Qui una volta era tutta città
Guardando i campi spelacchiati e le ruspe che sradicano ruderi ai margini della downtown, gli anziani del villaggio ripeteranno sconsolati il luogo comune del futuro: “Qui una volta era tutta città”. Il ragazzo della via Gluck deprecava l'urbanizzazione selvaggia, il cemento che divora l'erba e con lei i sogni residui di un idillio semi bucolico a misura d'uomo.
Guardando i campi spelacchiati e le ruspe che sradicano ruderi ai margini della downtown, gli anziani del villaggio ripeteranno sconsolati il luogo comune del futuro: “Qui una volta era tutta città”. Il ragazzo della via Gluck deprecava l'urbanizzazione selvaggia, il cemento che divora l'erba e con lei i sogni residui di un idillio semi bucolico a misura d'uomo. Se l'America, che della via Gluck beatamente ignora l'esistenza, si trovasse invece a comporre un compianto per la terra perduta, questa narrerebbe con trasporto di fabbriche e ciminiere, di comunità operose di tute blu, di solidarietà industriale e capacità di trasformazione.
L'afflato pionieristico che è alla base dell'America contiene nel suo intimo la logica della trasformazione, il dominio sulla wilderness, la natura selvaggia abitata da una forza oscura – correlativo oggettivo del peccato originale per i padri pellegrini e per i loro più inconsapevoli discendenti – la fondazione di un agglomerato che via via diventa una città, ordinato argine alla cieca aggressività della natura. John Winthrop non aveva messo ancora piede nel Nuovo mondo quando, Vangelo di Matteo alla mano, ha ricordato ai suoi che la comunità che stavano per fondare era chiamata a essere una “città sulla collina”, quella che tutte le nazioni rimirano nel suo splendore. Ma pur sempre una città. La stanzialità, urbana e mistica, è al centro dell'orizzonte americano dai tempi di Plymouth e Salem e i riferimenti all'ambiente cittadino che si sono tramandati fino al sontuoso discorso di Ronald Reagan e oltre sono la conferma che nel suo incessante cambiare e rifluire, vagare e sostare, l'America ha saputo conservare.
Il fatto che la sovrapposizione storica fra il declino postindustriale e la crisi economica abbia ristretto le città americane dai Grandi laghi alla California interpella tanto gli urbanisti quanto gli antropologi, un fenomeno multistrato che sta trasformando l'orizzonte umano della più importante colonia del mondo, i cui abitanti sono costretti a una progressiva fuga verso i sobborghi. Non verso la campagna: i dati del Census Bureau dicono che soltanto il 16 per cento degli americani vive in aree rurali, la percentuale più bassa di sempre. I piccoli centri dell'America “di mezzo” non attraggono abitanti, il lavoro manca, il mercato immobiliare è devastato, le scuole chiudono e l'America dei piccoli villaggi, quella vista in migliaia di film e letta in migliaia di romanzi on the road, tende a svanire. Mark Mather, vicepresidente del Population Reference Bureau, dice che “alcune delle aree più isolate stanno affrontando una battaglia durissima per sopravvivere e un'ampia parte del paese si sta svuotando”.
La compagnia aerea Delta, leader dei voli interni, ha annunciato la cancellazione di 24 aeroporti minori dalle sue tratte perché il gioco non vale la candela. Nemmeno il North Dakota, stato che nella classifica dello svago è piuttosto in basso ma ha performance economiche da non credere – in quella landa nordica la crisi ha ridotto la disoccupazione invece di aumentarla, unico caso negli Stati Uniti – è in grado di attrarre persone e investimenti. Le università hanno persino provato a dimezzare le rette (mentre tutti le alzano) per richiamare la popolazione studentesca, con scarsi risultati. La dimensione cittadina è un destino per l'America e chi ne viene trascinato fuori ripiega nella realtà suburbana, nelle cinture di tangenziali in perenne espansione, nell'hinterland e nelle aree metroplitane, quelle zone grigie che non sono città ma nemmeno campagna.
