razziali del 1943 i bianchi hanno iniziato a spostarsi nella periferia nord della città delle automobili. Oggi una famiglia di Bloomfield Hills guadagna in media 200 mila dollari l’anno e metà delle case hanno un valore che supera il milione. Nella vicina Birmingham, Sergio Marchionne ha la villetta in cui alloggia quando lavora al quartier generale della Chrysler, ad Auburn Hills.

    Anche il padre di Mitt, George Romney, è stato un uomo d’affari prestato alla politica. Nel Michigan è arrivato come portavoce dell’associazione dei costruttori di automobili, e quando il settore ha avuto una strepitosa impennata in corrispondenza dell’inizio della Seconda guerra mondiale, George ha scalato in fretta i gradini del settore automobilistico. Così aveva riscattato i decenni di quel mormonissimo peregrinare per l’America e quella scelta dei genitori, strana soltanto in apparenza, di stabilirsi in Messico. Soltanto lì, nella comunità mormona dello stato di Chihuahua, i nonni poligami di Mitt Romney erano al riparo dalle accuse mosse dal governo federale alla più famosa fra le tradizioni dei mormoni. George Romney è stato un tradizionalista riformatore. Pur essendo un fervente ministro del culto totalmente devoto alla diffusione del libro trascritto dall’autoproclamato profeta Joseph Smith, George ha introdotto elementi spuri nell’ortodossia mormona. Quando è stato eletto governatore del Michigan, nel 1963, si è schierato a favore del movimento dei diritti civili di Martin Luther King e ha promosso le grandi marce per l’uguaglianza razziale. Per quanto Mitt lo ripeta in ogni contesto, suo padre non ha marciato a fianco del pastore afroamericano nell’epocale manifestazione del 1963: George si era espresso a favore dell’iniziativa, ma all’atto pratico la marcia si era svolta di domenica, durante lo shabbat dei mormoni. Un membro del gran consiglio dei dodici apostoli – una delle massime assemblee della gerarchia mormona – gli aveva intimato di rigettare la “legge viziosa” sui diritti civili: se il Signore aveva mandato la sua “maledizione sul Negro” evidentemente non era compito dell’uomo rimuoverla.

    Il rifiuto di Romney di fare un passo indietro sulla questione dei diritti civili ha determinato contemporaneamente l’allontanamento dalla rigidità sociale dei mormoni e dai diktat del Partito repubblicano. Sul terreno dei diritti civili si è aperta la battaglia con il governatore dell’Arizona, Barry Goldwater, che risulterà nell’estromissione di fatto del moderato Romney dal cuore del Gop. La pietra tombale sulle possibilità di ottenere la nomination del partito per la corsa alla Casa Bianca nel 1968 l’ha messa un’uscita infelice nella quale, strana nemesi, sono stati gli altri ad avere preso troppo alla lettera le parole di un Romney. In un’intervista aveva detto che dopo il suo viaggio in Vietnam di un paio di anni prima gli uomini del segretario della Difesa, Robert McNamara, gli avevano fatto il “lavaggio del cervello”. Il commento, unito alle critiche alla guerra, aveva chiuso le sue possibilità di rappresentare in modo credibile anche soltanto la parte più moderata del partito, quella guidata moralmente da Nelson Rockefeller.

    Lo strappo di George è stato un fatto epocale per un’antica famiglia la cui storia è intimamente connessa con le travagliate vicende dei mormoni. Fra gli antenati di Romney c’è il profeta Smith, ci sono i fratelli Pratt – gli “apostoli” che hanno portato i mormoni nello Utah – e c’è anche la “strega” Anne Hutchinson, la donna processata per stregoneria nella prima colonia puritana e poi bruciata viva dagli indiani a New York assieme ai figli. Soltanto una delle figlie, Susanne, è stata risparmiata, per via dei capelli rossi, connotato mistico che la tribù non poteva violare. Dalla stirpe di Susanne discenderanno i Roosevelt, i Bush, i DuPont e anche i Romney.

    George il riformatore era l’idolo del suo figlio più piccolo, Willard Mitt, così chiamato in onore del migliore amico di famiglia, Willard Marriott, quello degli alberghi, e per un cugino che giocava come quarterback nei Chicago Bears. Da bambino Mitt aveva in testa soltanto le automobili. Voleva non solo guidarle ma costruirle, proprio come il padre, che ogni mattina se lo teneva sulle ginocchia mentre sfogliava i giornali. La fregola dell’automobile è svanita quando Mitt è uscito dalla borghesia del Michigan per andare a studiare a Stanford, dove organizzava contromanifestazioni in favore della leva obbligatoria per il Vietnam – in quel momento il padre non era ancora un critico esplicito della guerra – istituzione alla quale ha aderito con bruciante trasporto ideale ma che nei fatti è riuscito a disertare partendo per la Francia come missionario. Nella formazione dei mormoni la missione è fondamentale: ogni buon mormone deve passare almeno due anni in un paese straniero per fare proseliti; il padre era stato in Inghilterra e in Scozia, a lui toccava il sud della Francia, ambiente duro per la missione ma dove l’urbano Mitt se l’è cavata meglio dei colleghi missionari tirati su nella monoculturale Salt Lake City. Il terribile incidente stradale che lo coinvolge senza colpa e in cui muore la moglie del presidente della missione mormona in Francia lo scuote profondamente, ma allo stesso tempo esalta le sue doti di leader analitico, un sistematizzatore che dà il meglio nel momento in cui la confusione è massima.

