Agli antipodi della crisi

Marco Valerio Lo Prete

Il club dei paesi “Tripla A” è diventato decisamente esclusivo. Di questi tempi addirittura quasi inaccessibile, considerata la rigida selezione all'ingresso che le agenzie di rating esercitano sui debiti sovrani degli stati. Restare fuori dal club ovviamente ha un costo – come dimostra l'incremento di rendimenti e spread sui titoli del debito italiano – ma oggi è difficile entrarvi se sei un paese occidentale, specie da quando Standard & Poor's, lo scorso agosto, ha bocciato i conti pubblici degli Stati Uniti, togliendo per la prima volta all'America la tripla A che certifica l'affidabilità massima agli occhi degli investitori.

    Il club dei paesi “Tripla A” è diventato decisamente esclusivo. Di questi tempi addirittura quasi inaccessibile, considerata la rigida selezione all'ingresso che le agenzie di rating esercitano sui debiti sovrani degli stati. Restare fuori dal club ovviamente ha un costo – come dimostra l'incremento di rendimenti e spread sui titoli del debito italiano – ma oggi è difficile entrarvi se sei un paese occidentale, specie da quando Standard & Poor's, lo scorso agosto, ha bocciato i conti pubblici degli Stati Uniti, togliendo per la prima volta all'America la tripla A che certifica l'affidabilità massima agli occhi degli investitori. Gli ultimi paesi europei a essere declassati sono stati, in sole due settimane, il Belgio, l'Ungheria e la Slovenia. E ora a tremare è la grandeur della Francia, al punto che l'Eliseo prova a distogliere l'attenzione dei mercati puntando il dito su un paese che l'uscita dal club la meriterebbe davvero – sostiene Parigi –, ovvero il Regno Unito. Eppure, lontano dagli occhi dei nostri analisti, e ancor più distante dai nostri confini europei, c'è un paese occidentale (con tanto di volto della regina Elisabetta II impresso su ogni sua moneta) che è appena stato ammesso nell'ambìto circolo dei bond statali ultra sicuri: l'Australia. L'agenzia Fitch ha infatti alzato il rating di Canberra alla fine di novembre, assegnandole la tripla A che è riservata agli emittenti di debito più affidabili in assoluto. Il motivo? Fitch ritiene che le politiche economiche del paese siano decisamente sane e il livello di indebitamento estremamente basso. Di conseguenza, gli investitori comprano bond australiani senza timori, e il rendimento del titolo decennale locale ha raggiunto un livello mai così basso (3,7 per cento). Come se ciò non bastasse a posizionare l'isola in questione agli antipodi del malessere che ha contagiato i mercati americani ed europei sin dal 2008, a dicembre sono state riviste al rialzo anche le stime di crescita del prodotto interno lordo: il pil dell'ex colonia britannica infatti è aumentato dell'1 per cento nel terzo trimestre rispetto al secondo, più dello 0,8 per cento che il governo si attendeva, con l'economia che in tutto il 2011 dovrebbe essere cresciuta del 3 per cento rispetto al 2010.

    “Non a caso la chiamano ‘Lucky country'”, è il primo commento di Fabrizio Galimberti, economista ed editorialista del Sole 24 Ore, profondo conoscitore dell'Australia, dove tra l'altro vive. Il nomignolo di “paese fortunato” divenne improvvisamente popolare nell'ex colonia britannica nel 1964, con la pubblicazione dell'omonimo libro di Donald Horne, ma spopola ancora oggi, anche se difficilmente in giro per il mondo i milioni di fan della cantante australiana Kylie Minogue avranno colto pienamente il senso del ritornello di una delle sue hit internazionali, “lucky, lucky, lucky”. A dire il vero Horne, nel volume che risale alla metà del secolo scorso, ironizzava sul provincialismo e sulla grettezza dei suoi concittadini, discendenti dei prigionieri trasferiti lì da Londra alla metà del diciottesimo secolo, pur accennando appunto alla “fortuna” che essi avevano di trovarsi in un paese ricco dal punto di vista delle risorse naturali. In questi anni di Grande recessione, la sorte ha voluto che “l'Australia si trovasse in un'area del pianeta che ha continuato a crescere – dice al Foglio Galimberti – I paesi asiatici che si affacciano sull'oceano Pacifico sono tra l'altro nei primi stadi della loro industrializzazione, decisamente affamati di materie prime. E nel sottosuolo dell'Australia giacciono moltissime di queste risorse”. Carbone, ferro, oro, rame, petrolio, alluminio, uranio e gas naturale: l'80 per cento delle risorse naturali estratte dalle viscere del paese è destinato all'export; e oltre il 25 per cento di tutti i beni esportati viene venduto alla Cina, per un valore di 65 miliardi di dollari americani nel 2010. Come destinazioni, seguono in ordine di importanza il Giappone (19 per cento dell'export totale), la Corea del sud (9), l'India (7) e poi gli Stati Uniti (5 per cento).

