il regista Luca Ronconi in occasione delle prove di '”Turandot” di Giacomo Puccini al teatro Regio di Torino, un anno fa (foto Ansa)

Venerato maestro

Jacopo Pellegrini

Se per caso vi fosse sfuggito, sappiate che il nostro piccolo mondo italico non si divide soltanto in berlusconiani e antiberlusconiani. Rigogliosi, prosperano anche il partito dei ronconiani e quello degli antironconiani, formule da intendersi, rispettivamente, come “paladini e idolatri di Luca Ronconi.

Se per caso vi fosse sfuggito, sappiate che il nostro piccolo mondo italico non si divide soltanto in berlusconiani e antiberlusconiani. Rigogliosi, prosperano anche il partito dei ronconiani e quello degli antironconiani, formule da intendersi, rispettivamente, come “paladini e idolatri di Luca Ronconi, regista” e “sprezzatori acerrimi dello stesso”. A dividersi, ovviamente, è il mondo del teatro e dei teatranti, ma pure il vasto mondo, e vario, degli spettatori, di coloro che per passione, interesse o semplice passatempo frequentano la prosa e l’opera (“Il pubblico è tutt’altro che diminuito, semmai è stata l’offerta a moltiplicarsi”: l’“imputato” Ronconi dixit); infine, e soprattutto, il mondo degli intellettuali. Ne conosco uno – abita nella Bassa, tra i borghi d’una città non grande non piccola, abbastanza vicina al Po – che tanto disprezza questa etichetta, quanto essa gli calza a pennello (non si sostenta forse grazie alle cose studiate, pensate o scritte?), un critico e letterato terribilmente inquieto, l’anima cosparsa di cicatrici. Ebbene, costui su Ronconi, col quale ha peraltro intrattenuto rapporti professionali in un passato non troppo remoto, riversa un’ostilità smodata. Fin qui nulla di strano o di male: ciascuno si sceglie i propri bersagli, coltiva le proprie ossessioni.

 

