Così la Grecia fa riscoprire all'Europa i “giubilei del debito”

Redazione

Libertà: i primi a darle un nome furono i Sumeri, che la chiamavano “Amargi”, libertà dai debiti. Lo ricorda il noto e controverso antropologo statunitense David Graeber – già autore di una storia dei primi 5.000 anni del debito – in un'intervista pubblicata sul blog americano “Naked Capitalism”. E' opinione diffusa che sia arrivato prima il baratto, e che solo in un secondo tempo sia seguita l'introduzione della moneta come forma di pagamento, dalla quale infine sarebbe nato il credito.

    Libertà: i primi a darle un nome furono i Sumeri, che la chiamavano “Amargi”, libertà dai debiti. Lo ricorda il noto e controverso antropologo statunitense David Graeber – già autore di una storia dei primi 5.000 anni del debito – in un'intervista pubblicata sul blog americano “Naked Capitalism”. E' opinione diffusa che sia arrivato prima il baratto, e che solo in un secondo tempo sia seguita l'introduzione della moneta come forma di pagamento, dalla quale infine sarebbe nato il credito. Non così secondo Graeber, per il quale il debito e il suo gemello – il credito – sono arrivati storicamente prima delle altre forme di regolamento nei rapporti economici. Chi non poteva far fronte ai propri debiti era infatti ripudiato dalle comunità in cui viveva, il disonore si estendeva anche a figli e parenti stretti del debitore, e spesso comportava la schiavitù o l'abbandono dei villaggi di origine.

    Nella civiltà delle piccole comunità o delle città-stato greche, la vita è scandita dall'onore e dalla reputazione, e secondo Aristotele un individuo gravato da debiti non è un uomo libero. Quella civiltà non è il mondo occidentale odierno, dove interi stati convivono con abnormi debiti pubblici ma anche privati – sotto forma di scoperti bancari o estratti della carta di credito da capogiro. Nelle grandi civiltà dell'antichità, credito, debito, onore e sacralità sono un tutt'uno, e di questa unità si trova più di un indizio nel linguaggio creditizio, particolarmente affine a quello religioso: in sanscrito, ebraico e aramaico, “debito”, “colpa” e “peccato” sono descritti dalla stessa parola. Anche concetti come quello del riconoscimento o della remissione – “rimetti a noi i nostri debiti”, recita il “Pater Noster” cattolico – hanno da sempre una duplice valenza economica e religiosa. Per chi viola le regole del gruppo di appartenenza, la punizione è per forza di cose infamante: è il bancone spaccato sulla schiena dei falliti, rituale crudele che è sopravvissuto a lungo anche nel nostro diritto fallimentare – la bancarotta si chiama così proprio in ricordo di quella sanzione – o l'iscrizione nei pubblici registri. Umiliazioni cocenti, non sempre accettate di buon grado dai diretti interessati. Alcune volte, ad esempio, i debitori-esuli formavano gruppi organizzati e, pieni di astio, divenivano una minaccia per le comunità che li avevano umiliati.

    Ne sanno qualcosa, ai giorni nostri, i curatori fallimentari che a volte subiscono ritorsioni quando dispongono l'esproprio dei beni di un fallito, o chi acquista da una curatela una macchina salvo poi vedersela incendiare poco dopo. Ed è proprio per scongiurare il rischio di sanguinose rivalse o di minacce all'ordine costituito che prese piede l'istituto della remissione dei debiti, un atto mediante il quale in un colpo solo tutti i debiti venivano condonati ai debitori, consentendone il reintegro nella società. La libertà dai debiti sumerica, Amargi, ha un ulteriore, eloquente significato: è il ritorno nella casa materna dopo la remissione del debito.

    Una pratica, questa, che è arrivata ai giorni nostri passando da Napoleone Bonaparte. Veri e propri “Giubilei del debito” per calmierare l'equilibrio tra l'economia reale (che non può crescere più velocemente di tanto) e la dinamica di crescita del debito, esponenziale e dunque più pericolosa. Nell'arsenale delle soluzioni tecniche al caso-Atene, l'Europa dovrebbe riflettere anche su questa formula antica ed estrema: il condono del debito.