    Per comprendere quanto abbia effettivamente pesato il boom delle risorse naturali sulle sorti del paese, si può “ragionare per vedere come sarebbe andata senza le stesse risorse”, spiega al Foglio l'economista Stephen Grenville, già membro del board della Banca centrale australiana e docente dell'Australian National University: “Si tratta di mostrare cosa sarebbe accaduto se le nostre ragioni di scambio avessero proseguito nel loro andamento storico, che era discendente (ovvero i prezzi dei beni importati crescevano più di quelli esportati, ndr), e cosa effettivamente è accaduto”. Le ragioni di scambio, cresciute mai così vertiginosamente da oltre un secolo, “hanno fatto sì che il nostro reddito nazionale aumentasse del 15 per cento in più rispetto all'ipotesi di partenza. Oltre alla domanda internazionale, infatti, va tenuto conto anche del picco di investimenti interni legati alle risorse. Quindi la crescita prolungata dell'Asia, non solo della Cina, è stata fondamentale”. Nel 2010 l'Australia, vendendo beni e servizi in oltre 100 paesi, ha registrato un avanzo commerciale di 17 miliardi di dollari (per raffronto, la bilancia commerciale italiana ha riportato un disavanzo di oltre 27 miliardi di euro); le esportazioni, da sole, l'anno scorso hanno generato circa il 20 per cento del prodotto interno lordo, tanto che secondo il ministero degli Affari esteri e del commercio un posto di lavoro su cinque nel paese è legato al commercio internazionale. Per utilizzare le parole dell'attuale ministro del Tesoro, il laburista Wayne Swan, “l'equilibrio economico globale si sposta da occidente verso oriente, e questo porta crescita e dinamismo nelle prossimità dell'Australia, più vicini a noi di quanto non sia mai successo prima”.

    Ma la fortuna, da sola, non spiega la traiettoria straordinariamente virtuosa di un paese che dal 2007 a oggi non è mai finito tecnicamente in recessione, non avendo attraversato due trimestri consecutivi di crescita negativa: “Su questo hanno influito fattori di merito non indifferenti – osserva Galimberti – a partire da una gestione oculata delle finanze pubbliche, passando poi per istituzioni solide e per un diffuso idem sentire nella società rispetto ai parametri fondamentali della convivenza civile”. Mentre oggi in Europa le cancellerie si affannano per riportare nei prossimi anni il rapporto deficit/pil al tre per cento, e negli Stati Uniti lo stesso rapporto viaggia attorno al 10 per cento, il governo di Canberra per il 2012-2013 prevede un avanzo di bilancio pari allo 0,3 per cento del pil. “L'obiettivo della politica di bilancio è stato sempre di finire l'anno in surplus, traguardo spesso raggiunto. L'Australia ha scelto di cautelarsi in questo modo rispetto agli squilibri che potrebbero discendere da una bilancia corrente che invece è in pesante deficit, vista pure l'importanza delle esportazioni – continua Galimberti – Per questo, anche nel momento in cui è stata intrapresa una politica di stimolo fiscale all'economia, i mercati non si sono minimamente preoccupati”. Tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009 il governo laburista, guidato allora da Kevin Rudd, attuale ministro degli Esteri, approvò infatti una serie di trasferimenti statali alle famiglie e una robusta dose di spesa pubblica concentrata sulle infrastrutture. Sulla scorta dell'esempio statunitense, si tentò così di sostenere la domanda aggregata. “Il governo è stato rapido ad allargare i cordoni della borsa, in misura pari a circa il 2-3 per cento del pil – ricorda Grenville dell'Australian National University – Lo stimolo ha funzionato nel promuovere la spesa in consumi e sono pochi gli economisti che sostengono non sia servito a nulla. Ovviamente non abbiamo le prove di come sarebbe andata in mancanza di quello stimolo, ma – come si dice da noi – ‘better to be safe than sorry', meglio essere salvi che dispiaciuti”. Ora l'esecutivo si è già attivato per rientrare da quelle spese straordinarie, ma anche in questo caso il modo di procedere è piuttosto differente dalla strada dell'austerity imboccata in Europa e in particolare in Italia: l'impegno del governo laburista, attualmente guidato da Julia Gillard, è di mantenere il livello della pressione fiscale al di sotto dei livelli del 2007-2008 (ovvero 23,5 per cento del pil secondo l'Ocse, rispetto al 45 per cento circa dell'Italia), e perciò due terzi della correzione dei conti realizzata finora è stata fondata su tagli alla spesa pubblica piuttosto che su aumenti delle entrate statali. Inoltre il buono stato di salute del settore creditizio e finanziario domestico è stato schermato dagli effetti deleteri del contagio internazionale grazie a un tempestivo intervento congiunto del governo, che ha offerto garanzie statali agli istituti, e della Banca centrale: la Reserve Bank of Australia infatti, partendo nel 2008 da tassi di riferimento molto elevati, ha avuto in questi mesi ampi spazi di manovra per abbattere il costo del denaro con il semplice taglio dei tassi, senza bisogno di ricorrere a vere e proprie misure non convenzionali (vedi box sotto).