    La dottrina di Romney è intrisa del materialismo latente dei mormoni. “Tutto lo spirito è materia, ma è più pura e fine, e può essere riconosciuta soltanto da occhi più puri”, si legge in “Doctrines and Covenants”, summa etico-teologica dei seguaci della chiesa dei santi degli ultimi giorni. Non è un caso se qualche mese dopo la morte di Smith il New York Herald lo aveva chiamato “il nuovo Maometto”. Il profeta era dedito al culto ascetico del corpo già prima di tradurre profeticamente da tavole d’oro il libro che racconta l’emigrazione del popolo di Israele in una terra ancora più promessa di quella promessa, l’America della libertà e delle denominazioni cristiane. Niente fumo, niente alcol, niente caffeina e teina, niente che possa nuocere a quel corpo che è una specificazione dello spirito. Nessun problema, invece, con la sbrigliatezza sessuale, tanto che formalmente Smith è stato ucciso al termine di una disputa politico-teologica, ma più realisticamente i suoi seguaci più stretti non avevano preso benissimo le sue proposte di matrimonio alle loro mogli.

    Romney è parte di una versione del mormonismo socialmente più edulcorata – decisamente monogama, qualitativamente distinta dal secolo ma mondana nella forma – ma non meno rigorosa nel suo materialismo, una dottrina che ha originato per naturale mitosi una lobby che soltanto in America muove trenta miliardi di dollari l’anno. I 7 milioni di mormoni americani sono in politica, nel mondo dello spettacolo, nei media, nelle banche, nella società civile; sono trasversali e interclassisti, non fanno del mormonismo una bandiera da esibire pubblicamente ma sono intimamente convinti di vivere una relazione più diretta con il divino rispetto a qualunque altro monoteista. La rigida organizzazione sociale che unisce Romney, il leader democratico del Senato, Harry Reid, l’imbonitore mediatico Glenn Beck, il candidato minore Jon Huntsman è la diretta conseguenza di un immanentismo di fatto: tutto è Dio, innanzitutto l’uomo, che si agisca dunque di conseguenza. Come ministro del culto a Boston, dove si è stabilito dopo aver studiato ad Harvard, Romney era un’intransigente figura di riferimento. I convertiti, specialmente le donne, avevano relazioni complicate con questo erede di una lunga tradizione, il quale pretendeva dagli altri almeno ciò che chiedeva a se stesso: una dedizione totale. La politica ha smussato gli angoli più acuti dell’uomo di latta, ma non ha azzerato la sua propensione alla monodimensionalità.

    Clint Eastwood ha detto che se dovesse trovare un attore per fare il presidente degli Stati Uniti chiederebbe a Romney, perché “sembra un presidente”, dove l’enfasi viene posta sulla voce verbale “sembra”. Che si parli di sicurezza nazionale, di crisi economica, di guerra o carestia, Romney lascia sempre l’impressione di poter cadere da un momento all’altro in avanti come la facciata di un palazzo in un set di un film western. Per questo Romney è e rimarrà in eterno il candidato repubblicano “inevitabile”, quello che raccoglie consensi nelle lacune altrui, che con il suo piglio analitico racimola e capitalizza le briciole che cadono dai tavoli a lui più vicini. Nel 2008 è bastato un maverick con qualche tenue tratto di originalità per spingerlo fuori dalla corsa. Nel 2012, il massimo dell’originalità sulla piazza è Newt Gingrich. Ma rimane sempre il problema del cuore. E’ per la surreale rigidità e il culto dell’efficienza dell’uomo di latta che l’editorialista del New York Times Gail Collins ha citato in circa trentacinque articoli quella volta in cui la famiglia Romney è andata in vacanza in Canada e per ottimizzare gli spazi Mitt ha legato il cane sul tettuccio dell’auto. Collins è ossessionata dalla vicenda come soltanto un editorialista del New York Times potrebbe esserlo, ma la sua ossessione coglie quel punto in cui la perfetta razionalità dell’uomo di latta sconfina nell’assurdo. Per questo non smetterà molto presto di rivangare il compianto cane Seamus.