La Cia, il Prof, il Papa e io
Strauss e Ratzinger sono pensatori gemelli. Il primo nasce a Kirchhain, Assia, nel 1899, in una famiglia rurale ebraica. Il secondo a Marktl-am-Inn, Baviera, nel 1927, in una famiglia di piccola borghesia cattolica. Il primo emigra a Parigi nel 1932, poi a Londra, infine negli Stati Uniti, paese d'adozione e nuova patria della diaspora ebraica. Il secondo emigra a Roma, capitale del cattolicesimo, definitivamente nel 1981. Sono due splendide carriere, non solo accademiche. Sono due superprofessori, e pedagoghi di vasta presa, nell'ambito della teologia e della filosofia politica.
Strauss e Ratzinger sono pensatori gemelli. Il primo nasce a Kirchhain, Assia, nel 1899, in una famiglia rurale ebraica. Il secondo a Marktl-am-Inn, Baviera, nel 1927, in una famiglia di piccola borghesia cattolica. Il primo emigra a Parigi nel 1932, poi a Londra, infine negli Stati Uniti, paese d'adozione e nuova patria della diaspora ebraica. Il secondo emigra a Roma, capitale del cattolicesimo, definitivamente nel 1981. Sono due splendide carriere, non solo accademiche. Sono due superprofessori, e pedagoghi di vasta presa, nell'ambito della teologia e della filosofia politica.
Sono gemelli in questo, Strauss e Ratzinger: la modernità per loro è diventata un problema; la scienza avalutativa (scienze naturali e scienze umane) è insieme il riflesso e la causa di una deriva relativistica, storicistica e nichilista di pensiero e esistenza moderni; la questione teologico-politica – una buona vita e un buon regime ispirati alla virtù (e non alla caricatura virtuista della virtù) – non sono possibili in terra (la vena antiutopista è molto pronunciata nella Prefazione straussiana alla traduzione inglese della Critica spinoziana della religione e nell'enciclica Spe salvi) ma sono pensabili nella tensione tra Rivelazione e Ragione. Questa tensione è evidente nell'opera esegetica di Strauss relativa al pensiero antico, al razionalismo antico, e in tutta la teologia ratzingeriana, fino agli approdi più recenti di filosofia politica, tra i quali va menzionato il celebre discorso di Ratisbona.
La diversità è troppo evidente per doverla ricordare: Strauss è un ebreo non osservante, il suo è un pensiero teista ma impermeabile a una fede messianica, mentre Ratzinger è un cattolico osservante, un credente, e il messianesimo ce l'ha alle spalle. Una generazione li divide, e il contatto con la storia europea del Novecento è diversamente modulato, sebbene i fondamentali non cambino di molto per l'uno e per l'altro.
Trovo curioso che, a quanto io ne sappia, non esista ancora una riflessione organica di parte cattolica sul pensiero di Strauss e in particolare sulla sua rilettura del giusnaturalismo classico e moderno (almeno i gesuiti e i benedettini avrebbero molto da lavorare e dovrebbero darsi da fare). Tanto più che, come ha recentemente ricordato il sottile giurista Guido Alpa nella prefazione all'ultima edizione italiana di “Diritto naturale e storia”, Strauss stesso notò in una voce enciclopedica sul giusnaturalismo che “il diritto naturale ai nostri giorni è rifiutato da quasi tutti gli studiosi della società che non siano cattolici romani”.
Non intendo adesso approfondire i termini di questo parallelismo, ci tornerò brevemente alla fine delle mie note, e non ne avrei nemmeno le competenze. Sospetto che il vero punto di incontro filosofico e teologico andrebbe situato nel sistema o nel metodo di san Tommaso d'Aquino (1225-1274): ma Ratzinger non è definibile in termini teologici come tomista (nella sua celebre Introduzione al cristianesimo Tommaso non è mai citato) e l'interesse per il tomismo è in Strauss un riflesso, come sempre intellettualmente sottile ma non troppo ravvicinato, della sua passione esegetico-critica per Mosè Maimonide (1138-1204) e Al Farabi (870-950), due grandi razionalisti che prepararono la strada anche per la scolastica cristiana.