“Shrinking cities”, le città che si restringono come maglioni in lavatrice, sono parte di un fenomeno che si apprezza a occhio nudo passeggiando per Detroit o St. Louis, ma è anche il nome scientifico di una categoria dell'urbanistica. Ci sono riviste accademiche, dipartimenti universitari e centri studi che si occupano esclusivamente dello studio delle “shrinking cities”. Al Virginia Tech c'è lo Shrinking Cities Studio, un programma che studia soluzioni per trasformare il restringimento urbano da una dimensione forzata di natura economica in un'occasione per un nuovo sviluppo. Sulla rivista Next American City, Brentin Mock ha scritto che “il modello shrinking city prevede che una città che attraversa una crisi postindustriale e perde migliaia di abitanti non riesca a riconquistare abitanti suonando le sue campane commerciali con iniziative altisonanti. Per risorgere, le città ristrette demoliscono gli isolati in disuso, convertono gli edifici vuoti in open space per le aziende del quartiere e creano spazi per l'agricoltura e l'allevamento”. Sì, agricoltura e allevamento.
Le parole d'ordine sono quindi conversione e ristrutturazione: c'è un'ermeneutica complessa nella ricostruzione urbana, una legge fluttuante che va al di là dei numeri sulla disoccupazione e delle aziende in bancarotta. Contrariamente a quanto si crede, la crisi, quella del 2008, non c'entra nulla con l'abbandono urbano. Meglio: è stata un'aggravante, un acceleratore della reazione, è stata la spinta che ha fatto cadere un sistema che vacillava già da prima. La crisi ha in molti casi deteriorato le condizioni delle città da un punto di vista amministrativo. Il Chapter 9, la procedura di bancarotta dedicata alle municipalità, era un'opzione estrema alla quale non era quasi mai capitato di affidarsi prima della recessione, ma la sofferenza urbana nasce nella Rust Belt, nei distretti industriali superati dalla concorrenza straniera, nelle delocalizzazioni forzate verso luoghi lontani o anche molto vicini, come il Messico. La figura del city manager, un amministratore delegato che in modo sobrio fa quello che i rappresentanti eletti non sono o non sembrano in grado di fare, ha avuto un riflusso di fortuna, pur essendo stata introdotta nel sistema americano circa un centinaio di anni fa. Ma di fianco a quella si è fatta largo anche quella dell'emergency manager, cioè il curatore fallimentare, figura già meno tecnica e molto più cinica che con tono da ragioniere fa uno spezzatino della città-azienda, liquida, licenzia, smaltisce. Poi si riparte da capo, molto più austeri di prima.
L'emergency manager è lo spettro che si aggira per Detroit, la madre di tutte le shrinking cities americane. Il sindaco, Dave Bing, un ex giocatore dei Pistons che s'è reinventato politico democratico e promotore di attività di volontariato – un classico caso di “campione nella vita” – ha spiegato qualche mese fa al consiglio della città che, così com'è, Detroit può reggere fino ad aprile dell'anno prossimo, dopodiché scatterà la bancarotta. Il censimento dice che dal 2000 al 2010 Detroit ha perso un quarto della popolazione, tornando a livelli simili a quelli degli anni Dieci del Novecento, quando l'industria delle auto era di là da venire. E' come se per un decennio avesse abbandonato la città una persona ogni 22 minuti.
