La questione morale

Giuliano Ferrara

Quando Enrico Berlinguer sollevò negli anni Ottanta dell'altro secolo la questione morale, cibo di cui si vive tuttora, con effetti talvolta tossici, Gian Carlo Pajetta, che era un vecchio terzinternazionalista, che aveva conosciuto la galera sotto il fascismo, e nondimeno era restato un uomo spiritoso, replicò con una battuta di scherno: “Enrico è passato dal materialismo storico al moralismo storico”.

Leggi altri gli articoli del Foglio sul caso Penati

    Quando Enrico Berlinguer sollevò negli anni Ottanta dell'altro secolo la questione morale, cibo di cui si vive tuttora, con effetti talvolta tossici, Gian Carlo Pajetta, che era un vecchio terzinternazionalista, che aveva conosciuto la galera sotto il fascismo, e nondimeno era restato un uomo spiritoso, replicò con una battuta di scherno: “Enrico è passato dal materialismo storico al moralismo storico”. Che cosa voleva dire? Voleva dire che il “dover essere”, particolarmente in politica ma non solo in politica, non può integralmente sostituire “l'essere”. In Berlinguer, di famiglia laico-azionista e con una formazione dalle complesse venature cattoliche, questo nodo ideologico non fu mai sciolto, e il carisma pedagogico o predicatorio alla fine prevalse sul realismo. Un politico deve essere, specie in democrazia, tante cose: titolare di una visione profonda e vasta, di un'eloquenza capace di convincere, di un progetto per la sua parte e per il suo paese, e deve perseguire gli scopi assegnatigli dal suo tempo o da lui volontaristicamente scelti con mezzi giusti, umani, razionali e commisurati al fine di un esercizio equilibrato ma efficace del potere. La verifica della legalità dei suoi comportamenti è legittima, anche indispensabile, ma è una parte minore del tutto, non lo stigma della sua più vera identità (questo è l'equivoco massimo della questione morale cosiddetta). Il dover essere infatti si esprime dentro l'essere della politica, la sua concretezza, che in democrazia è essenzialmente scambio finalizzato all'esercizio del potere, il potere di realizzare quanto è politicamente necessario, di affermarsi in competizione con le altrui ambizioni e astuzie, facendo funzionare le istituzioni pubbliche anche attraverso la spinta di gruppi sociali e di interesse particolari, realizzando un accettabile governo della realtà attraverso i famosi pubblici benefici che sono spesso radicati nei vizi privati. La formula è di Bernard de Mandeville, la cui “Favola delle api” si può leggere in una splendida edizione della Cofide, la finanziaria di Carlo De Benedetti (1).

    La pubblica virtù del politico è mescolata fino all'indistinzione con il vizio, richiede la pratica di una zona grigia, ed è inganno demagogico pretendere dall'azione pubblica e dal conflitto democratico la trasparenza che non può dare. E' proprio per questo che i padri costituenti avevano stabilito l'impossibilità di perseguire in giudizio i parlamentari senza l'autorizzazione delle Camere; sapevano, perché non erano inesperti o stupidi, che questo scudo avrebbe potuto coprire il malaffare, ma giudicarono (Moro, Dossetti, Terracini, Ruini, La Malfa, De Gasperi, Togliatti, Parri e molti altri) più importante lasciare alla sovranità popolare di decidere se, nella zona grigia, era distinguibile un chiaro delitto comune da un atto messo legalmente in discussione che però apparteneva alla libertà insindacabile d'azione del “politico”. Un rischio calcolato.

    Se anche ammettessimo che Filippo Penati ha favorito le coop e il blocco sociale da queste rappresentato attraverso la cosiddetta “urbanistica contrattata” nelle aree ex Falck di Sesto San Giovanni, e che ha stabilito (non da solo, non per interesse personale e patrimoniale) una relazione speciale con l'imprenditore e finanziere padrone di un pezzo dell'autostrada Milano-Serravalle, sempre allo scopo di realizzare un'operazione di potere nell'ambito della finanza italiana, contendendo all'establishment tradizionale una banca, dovremmo concluderne che ha fatto il suo mestiere, e che così fan tutti. La sua carriera successiva, fino all'impresa di portare Pier Luigi Bersani alla guida del Pd coordinando la sua segreteria, dimostra che il giudizio della sua comunità politica era lusinghiero: Penati si sapeva muovere, sapeva essere efficace, provò a vincere una durissima battaglia borderline condotta in concorrenza con forze economico-bancarie occhiute e con le loro alleanze politiche, disposte a muovere le loro pedine da sempre con altrettanta disinvoltura, tutti insieme nella zona grigia. Ha compiuto specifici, puntuali reati? Ha male amministrato i soldi pubblici? La magistratura indaga, Penati ha diritto a un giusto processo, lo stato di diritto deve riaffermare che la legge è uguale per tutti, e la società può ben pretendere che, se accertati, questi reati vengano sanzionati. Ma il metro di misura con cui si giudica l'agire politico dell'ex presidente della provincia di Milano ed ex braccio destro di Bersani, se si voglia essere al tempo stesso realisti e giusti, non è esclusivamente quello legale: la parte legale è minore del tutto politico.

    Invece di sospendere Penati dal partito con gesto meramente simbolico di omaggio alla caciara forcaiola del momento, i capi del Pd, che avevano apprezzato il lavoro amministrativo e politico di Penati, a meno che non siano una manica di imbecilli e di ignari, e lo avevano integrato nel gruppo dirigente al massimo livello anche per la capacità di contribuire alla causa, dovrebbero, e questo sarebbe un atto insieme politicamente coraggioso e moralmente onesto, spiegare queste elementari verità a chi chiede una testa al giorno della famosa Casta. Invece si sceglie la via del silenzio, della reticenza morale, della falsa pedagogia legalitaria, e si chiede al compagno G o al compagno P di tenere duro per consentire al partito di fare della demo-pedagogia insincera. Questa è la questione morale propriamente detta. 

    (1) “Il merito straordinario di Mandeville è di avere analizzato gli uomini e le donne, in una società moderna e commerciale (noi diremmo: di mercato o capitalistica) per come sono, senza moralismi, senza infingimenti, senza cercare di imporre proprie e differenti regole di condotta, senza ricorrere a sistemi filosofici o teologici più o meno metafisici”. Dalla lucida introduzione di Carlo De Benedetti, editore di Scalfari, Fondatore del “dover essere”).

    Leggi altri gli articoli del Foglio sul caso Penati

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.