Capita però che, una volta sottoposte a verifica, queste ossessioni si rivelino illusorie, mendaci. Faccio un esempio: “A Ronconi – mi diceva con convinzione persuasiva l’intellettuale della Bassa – la musica, l’opera non piace. Non gl’interessa, non la sente”, volendo forse anche alludere (la delicatezza non è il suo forte) a certo calo d’udito da cui si dice sia affetto il regista. Ora, accade ch’io assista a una sessione del laboratorio per attrici e attori giovani (tutti licenziati dall’Accademia d’arte drammatica) tenuto da Ronconi nella sua dimora agreste, a Santa Cristina, presso Morleschio, nei più intimi recessi dell’Umbria. Sono quattro ore abbondanti di lavoro matto e feroce, alleggerite da ammicchi facezie aneddoti irresistibili, e costellate di rinvii sempre calzanti al lessico musicale, di citazioni dai più disparati libretti d’opera. Se sprona i sei personaggi (quelli in cerca d’autore) a sperimentare su di sé movimenti meccanici, il paragone è presto trovato: “Come in ‘Les oiseaux dans la charmille’”, la canzone di Olympia nei “Racconti di Hoffmann”, l’incompiuto opéra-comique di Offenbach; dal Suggeritore – è ancora la commedia di Pirandello – pretende “una dizione scandita, alla Paola Borboni. Fai sentire i nomi che chiami, come nel finale dell’‘Andrea Chénier’: ‘Maddalena di Coigny?’ ‘Son io!’”, ed eccolo sporgersi in avanti sulla seggiola, il petto in fuori, a simulare l’offerta sacrificale dell’eroina nel “dramma storico” di Umberto Giordano. Il riferimento alla bambola-automa di Offenbach non sorprenderà chi conosce l’attività febbrile di Ronconi, artefice, a Firenze nel 1980, d’un allestimento celebre e discusso, basato sull’allora nuova (e oggi superata) edizione critica dei “Racconti” curata da Fritz Oeser. Ma lo “Chénier”? Questa sì ch’è una stranezza. “E perché mai? Ricordo benissimo lo ‘Chénier’ con la Caniglia, Gigli e Bechi, tre presenze costanti all’Opera di Roma durante e subito dopo la guerra” (Ronconi è nato nel 1933), e giù interi passi del libretto, il monologo di Gérard e quello di Maddalena: “La memoria non mi ha mai fatto difetto. Mia madre ha cominciato a portarmi a teatro da piccolissimo, a quattro anni, prosa e melodramma, indistintamente. E a me l’opera piace moltissimo per la sua natura di connubio incestuoso tra musica, parola, scena”. E la Callas, la Callas? “Dal vivo l’ho vista tre volte: alla Scala, in ‘Sonnambula’ e alla prima dell’‘Anna Bolena’, a Roma, nella famosa ‘Norma’ interrotta dopo il primo atto. L’ho anche conosciuta. Con Giuseppe Patroni Griffi ed Enrico Medioli – io ero il più giovane! – facemmo una macchinata da Roma, un viaggio alla ‘Fratelli d’Italia’. Ci aveva invitato Visconti, che, il giorno dopo la ‘Bolena’, ci portò a casa della Callas, dalle parti della Fiera, mi pare. Dopo alcune osservazioni sulla recita (aveva qualcosa da ridire sulla Simionato), durante la quale era stata davvero stupefacente, salvo, va detto, l’acuto finale, ci fece ascoltare la prima copia del ‘Trovatore’ inciso con Karajan, ancora non immesso in commercio. Giunti al quarto atto, restai sorpreso nell’udire, dopo il ‘Miserere’, la cabaletta di Leonora ‘Tu vedrai che amore in terra’, un pezzo che all’epoca si tagliava sempre, sia in teatro sia in disco (io avevo quello con la Milanov diretto da Cellini, e anche lì non c’era). Allora, con l’impertinenza della gioventù, le chiesi: ‘Ma perché le altre non la fanno?’. E lei, serissima: ‘Perché le altre non hanno la tecnica’”. L’albagia tipica della Callas occultava stavolta una ferita aperta: l’anno prima Renata Tebaldi, nell’incisione con Erede, aveva riaperto il taglio. Inconcepibile sottrarsi alla sfida con la rivale di sempre. Ma era davvero una grande attrice, la Callas? “Se ripenso all’effetto che mi faceva, percepivo una sensazione di grandezza. Scenicamente migliorava quello che tutti pensavano dovessero essere i cantanti d’opera. Prima di lei erano grotteschi, però non posso dire che fosse una cosa diametralmente diversa dagli altri. Il contesto era lo stesso. Voglio dire che ha nobilitato e affinato un cliché, non ha inventato nulla di nuovo. Viceversa, sul piano musicale era un’altra cosa”.

 