    Insomma, per arrivare ad avere un pil pro capite superiore del 10 per cento rispetto a quello tedesco e del 17 per cento maggiore rispetto a quello giapponese, l'Australia non si è semplicemente agganciata alla pur potentissima locomotiva cinese. E così come quella del rigore fiscale è stata una scelta essenzialmente condivisa da entrambi i partiti che si sono alternati al potere negli ultimi 30 anni – il partito laburista (socialdemocratico) e quello liberale (conservatore) –, c'è da dire che anche quelle che in Italia chiameremmo “riforme strutturali” sono state avviate con largo anticipo rispetto all'arrivo della crisi. E non senza sorprese: “Le misure per rompere il monopolio dei sindacati sul posto di lavoro, per esempio, furono introdotte per la prima volta dai laburisti e in particolare da Paul Keating”, ricorda Galimberti. La parabola di Keating è significativa: eletto parlamentare nelle fila del Partito laburista nel 1969, all'età di 25 anni, nel 1983 divenne ministro del Tesoro del governo guidato dal premier Bob Hawke (rimasto alla guida del paese fino al 1991), e infine fu eletto lui stesso primo ministro dal 1991 al 1996. Un quindicennio decisivo per l'economia del paese, nel corso del quale i laburisti presero decisioni che non di rado gli sono valse a sinistra l'accusa di aver ceduto al “neoliberismo”. Dalla scelta di far fluttuare il dollaro australiano alla conseguente deregulation finanziaria, dall'abbattimento dei dazi doganali all'apertura delle rotte interne a compagnie aeree internazionali, dalle privatizzazioni delle società pubbliche all'enfasi sul pareggio di bilancio, passando infine per la cancellazione della versione australiana della “scala mobile” e per l'introduzione di una contrattazione sindacale a livello delle singole imprese. Se nel Regno Unito, come è stato più volte sostenuto, fu il laburista Tony Blair negli anni 90 a farsi forte di molte delle riforme introdotte nel decennio precedente dalla conservatrice Margaret Thatcher, in Australia è avvenuto probabilmente l'inverso: è stato il conservatore John Howard – al governo dal 1996 al 2005 – a potersi giovare del sentiero riformatore già tracciato dai laburisti.

    Dietro il felice (e meritato) isolamento dell'ex colonia britannica dai mercati generalmente in subbuglio, si celano comunque alcune incognite, legate innanzitutto alla stretta relazione che oggi unisce Australia e Cina. Non solo perché ormai da mesi, soprattutto tra gli analisti statunitensi, si discetta di una possibile e futura frenata dello sviluppo della Repubblica popolare cinese, con tutte le conseguenze negative che questo potrebbe causare sulle esportazioni di Canberra. Il punto è che già oggi la vicinanza con Pechino genera squilibri sia economici che geopolitici.