Lo shrinking ha radici più profonde della crisi economica, ma che a Detroit la recessione abbia picchiato duro lo si vede dai grattacieli abbandonati nel centro della città, dalle fabbriche sventrate in stile Prenzlauer Berg, dai prezzi spesso a cinque cifre affissi sui tetti delle villette a schiera. Detroit è enorme. Mettete insieme la superficie di Manhattan, di Boston e San Francisco e ottenete l'equivalente di quella di Detroit. Senonché la città del Michigan supera in abitanti, e di poco, soltanto una delle tre. Per questo nella città delle auto e di Eminem lo shrinking salta all'occhio. Ci sono pezzi di strada abbandonati (portano a case dove non abita più nessuno) dove l'erba s'è pazientemente fatta largo nell'asfalto come in un sogno che piacerebbe a qualche lustrascarpe di Al Gore e dispiacerebbe a tutti gli altri. In America Detroit è diventato il sinonimo dello sfarinamento dell'ambiente urbano, della disoccupazione, della criminalità, dei contrasti sociali esasperati, è il disagio fatto città. Al solo sentirne il nome, l'americano medio assume l'espressione che deve aver avuto Bartolomeo quella volta che il suo amico Filippo gli ha detto di avere incontrato il messia: “Da Detroit può mai venire qualcosa di buono?”.
Alcuni lotti di terra, quelli dove una volta era tutta città, sono stati recintati e chiusi con il lucchetto dall'autorità cittadina: è lì che un giorno, se mai il consiglio approverà un piano che è benevolo chiamare “lacrime e sangue”, il sindaco farà partire i progetti di agricoltura urbana. Dapprima somiglierebbero a campi coltivati in mezzo alla città; poi si trasformerebbero in campi coltivati in quella che un tempo era stata una città. Nel libro “Reimagining Detroit”, il giornalista John Gallagher rivolta i pessimi dati delle analisi a vantaggio di un'ipotesi: e se la chiave della resurrezione urbana fosse in un cambiamento radicale della concezione? Gallagher ha raccolto pazientemente informazioni, ha osservato la sua città in lungo e in largo e ha prodotto un business plan con gli allevamenti cittadini, le conversioni degli edifici, quartieri interi completamente demoliti e ricollocati attorno alla parte migliore della città. In un'urbe millenaria, d'ambiente europeo, ad esempio, l'idea di radere al suolo un quartiere e trasferire tutti i suoi abitanti qualche chilometro più in là è da abolizione della legge Basaglia; per l'America, colonia che costruisce e ricostruisce, l'ipotesi non è peregrina, anzi. Nel 2004, in era pre crisi, Michael Pagano e Ann Bowman nel loro “Terra Incognita” hanno tentato di fondare in modo razionale la scienza che incrocia la presenza di terreni inutilizzati e la dispersione urbana. Joel Kotkin, l'urbanista più cool d'America, ha costruito una carriera sull'idea – dettata da fenomeni ben precisi – che il concetto stesso di città andasse rifondato: la chiama “new geography”.
La possibilità per Detroit di mettere in pratica quello che sarebbe uno dei più colossali esperimenti urbani d'America è subordinata, naturalmente, ai conti. Nel piano di Bing c'è un incremento lineare delle tasse fra il 2,5 e il 3 per cento, ci sono oltre duemila licenziamenti nel settore pubblico, c'è la chiusura del flusso monetario su decine di attività – dallo zoo agli istituti d'arte – c'è il ripristino di vecchi tributi da parte delle scuole pubbliche, il taglio delle forze di polizia e altri dolorosi provvedimenti a carico dei contribuenti. Dopo mesi di litigi e congiure, il consiglio è arrivato a un punto morto e mentre il flusso degli abitanti verso l'esterno continua si agita l'ombra della bancarotta.