Quello che posso fare, per svolgere rapidamente il tema che mi è stato assegnato, e cioè “Strauss politico”, è di recare una testimonianza personale. Ho la fortuna – fortuna per me, disgrazia per le regole della mia corporazione – di fare per mestiere il giornalista ma di non essere un giornalista. Dopo una lunga formazione ed esperienza politica di militante e funzionario comunista, nata in ambito familiare e sviluppata in quello strano animale politico che fu il Partito comunista italiano, superati i trent'anni ho rotto con il Pci, l'ho rinnegato con decisione ma senza troppo strepito, sono diventato anticomunista senza perdere la mia curiosità per la “città futura” e mi sono messo a studiare riprendendo un curriculum accademico iniziatosi subito dopo il 1968 e presto interrotto dalle “urgenze” della politica. Ho terminato in quel periodo, prima metà degli anni Ottanta, il corso degli esami presso la facoltà di Filosofia di Roma, e al posto della tesi di laurea, di cui non sentivo una pressante necessità, ho curato, tradotto e pubblicato da Marsilio, nel 1990, insieme con la dottoressa Fiammetta Profili, i saggi ermeneutici di Strauss sulla doppia dottrina, esoterica per i cuccioli allevati dal filosofo ed essoterica per la comunità politica, raccolti nel volume Persecution and the Art of Writing, pubblicati dalla Free Press nel 1952.
Ma come mi ero imbattuto in Leo Strauss? Che significato assumeva la sua lettura per un giovanotto dilettante di filosofia, per un politico ex comunista che nel frattempo si metteva a fare il giornalista per campare e che in futuro diventerà un laico ratzingeriano?
A trent'anni dalla morte del maestro di Chicago, in due saggi pubblicati sulla New York Review of Books, il primo nel giugno del 2003 e il secondo nel novembre dell'anno successivo, Mark Lilla, storico delle idee di orientamento liberal, ma sostanzialmente sgombro di pregiudizi politicamente corretti nel suo esame delle avventure del pensiero moderno, sostenne questa tesi, argomentandola con brillante diligenza: gli studi europei su Strauss restituiscono tutto il suo onore accademico al filosofo, che fu un sensibile e impegnativo lettore e rilettore dei grandi libri classici e medievali di filosofia politica in un'epoca di trascuratezza e di selvaggia destrutturazione dei significati profondi della filosofia politica. Per Lilla, il lavoro filosofico di Strauss, che parte in Germania nella crisi della Repubblica di Weimar e matura in America negli anni della Guerra fredda e della crisi dell'occidente, dopo la catastrofe dello sterminio degli ebrei d'Europa, va distinto, e forse decisamente separato, dalla ricezione politica della sua pedagogia negli Stati Uniti. Ricezione che fu caratterizzata dal successo internazionale del pamphlet del suo allievo Allan Bloom, il Ravelstein di Saul Bellow, che scandalizzò le università americane travolte dalla tempesta degli anni successivi al 1968 con il suo The Closing of the American Mind (1987), una denuncia molto radicale degli effetti della crisi occidentale sulla cultura contemporanea, e affiancò con le sue idee personali l'influenza che una certa lettura di Strauss rivestì nella storia e nella pratica politica dell'establishment repubblicano e neoconservatore di Washington.
Questa influenza si produsse in un lungo arco di tempo che va dalla campagna elettorale di Barry Goldwater nel 1964 (uno degli allievi di Strauss fu suo speech writer) alla delineazione del Progetto per un nuovo secolo americano, il manifesto dell'idealismo politico e della logica imperiale che fu scritto alla fine degli anni Novanta ed ebbe un ruolo propulsivo nelle amministrazioni di George W. Bush.
Lilla contrappone la sofisticata ricezione europea di Strauss, la sua rinnovata e recente fortuna in ambienti di lingua francese e tedesca, a una certa ingenua tendenza del pubblico accademico e politico americano, fin dalle lezioni straussiane dei primi anni Cinquanta nella sua tenure a Chicago, a trasformare quello che voleva essere un filosofo socratico, un ateniese capace di porre le giuste domande razionali sull'uomo e sul mondo, in un profeta mosaico della terra promessa dell'anticomunismo e di una versione dottrinale assolutista e dogmatica della critica del relativismo scientifico di Max Weber (1864-1920), con la sua separazione di fatti e valori, e degli esiti di storicismo e nichilismo radicale del pensiero di Friedrich Nietzsche (1844-1900) e di Martin Heidegger (1889-1976).
Lilla ha le sue ragioni, e comunque il suo contributo a una lettura elegante, equanime e disincantata di Strauss, invocata anche da Jenny Strauss Clay, sua figlia e classicista in America, con una bellissima lettera pubblicata dal New York Times nel trentennale della morte del padre, è un tributo alla civiltà degli studi che gli guadagnerà il paradiso delle lettere e della storiografia. Tuttavia il mio percorso personale di lettore di Strauss negli anni Ottanta, e il mio infinitesimale contributo alla sua ricezione europea, è forse l'eccezione, il piccolo inciampo, che rende meno solida la distinzione o separazione tentata da Mark Lilla tra Strauss filosofo e lo straussismo politico.
