Storia della lettera che non arrivò mai in Corea del Nord
Al direttore - La maestra entrò e disse “Lui è Kim, Kim Kum Il e viene da un paese lontano”. Era il '90 quando nella classe arrivò lui, un piccolo e vispo nuovo compagno. Veniva da Pyongyang. Nulla di diverso dai comuni tratti asiatici, occhi a mandorla, capelli corvini e spessi. Ora, si capisce, è difficile vedere in giro coreani del nord, soprattutto perché è un paese che “blinda” le uscite dei cittadini e spesso, per evitare fughe definitive, come per la famiglia di Kum Il, trattiene un parente in patria. Nel suo caso la sorellina.
da Antonio Belloni
Al direttore - La maestra entrò e disse “Lui è Kim, Kim Kum Il e viene da un paese lontano”. Era il '90 quando nella classe arrivò lui, un piccolo e vispo nuovo compagno. Veniva da Pyongyang. Nulla di diverso dai comuni tratti asiatici, occhi a mandorla, capelli corvini e spessi. Ora, si capisce, è difficile vedere in giro coreani del nord, soprattutto perché è un paese che “blinda” le uscite dei cittadini e spesso, per evitare fughe definitive, come per la famiglia di Kum Il, trattiene un parente in patria. Nel suo caso la sorellina.
Kum Il era sveglio e quando sfidava l'insegnante di scacchi erano sonore sconfitte per il più vecchio dei due. Quell'estate fu lui ad evitarmi la condanna dei compiti di matematica. Ci mise due giorni. Nessun paura di vivere fuori dal suo paese, nessuna ansia da integrazione. Zero. A casa una grande immagine di Kim Il Sung, padre dell'ormai defunto Kim Jong Il, governava il suo letto e gli ricordava devozione, osservanza e forse in fondo anche un po' di timore. Ma non eravamo tanto diversi. Quell'anno anche Kim si prodigò in scritti, decorazioni, taglia e cuci per realizzare un giornaletto della scuola con cui raccogliemmo oltre un milione di lire per il Bangladesh alluvionato.
Quando ci raccontava che al suo paese se due giovani si baciano in pubblico vengono arrestati, per noi, alle prese con le prime cotte, era un rabbuiarsi improvviso. Erano figli di regole ferree, punizioni e tanta omologazione. I bambini crescevano così, tutti uguali, capelli neri a caschetto, giacca blu, pantaloni blu. Ma non eravamo tanto diversi. In classe era un piccolo eversivo come lo eravamo tutti, anche se poi davanti ad un film di James Bond, di fronte alla scena di un bacio focoso, si girava dall'altra parte. Nelle serate estive a casa, mentre papà dormiva, cambiavamo canale e, di fronte a Colpo Grosso Kum Il spalancava gli occhi e guardava, guardava dritto il televisore tanto da forzare le pieghe strette delle sue ciglia che parevano fessure e si allargavano di scatto come l'otturatore di una reflex. Ma non eravamo tanto diversi. In quelle sere arrivò la prima invasione dell'Iraq, ed entrambi eravamo sul divano curiosi della guerra, stupiti dalle armi e spaesati dalle luci verdi dei bombardamenti notturni, in diretta da Baghdad.
Grandi partite a calcio, mitiche lotte sul tappeto in cui imitava Ken – il Fantastico Guerriero. Di lui stupiva però la compostezza con cui colpiva il pallone, la regolarità con cui correva, la rigidità corporea con cui si muoveva anche nel giocare, da cui si percepiva un passato di sforzi fisici, in cui era stato addestrato, istruito a dominare il corpo, ad omologare alcuni suoi comportamenti a quelli dei suoi compagni, magari in una di quelle parate che ricordano il Ventennio. Ma non eravamo così diversi. Qualche volta lasciava tutti a bocca aperta Kum Il, quando si arrampicava alla grondaia sembrava una scimmia del circo, raggiungeva il secondo piano e prendeva il pallone finito sul balcone tra lo stupore e la paura dei condòmini.
Un Natale lo portammo in chiesa. Un'esperienza di certo nuova per Kum Il, la cui religione consisteva solo nell'adorazione, che non sembrava per nulla coatta e che intrideva tutta la famiglia, per il grande Kim Il Sung, padre della patria. Composto, percepiva l'importanza che l'evento aveva per noi e seguì tutte le fasi della Messa. Ci vide tutti pregare, inginocchiarsi, offrire l'elemosina infine vide mia madre e me anche fare la comunione. Fu silenzioso e composto come sempre, seguendo tutto rispettosamente fino alla fine dalle sue palpebre strette, ma giunti fuori scattò di curiosità e prendendo mia madre disse “Lina, ma perché avete tutti pagato e mangiato e papà ha pagato ma non ha mangiato?”. Ma non eravamo tanto diversi. Quando eravamo a tavola Kum Il aggrediva gli spaghetti come Alberto Sordi, succhiandoli dal basso e facendo un gran ridere tutti quanti.
Prendeva una mela e la mangiava lasciandone un filo interdentale al posto del torsolo. Raccontava di quanto poco cibo avessero a disposizione anche loro che stavano bene, papà ingegnere e mamma dentista. Venne poi il '92 e le nostre famiglie cominciarono ad annusarsi. Il padre, anche lui rigido e composto, a tavola sorrideva spesso ed era guidato in ogni mossa da un preciso servilismo verso di noi, per nulla vestito da ospitalità. Lo copriva invece un completo cachi, anonimo, di quelli che ancora si vedono nei film della Cina di Mao, che dà solo Ghezzi su RaTre dopo le due di notte. E la mamma, a cena, non si sedeva mai. Portava avanti e indietro con minuziosa precisione piccole pietanze tanto simili ai mangiarini che oggi si trovano al cinese. Ma non eravamo tanto diversi. A tavola erano generosi, cordiali e continuavano a volerci imbottire di spaghettini e frittellone di patate come si fa nel Sud italia.
In qualcosa Kum Il erà già grande, adulto e maturo e questo ci lasciava un po' spaesati, ma comunque rispettosi di una condotta di vita ordinata ma che non conoscevamo. Una sera, raccontò più avanti ai miei genitori, preoccupato di non vedere i suoi tornare da loro lavoro – un attività di vendita di Ginseng, o almeno così dicevano – prese un coltello da cucina, se lo infilò nei pantaloni, e sotto la pioggia, senza ombrello, raggiunse i genitori a tre quattro chilometri di distanza.
Era coraggioso e determinato Kum Il. Da qualche parte nel comò ci dev'essere una diapositiva con dentro il suo sorriso contenuto, o forse trattenuto. Perché era maledettamente simpatico Kum Il, anche quando usava la precisa meccanicità del suo scrivere a piccoli caratteri quadrati, e pallini ordinati. Mi aveva insegnato a scrivere "Pyongyang" in coreano. Io gli avevo insegnato a pescare, anche se lui e il padre si infilavano in un ruscello vicino a casa per prendere le trote, con le mani, e mangiarle. Negli stessi incomprensibili caratteri, squadrati e costretti, mi scrisse anche il suo indirizzo di casa in Corea del Nord. Non eravamo molto diversi, anche se, con un po' di tristezza, aggiunse che tanto a casa sua non sarebbe potuta mai arrivare nessuna lettera.
da Antonio Belloni


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