Di shrinking cities l'America ne ha a bizzeffe. New Orleans è stata distrutta da Katrina quando la popolazione era in fase discendente, e alla città della Louisiana non è riuscito il rimbalzo che pure qualcuno aveva previsto. Cleveland, città martoriata da amministrazioni improbabili tanto quanto dalla deindustrializzazione, è un altro dei simboli del declino urbano. A Flint, in Michigan, la disoccupazione è in doppia cifra da due anni e in tanti hanno abbandonato la nave. Qualche mese fa, la città ha venduto sedici lotti di terreno urbano, circa un ettaro ciascuno, ad agricoltori e allevatori che volevano iniziare un'attività. Dayton, in Ohio, ha aggiunto ai problemi strutturali della Rust Belt un clima fiscale sfavorevole per gli imprenditori, e negli ultimi dieci anni la popolazione è diminuita di oltre il 25 per cento. Prima del 1880 St. Louis era la quarta città d'America, tanto che nel 1904 ha organizzato le Olimpiadi. Nel 1950 era scivolata all'ottavo posto della classifica, nel 2010 al 48esimo, con un calo della popolazione del 60 per cento negli ultimi sessant'anni. Come molte altre città, St. Louis ha perso il centro per guadagnare la periferia: l'enorme area metropolitana si espande e produce ricchezza. A Scranton, in Pennsylvania, la fuga è ormai la prima opzione dei giovani, ed è anche per questo che pochi giorni fa Barack Obama è andato proprio lì a rimettere in carreggiata il suo ammaccato piano per rilanciare il mercato del lavoro. Sono gli stati spopolati e politicamente in bilico che decideranno molto delle prossime presidenziali.
Alle decine di città che si contorcono fra la crisi e i progetti di resurrezione fanno da contraltare le poche realtà urbane in crescita. Austin, Houston, San Antonio, Dallas, Phoenix: le prime quattro sono in Texas, e non è un caso. L'ambiente fiscalmente favorevole dello stato di Rick Perry ha drenato per forza di capillarità le imprese e i privati strozzati dalla crisi californiana e nell'ultimo decennio la qualità delle infrastrutture, dei servizi e delle Università – quando Perry era uno studente, A & M era il contraltare periferico dell'Ivy League, ora compete nelle classifiche nazionali – è migliorata in maniera radicale. Strano che la nuova frontiera urbana dell'America sorga in uno stato che nel cliché collettivo non evoca nulla di cittadino.
Edward Glaeser, professore di Economia a Harvard, ha passato anni a indagare quale impatto avesse la città sulla capacità produttiva delle aziende, sul rendimento scolastico, sulla quantità di informazioni che ciascuno può assumere e rielaborare. In “Triumph of the City”, pubblicato a febbraio, smonta, dati alla mano, il luogo comune secondo cui la velocità e la capillarità delle comunicazioni hanno annullato le distanze a tal punto da rendere quasi ininfluente l'agglomerato cittadino come forma di convivenza orientata alla produttività e alle relazioni. “Le città valorizzano le risorse dell'uomo”: è nella densità fisica dell'orizzonte urbano che le idee si muovono più velocemente e le energie produttive vengono ordinate secondo criteri razionali. Glaeser dimostra che le aziende che hanno il quartier generale fisicamente più vicino al cuore del proprio mercato di riferimento rendono più di quelle che sono dislocate altrove. Anche se la vulgata dice che l'odierna facilità di comunicazione svuota di significato il vecchio nucleo cittadino, è fra i grattacieli delle downtown e non nei sobborghi a bassa intensità che si propagano le intuizioni che cambiano il volto di un paese. Con il trionfo dell'uomo urbano, Glaeser propone un modello culturale opposto a quello di Jane Jacobs, la grande teorica delle comunità suburbane che all'inizio degli anni Sessanta ha scritto il manifesto “The Death and Life of Great American Cities” in polemica con la scuola razionalista. Jacobs prescriveva il ritorno al concetto di piccola comunità autosufficiente ai margini della città come ascesi dall'alienazione urbana e il New Urbanism degli anni Ottanta ha rielaborato le sue idee promuovendole su scala globale. Le città in crisi che ora riversano abitanti nei sobborghi in espansione rivelano gli effetti collaterali di un'antropologia dello spazio che ha additato l'agglomerato urbano come il supremo moltiplicatore del male. Roba da avere nostalgia di quando qui, una volta, era tutta città.


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