Sfatata dunque la diceria di un Ronconi insensibile alla musica, passiamo adesso al resoconto della mia “giornata particolare” in compagnia del “Maestrissimo” e dei suoi discepoli alle prime armi. Armi spuntate, viene da dire, se la loro inesauribile buona volontà non riesce a compensare le lacune tecniche, la difficoltà a intendere il senso (e, di conseguenza, il ritmo, il suono) del testo interpretato. “Vogliono imparare, si danno moltissimo da fare, ma non pongono quasi mai domande neppure quando non capiscono, leggono la loro parte ad alta voce e pensano che sia tutto fatto”, mi dice Ronconi prima di dare inizio alla seduta pomeridiana. In effetti, li vedo impegnarsi, darsi la carica, mettercela tutta; c’è chi, seduto al banco, ripassa muto le proprie battute in attesa di esibirsi dinanzi alla classe, chi, gli occhioni sgranati, si abbevera ai commenti e ai consigli del regista, chi – ed è la maggioranza – cosparge i copioni di note appunti postille fin quasi a rendere illeggibile il testo stampato. Sapranno raccapezzarsi in quel magma di segni blu rossi neri, riusciranno a ordinare questa dovizia di sollecitazioni in una visione coerente e unitaria? “Per recitare ci vuole gran faccia tosta; bisogna recuperarla quella faccia tosta. Cercate di sentirvi toccati dalle parole degli altri. Non è interessante quello che senti dentro, ma che attribuisci vita e pensieri alle immagini. Quando diventerete più maliziosi, più esperti vi accorgerete che i mutamenti espressivi e le emozioni sono collegate a muscoli diversi, è qualcosa che vi appartiene, deriva dalle vostre potenzialità fisiche. Tendete a riferire tutto a voi stessi, ma se non c’è differenza difficilmente si stabilisce una comunicazione. Sbagliate gli attacchi, non partite col piede giusto. Per alzare la voce non c’è bisogno di strillare e di correre, tu invece strilli e continui a strilla’. Respiri, ti guardi intorno, sospiri, abbracci chi ti sta vicino, manca solo che ti butti per terra per cadere nella convenzione più trita”: sono solo alcune delle “massime” dispensate con pazienza e persino con dolcezza dal Ronconi maieuta, capace anche di affondi autoironici: “Può darsi che dia indicazioni difficilmente realizzabili sul piano delle inflessioni, dei gesti ecc. In questo caso non siete inadeguati voi, sono chimerico io. Sarebbe una dolorosa rivelazione. Se mi date questa delusione, c.... vostri!”. Non sarà mica diventato più buono col passare del tempo? “A me il regista urlatore ha sempre dato fastidio”. (Sarà, però io rammento certe strigliate agli attori, da togliere la pelle). “E poi che vuol dire buono o cattivo? So che potrei essere cattivissimo anche con gli amici più cari. Sei buono quando non fai tutte le cattiverie che potresti fare…”. Lascia di stucco, in Ronconi, l’acribia analitica praticata sui testi, la discesa verso livelli di senso sempre più profondi, l’attenzione per i dettagli, i rimandi interni, i significati impliciti o reconditi: “Consiglio sempre agli allievi la lettura dei ‘Principi di fonologia’ di Nikolai Trubetzkoy: per me è stata illuminante”. Si comprende appieno perché in media i suoi spettacoli durino (soprattutto durassero) più del consueto.

 

I testi prescelti per il seminario spaziano in epoche diverse, ma in una sola civiltà teatrale, quella italiana. Scene o atti (mai un dramma completo) sono tolti dal “Pilade” di Pasolini (“Pasolini provava avversione per certo consenso di massa, per lui il linguaggio comunemente adoperato era falso, ingannevole, esecrava la borghesia, ch’era il suo mondo, ma non è che i borghesi ragionino sempre col c....”), dai “Sei personaggi” di Pirandello (“A me piace abbastanza per l’incontro che vi si realizza tra due virtualità, tra due realtà fittizie, verità contro verosimiglianza. Le commedie di Pirandello sono brutte, va bene, ma la colpa non è dell’autore, bensì del sistema produttivo allora vigente, i tre atti, la prim’attrice… Tutti fattori che obbligavano a dei compromessi”), da “Amor nello specchio” di Giovan Battista Andreini (1622): “Bello, eh? Come fa a non essere nel repertorio un lavoro di questo livello? Secondo me è anche un po’ colpa degli intellettuali. In Italia la perdita di consuetudine col teatro di parola barocco (quello in musica è ormai recuperato) costituisce un grave danno. E pensare che la scoperta novecentesca di concetti come narcisismo, frustrazione consentono di rileggere, ripensare profondamente i testi del passato. Quando feci ‘Amor nello specchio’ a Ferrara, nel 2002 con la Melato, predominava l’elemento spettacolare, oggi sono più interessato all’aspetto patologico della passione erotica”.