E questo per tre ragioni. Mi imbattei in Strauss per via di una nota a piè di pagina nella splendida monografia su Machiavelli del filosofo storicista Gennaro Sasso, maestro di studi umanistici e filosofici. Lo lessi e lo studiai in anni di forte impegno e di turbolenza politica, lo lessi da militante anticomunista impegnato nelle battaglie di coda della Guerra fredda (seconda metà degli Ottanta), e a un certo punto, per un anno, perfino informatore politico professionale della Cia. Ero tuttavia un provinciale dell'impero americano, totalmente disinformato sulla penetrazione multiforme e ancora embrionale dello straussismo politico nell'establishment repubblicano e neoconservatore di Washington. Non ero assimilabile, nonostante una storia che si rivelerà parallela, al pubblico variegato della scuola di pedagogia civile che era incantata dal filosofo e lo scambiava per un profeta e lo trattava come un machiavellico istruttore segreto della classe dirigente, secondo la versione di Lilla. Al contrario. Quando, dieci o dodici anni dopo, a cavallo dell'undici settembre e nella prospettiva della guerra contro il terrorismo internazionale, delle campagne afghana e irachena, scoprii la letteratura politica neoconservatrice, e la importai in Italia divenendo attivo sostenitore di quell'insieme di analisi del disordine mondiale e di progetti politico-militari per un nuovo ordine, fui stupito, almeno in una certa misura, di militare a fianco di una tribù politica che aveva il mio stesso maestro filosofico. Ovviamente sapevo che Strauss e la sua opera erano oggetto di un contenzioso culturale e accademico acuto negli Stati Uniti, e avevo letto a suo tempo, metà degli anni Ottanta, la requisitoria altezzosa di Myles Fredric Burnyeat contro la Sfinge senza segreti, e la affilata risposta di Werner Dannhauser, ma fui genuinamente stupito dall'esistenza di una lobby politica washingtoniana, la cabbala neoconservatrice di cui parlavano con un certo cattivo gusto i suoi detrattori, i cui leader si richiamavano, in un modo o nell'altro, al maestro di Chicago.
La mia lettura di Strauss, per tornare alla tesi di Lilla su uno Strauss europeo che va separato formalmente dallo Strauss americano, sostanzialmente inautentico, era stata appunto molto “europea” e piuttosto distaccata dall'idea che il filosofo fosse stato il volenteroso campione delle classi dirigenti conservatrici in formazione a Washington. Non per questo ho mai pensato a Strauss come a un disincarnato ed erudito lettore di autori classici e medievali. In due soggiorni tedeschi, uno a Friburgo e uno a Berlino, avevo cercato di approfondire la parte del pensiero filosofico di Strauss che investe la questione teologico-politica, a partire dalla sua tesi sull'epistemologia del filosofo teista Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), dal suo superamento del liberalismo neokantiano di Hermann Cohen (1842-1918), dalla sua critica del sionismo e del nuovo pensiero di Franz Rosenzweig (1886-1929), fino agli studi su Spinoza, su Hobbes, e all'ermeneutica sterminata dei grandi classici greci e dei pensatori medievali di ambiente arabo ed ebraico, senza trascurare il fondamentale saggio sul Gerone di Senofonte e il contatto con Alexandre Kojève (1902-1968) e con il romanticismo hobbesiano di Carl Schmitt (1888-1985). Non pensavo alle conseguenze di quel grandioso lavoro di scavo e di interpretazione sulla struttura del Pentagono e del potere americano, all'epoca, ma sapevo che il mio autore era un autore intrinsecamente legato a una visione particolare di filosofia politica, senza essere un politico di mestiere o un allevatore di funzionari pubblici. Ero influenzato, nelle mie ricerche, da un bel saggio su Strauss di Arnaldo Momigliano (1908-1987), che dello Strauss antichista, giusnaturalista, razionalista e filosofo in ambito ebraico fu probabilmente il lettore più penetrante e perspicace, condividendo personalmente la tensione religiosa e laica del suo pensiero disposto tra Atene e Gerusalemme. Alla fine mi risolsi a scrivere di Strauss curando la pubblicazione italiana del suo libro di saggi ermeneutici sulla scrittura e lettura tra le righe, e mi limitai a una parafrasi della sua Prefazione autobiografica alla traduzione inglese della Critica spinoziana della religione (1966), che parte dal problema di Weimar. Weimar era uno spettro che ritornava in scena come problema della Guerra fredda e, in termini assolutamente nuovi, dell'undici settembre: il mondo liberale è una soluzione benedetta ma fragile alla questione del buon regime politico, e rischia di perire perché la sua giustizia non ha la spada.