    Quanto agli sbilanci del primo tipo, il riferimento è in particolare all'economia “a due velocità” che si sta sviluppando all'interno della stessa Australia. Il processo è tanto lineare quanto rischioso: le esportazioni di metalli ed energia verso l'Asia sono talmente massicce che il dollaro australiano negli ultimi anni non ha mai smesso di apprezzarsi, e di conseguenza tutto il “made in Australia” (se si esclude appunto il settore delle materie prime) risulta fortemente penalizzato nella competizione internazionale. Dal 2006 a oggi, secondo le stime della Reuters, il valore della moneta nazionale è cresciuto del 50 per cento; nel 2006 bastavano 70 centesimi statunitensi per acquistare un dollaro australiano, oggi siamo invece alla parità e quindi serve un dollaro Usa per acquistare un dollaro australiano. Risultato: negli ultimi due anni almeno 100 mila posti di lavoro del settore manifatturiero, pari al 10 per cento di tutti gli occupati, si sono volatilizzati. Il paradosso, dunque, è che proprio il repentino successo del comparto minerario fa sì che nello stesso paese altre industrie rimangano stritolate dalla concorrenza dei vicini produttori asiatici. Senza contare che i risultati straordinari del settore minerario rischiano di far passare in secondo piano una tendenza che è tornata ad affiorare negli ultimi mesi, ovvero la perdita di produttività specie nell'agricoltura e nei servizi. Nel 2011, sostiene PricewaterhouseCoopers, la produttività della forza lavoro australiana è cresciuta in maniera impercettibile, e per avere uno stallo simile bisogna tornare al 2004-2005. Sono tipiche distorsioni di quelle economie dipendenti dalle proprie materie prime, certo.

    Ma la relazione sempre più speciale tra Canberra e Pechino allarma ancora di più gli analisti di geopolitica. In sintesi, potrà un paese di 22 milioni di abitanti evitare di essere attratto inesorabilmente più nell'orbita della potenza cinese, con il suo miliardo e 350 milioni di abitanti e i suoi ritmi impressionanti di creazione della ricchezza? Se lo chiede anche l'opinione pubblica australiana, come dimostra una recente ricerca demoscopica svolta dal Lowy Institute, un think tank di Sydney. Tre quarti della popolazione si dicono d'accordo con il fatto che “la crescita della Cina è stata positiva per l'Australia”, anche se il 65 per cento degli intervistati sostiene che “l'obiettivo della Cina è di dominare l'Asia”. Per questo il 57 per cento degli australiani ritiene che “il governo di Canberra sta consentendo troppi investimenti nel paese da parte di Pechino”, mentre il 44 per cento del campione prevede addirittura che il colosso asiatico “costituirà probabilmente un pericolo dal punto di vista militare per l'Australia entro i prossimi 20 anni”. Nel 2009 il tentativo della società statale cinese Chinalco di acquistare quote significative del colosso minerario australiano Rio Tinto divenne per molti il segnale definitivo di una “invasione” economica in corso, e così una semplice sfida tra manager e azionisti si trasformò, per settimane, in un caso mediatico e politico. Nel 2010 si assistette al sequel della vicenda, raccontato anche dai principali quotidiani statunitensi ed europei: un mese dopo il “no” ufficiale di Rio Tinto all'ingresso di Chinalco nella sua compagine azionaria, infatti, un dipendente australiano della stessa Rio Tinto, Stern Hu, fu arrestato in Cina con la grave accusa di corruzione e spionaggio industriale. Nel novembre 2011 si è avuta la prova che non si stava discutendo di semplici fobie irrazionali. Nel mese scorso infatti non sono mancate reazioni irritate da parte di Pechino alla decisione del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di dislocare 2.500 Marines a Darwin, nel nord dell'Australia. Si tratta, ha spiegato il New York Times, della “prima espansione a lungo termine dell'esercito americano nel Pacifico dalla fine della guerra del Vietnam”. Obama, che sin dal suo insediamento nel 2009 ha mostrato un'attenzione crescente verso il continente asiatico, anche a discapito dell'Europa, ha parlato di “decisione strategica per gli Stati Uniti, in quanto paese che si affaccia sull'oceano Pacifico, per giocare un ruolo più forte e duraturo nel futuro della regione”. La censura di Pechino è stata ufficializzata da Liu Weimin, portavoce del ministro degli Esteri: “Potrebbe non essere appropriato intensificare ed espandere le alleanze militari, e soprattutto agire in questo modo potrebbe non essere negli interessi di paesi di questa regione”. Un avvertimento nemmeno troppo velato a Canberra, che resta con il cuore a occidente ma sempre più volge la testa – e il portafoglio – a oriente. Dall'“Asia Pacific Century” e dai processi d'integrazione regionale che propone da anni il ministro degli Esteri Rudd, passando per la Commissione d'inchiesta ad hoc sul futuro delle relazioni di Canberra con i paesi limitrofi (“White Paper on Australia in the Asian Century”) voluta dal primo ministro Gillard, non è detto che non sarà proprio l'Australia – oggi alla testa dei paesi che sono riusciti a domare meglio la crisi – ad anticipare un percorso di relazioni più fruttuose con l'oriente rampante.