 

A metà d’una tirata, uno dei neo diplomati si ferma, si sente “un po’ fuori”: è dei più giovani, a dire del regista ha “presenza, energia, non ancora autonomia”. Ronconi sdrammatizza: “Ah, te ne sei accorto, malandrino”; e tuttavia, osservando come questi aspiranti attori siano affetti da spaesamento, e senza nulla togliere ai valorosi docenti della “Silvio D’Amico”, viene spontaneo domandarsi se non sia il caso di rivedere qualcosa nei piani di studio adottati dall’Accademia. Per il resto, nulla da eccepire. L’atmosfera che si respira in questa valle umbra aperta verso il tramonto è incantevole, Ronconi lo staff gli studenti, l’umore alle stelle, convivono in perfetta letizia e io sono contentissimo d’essere venuto.

 

Alzatomi all’alba (almeno per me: erano le sette), ho viaggiato cinque ore abbondanti e cambiato tre volte treno, ma non appena esco dalla stazione di Perugia e mi si fa incontro il sorriso di Maria Zinno, ogni cosa muta aspetto. Da due anni Maria lavora per il Centro teatrale Santacristina (lo scrivono così, tutt’attaccato, che volete farci), eppure mentre guida l’automobile sulla superstrada e sulla provinciale, mentre attraversiamo Casa del Diavolo (frazione non priva di fascino e di mistero), mentre percorriamo l’ultimo tratto sterrato da cui si accede alla casa colonica adibita a dormitorio (“tutte camere doppie”, m’informa scrupolosa), alle due stalle e alla tettoia chiusa trasformate la prima in refettorio-salotto, le altre in sale prove – “palestre di sentimenti”, le ha felicemente definite Gianfranco Capitta: pavimento ligneo, pareti, travi metalliche e copertura in lamiera ondulata bianco latte –, mi parla di questa esperienza con l’entusiasmo d’una neofita. E’ lei a dare la sveglia ai ragazzi, lei a recuperare all’incrocio con la via principale le macchine dei visitatori che si mettono in nota per assistere alle prove aperte di fine corso (gli ultimi quattro giorni, una trentina di ospiti gratuiti alla volta).

 

[**Video_box_2**]Chiedo ragguagli sulla salute di Ronconi: una malattia lunga e infida, tra il 2008 e il 2009, fece temere il peggio; i numi, per una volta non del tutto avversi, si sono accontentati (si fa per dire) d’imporre la dialisi tre volte a settimana. “Può mangiare tutto ciò che normalmente fa male – mi dice Maria –, e deve evitare le cose reputate sane, il pesce, le verdure, le banane, la frutta in genere. E bere non più di mezzo litro d’acqua al giorno”. Al nostro arrivo, lo trovo seduto a mensa (entrando a sinistra, a destra siedono i discenti), intento a piluccare voluttuosamente chicchi d’uva. “Io non vedo, anzi non guardo più”, si lagna all’altro capo del tavolo Luigi Laselva, segretario-aiutante-tuttofare, fotografo ufficiale del laboratorio, sedicente grande cuoco e coniatore dell’espressione “Maestrissimo”. Claudia Di Giacomo, l’organizzatrice generale, non degna l’episodio della minima attenzione, tutta intenta alla sua minuscola bambina; Roberta Carlotto, presidente e cofondatrice del Centro, sorride indulgente. “Non sono birichino”, mi ribatte, sdegnato, Ronconi. Ma una smorfietta maliziosa gl’increspa il labbro superiore destro. Trasgredisce perché domani è giorno di dialisi? “Beh, sì. Cosa faccio in quelle quattro ore? Dormicchio, nei periodi di prova ripeto le battute. No, non sento la mancanza di certi cibi. Astemio lo sono sempre stato, e poi è confortante come nella vita ci si abitui a tutto”. Il volto, incorniciato dal candore splendente di capelli e barba, è assottigliato, e con l’abbronzatura – l’abbronzatura di chi trascorre molto tempo all’aria aperta – le rughe sembrano più scavate: non sulla fronte, ma intorno agli occhi, sulle guance, assomigliano a raggi di sole. La montatura degli occhiali è vecchio stile, cerchi e suste di metallo; fresco, invece, lo sguardo, e sereno, allegro, azzarderei felice: “Quando lavoro sto meglio: è la funzione terapeutica che può avere il teatro se lo pigli bene. Per mia fortuna io ho capito subito che questo era il pelago dove non sarei annegato. Ci sono attori o cantanti che abbracciano la carriera teatrale per curare la propria balbuzie (il basso Sam Ramey, rossiniano celeberrimo, per esempio). Io tutto sommato la mia balbuzie me la sarei tenuta, ma fin da piccolo sapevo che il destino mi portava su quella strada”. Già, delle esitazioni, delle pause infinite che costellavano i suoi discorsi quasi non resta traccia. Sopravvivono solo i “mmm”, gli “eehhh” in mezzo alle frasi. “Sono stato un bambino e un adolescente alquanto taciturno, ero figlio d’una madre vedova che insegnava fuori Roma, stavo sempre solo a casa, ero musone. Non che adesso… Però parlo molto più d’una volta. Forse perché ci sento meno, è un modo per riempire i silenzi” (questo non avrei dovuto scriverlo, ma suonava così tenero, autentico, disarmato, che non ho resistito: chiedo venia).