Insomma, per riprendere i termini dell'analisi di Lilla, ero un lettore europeo di Strauss attento più al suo socratismo che al suo profetismo, ma ero anche un militante politico che cercava nel suo argomentare intorno al “giusto regime” un Ersatz all'illusione totalitaria del Novecento, che avevo vissuto in gioventù da comunista italiano. Incontrai il pedagogo descritto da Lilla come maestro involontario dei neoconservatori, anche loro una genia intellettuale e politica che aveva qualche radice nella storia del comunismo internazionale, solo molti anni dopo. Ma in certo senso sono definibile come un neoconservatore europeo ri-formato nel pensiero di Strauss, di cui ho studiato la parte meno direttamente risolvibile in una qualsiasi politica di stato, e senza molto sapere della sua pedagogia americana.
La giustizia senza la spada è ovviamente una metafora concepita nel linguaggio che Weber definirebbe di “sociologia comprendente”. Ma qui torniamo brevemente al gemellaggio Strauss-Ratzinger, e chiudiamo questa testimonianza parentetica sullo Strauss politico.
Il Ratzinger teologo e “politico” o “ideologo” è ovviamente distinto dal pastore della chiesa cattolica, dal vescovo cardinale e Papa inserito nella successione apostolica. Tuttavia, anche in questo caso, le distinzioni separano e al tempo stesso collegano, esprimono una dialettica, non una rottura di continuità. Ho incontrato e praticato come potevo, negli anni successivi alla passione straussiana, questo pensiero mai consegnato alle mere regole della funzione ecclesiastica di chi lo coltivava, sebbene temprato e caratterizzato dalla decisiva funzione di consulente del Vaticano II, prima, di storico e critico dei suoi esiti di rottura, dopo, e infine di ricostruttore apostolico di una prospettiva conciliare e postconciliare continuista nella direzione della Congregazione per la dottrina della fede e nell'assunzione della responsabilità papale.
Parlo dunque di un professore universitario, di un ecclesiastico intellettualmente legato alle lotte del suo tempo, di un teologo influente nella corte papale di Karol Wojtyla, di un geniale pensatore che ha avviato e sviluppato con Jürgen Habermas, nell'immediata vigilia della sua elezione al soglio di Pietro, un celebre dialogo sui presupposti, sulle basi di cultura razionale e di diritto dello stato liberale moderno. Le questioni relative alla presenza della religione nello spazio pubblico in un quadro di laicità positiva, alla bioetica come paradigma di un potere scientifico liberato da preoccupazioni di significato filosofico e alla storia del Novecento come storia di una problematica secolarizzazione culminata nella dittatura del relativismo fanno del professore a Frisinga, a Gottinga e a Ratisbona, e in una parola di tutto il Ratzinger pensatore, un maestro parallelo o un gemello di Leo Strauss. Il grande tema costituzionalistico e giusnaturalistico del modello americano, le verità tenute per certe e autoevidenti sulle quali si fondano le libertà della persona e il diritto alla ricerca della felicità, sono la piattaforma comune su cui si costruiscono queste due straordinarie esperienze intellettuali, etiche e filosofiche del Novecento.
Filosofo problematico e razionalista nel giudaismo, come lo definì Momigliano in un consapevole ossimoro, Strauss cercò di difendere, compito sommamente politico, le libertà civili promesse e tradite dall'Illuminismo europeo e dalla sua catastrofe novecentesca, affermate in modo fragile e periclitante dal pensiero dei padri fondatori degli Stati Uniti d'America. Teologo e filosofo nel cristianesimo, Ratzinger cerca di proteggere la chiesa, la fede e il mondo dall'illusione del diritto e della cultura positiviste, convenzionaliste, affidati alla signoria incontrastata dell'uomo nell'universo, all'idea che l'umanità possa da sola portare il mondo “alla sua giusta forma”. Nelle due parabole intellettuali gemelle, o se preferite analoghe, io vedo simboleggiata con eros filosofico e molto buonumore la grande aporia del mondo moderno: dobbiamo fare giusnaturalisticamente come se Dio non ci fosse e al tempo stesso fare come se Dio ci sia, non c'è alternativa a questa sospensione tra le due città. Fuori di questa tensione tra Ragione e Rivelazione, tra Atene e Gerusalemme, non esiste alcuna accettabile misura per il giudizio su un sistema politico che, senza mai poterla integralmente realizzare, persegua la giustizia e la santifichi trovando fuori di sé il proprio presupposto.


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