 

L’esistenza di Ronconi si divide in tre fasi, ineguali per durata: l’infanzia e la gioventù, con i due esami dati a Giurisprudenza (“era l’unica facoltà dove si poteva non seguire”), gli studi all’Accademia e una non spregevole carriera di attore (“Ero uno specialista di Lisandro nel ‘Sogno d’una notte di mezza estate’. Ho smesso nel 1962 perché non mi piaceva più”), la professione registica, dal ’66, “dietro richiesta della Occhini, di Pani e di Volonté”, e nel mezzo “una fase di bella vita: soldi non ne avevo, ma leggevo molto, facevo all’amore, dormivo… poco”.

 

Nostalgia per gli spettacoloni miliardari? “Neanche per idea. Se capiteranno ancora li farò, sennò pazienza. Io sono uno a cui piace il lavoro su commissione, specie all’opera, che non ho mai considerato come un genere da trattare con uno stile specifico di regia: ogni titolo preso a sé, singolarmente. Anche se riguardo al melodramma devo ammettere di essere un po’ stanco dell’andazzo attuale, almeno in Italia. Troppi vincoli sindacali, orari contingentati, il coro che se non gli fai fare niente si arrabbia, se gli chiedi cose s’infuria… Non parliamo poi delle attualizzazioni, le detesto: comunicano la sensazione di un accanimento terapeutico vano. No, che in Italia la regia sia in crisi non direi proprio, e neanche gli attori. Manca forse qualcuno che possa paragonarsi a ciò che Gassman rappresentò per la prosa degli anni Cinquanta-Sessanta, ma il livello medio oggi è più elevato di allora”.

 

Quante cose mi restano sul calepino (i litigi con Lilla Brignone, i consigli di Sarah Ferrati alle attrici che agognavano una scrittura – “smaterassate” –, le sortite surreali del suggeritore Battaglia, “un vecchietto toscano, una checchina tremenda che parlava a scatti per l’abitudine di sillabare le parole”, il desiderio mai realizzato di portare sul teatro o al cinema “La gloria” di d’Annunzio, le offerte ricevute da Ponti e Grimaldi di passare, appunto, dietro la cinepresa, la “Semiramide” che, a breve, lo attende al San Carlo di Napoli: “Il Rossini serio mi ha sempre attratto. Sarà un allestimento essenziale – non c’erano soldi –, tutto basato sull’azione dei cantanti: scena vuota, coristi, se riesco a convincerli, immersi fino alla testa in anfratti del piano inclinato”), ma voglio congedarmi dal “Maestrissimo” e da voi con una sua aurea sentenza meritevole di attenta riflessione, valida anche fuori della scena: “La metà delle cose che diciamo sono risposte. Non solo per replicare a cose chieste in quel dato momento, ma anche a domande legate a discorsi pronunciati in precedenza o a domande implicite posteci dal mondo circostante”.

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