La fase lunare dei neocon

Mentre sgomberava la sua scrivania al New York Times, Bill Keller ha trovato fra le scartoffie una vecchia cambiale mai pagata. Risaliva al gennaio del 2004, quando il giornale online Slate aveva chiesto anche a lui di partecipare al forum dei liberal a vario titolo pentiti per avere sponsorizzato la guerra in Iraq iniziata meno di un anno prima. Il senso dell'opportunità dell'allora direttore del New York Times lo aveva tenuto lontano dalla rimpatriata di quello che lui stesso aveva definito il club di quelli che non-ci-posso-credere-che-sono-un-falco, una rimpatriata amara fatta di resipiscenza.

    New York. Mentre sgomberava la sua scrivania al New York Times, Bill Keller ha trovato fra le scartoffie una vecchia cambiale mai pagata. Risaliva al gennaio del 2004, quando il giornale online Slate aveva chiesto anche a lui di partecipare al forum dei liberal a vario titolo pentiti per avere sponsorizzato la guerra in Iraq iniziata meno di un anno prima. Il senso dell'opportunità dell'allora direttore del New York Times lo aveva tenuto lontano dalla rimpatriata di quello che lui stesso aveva definito il club di quelli che non-ci-posso-credere-che-sono-un-falco, una rimpatriata amara fatta di resipiscenza, pentimento e rimozione della stagione in cui l'intervento armato contro il macellaio Saddam Hussein era un argomento che si portava molto in certi salotti di sinistra.

    Lasciata la direzione a Jill Abramson e tornato al ruolo di editorialista – dov'era arrivato nel 2001: la prima column, nella quale si augura che “il presidente passi più tempo a parlare dell'efficacia dell'intelligence nel mondo reale e dell'applicazione della legge”, porta la data ferale del 12 settembre – Keller ha deciso di saldare il suo conto con l'Iraq in particolare e con l'11 settembre in generale spiegando il motivo per cui si era tesserato al club dei falchi liberal salvo poi pentirsi una volta che le cose sul campo si sono fatte complicate: “Ricordo il crescere di un istinto protettivo, acuito anche dalla nascita della mia seconda figlia nove mesi dopo gli attacchi. Qualcosa di terrificante era stato rilasciato nel mondo e l'urgenza di fermarlo, di fare qualcosa – di dimostrare qualcosa – stava dominando la mia educazione alle virtù della cautela e dello scetticismo”.

    Keller era soltanto uno degli aderenti al club degli interventisti di sinistra. Christopher Hitchens, Paul Berman, George Packer, Fareed Zakaria, Thomas Friedman, Andrew Sullivan: i falchi liberal volavano ad ali spiegate negli ambienti più influenti di Washington e New York, compulsavano con fervore da sacra scrittura il manuale dell'ex analista della Cia Ken Pollack (“The threatening storm”) e tornavano in quelle altezze dove si muovevano i neoconservatori, i custodi della dottrina Bush, gli ex radicali di sinistra che con il tramonto degli anni Sessanta hanno dato forma a quella “persuasione” (così la chiamava il nume tutelare Irving Kristol) fatta di eccezionalismo americano, unilateralismo, esportazione della democrazia e una confidenza piena ma mai civettuola con il mercato (il famoso “two cheers for capitalism”). Il sodalizio fra i due gruppi attorno alla posizione dell'America sulla guerra al terrore non era un fatto sconvolgente a livello di dottrina: si trattava in fondo di liberal assaliti dalla realtà, anche se l'assalto li aveva sorpresi in momenti storici e circostanze differenti.

    Ma il cerchio del pentimento chiuso da Keller con il suo percorso a ritroso lungo il decennio passato riporta al centro del dibattito la questione della rilevanza dei neoconservatori e il loro peso a Washington, dai think tank in cui l'Amministrazione Bush si abbeverava per nutrire la sua dottrina muscolare e morale fino alle riviste in cui la realtà veniva letta attraverso la lente dell'unicità americana. William Kristol, direttore del settimanale The Weekly Standard e animatore della leggendaria iniziativa Project for a new american century si è trovato stranamente a incrociare la strada di un altro liberal, Barack Obama, sulla via che porta a Tripoli. La guerra in Libia, con i suoi tic onusiani e la sua patina coloniale, non ha molto da spartire con l'afflato universalista che ha portato le truppe americane a Baghdad – e per questo, oltre che per i costi insostenibili, ha incontrato le resistenze di molti conservatori generici, ma non dei neocon, che si sono lanciati a capofitto nella guerra sponsorizzata da Samatha Power, giornalista, attivista e consigliere di Obama sui diritti umani, quella che ha “iniziato a fare la giornalista per cambiare il mondo”. Lei era favorevole alla prima guerra del Golfo (Saddam aveva esagerato), contraria alla seconda (gli americani stavano esagerando) e si è presa a cuore quella in Libia (Gheddafi aveva esagerato, lo ha detto l'Onu).

    Prima di annunciare l'inizio dell'“operazione militare cinetica” Odyssey Dawn, il presidente ha incontrato Kristol: “E' venuto per sapere se avrei sostenuto la sua politica d'intervento. Certo, dal momento che le sue idee sono quelle per cui gente come me combatte da tempo, sono felice di sostenerle. E' un born-again neocon”. Kristol sostiene la campagna in Libia con ardore immutato rispetto ai tempi dell'interventismo iracheno e dopo avere messo in croce Obama senza pietà ha riconsiderato il giudizio su un presidente che, a suo dire, nell'aiutare i ribelli a rovesciare il colonnello Gheddafi dimostra di essere un “amante della freedom agenda”; uno che sa “quanto sia importante per l'America vincere questa guerra”. Per il padrone del piccolo ma esclusivo salotto neoconservatore la primavera araba è il felice parto venuto dopo le famose “doglie del medio oriente” di Condi Rice.

    E' fisiologico però che la comunità del Weekly Standard, dell'American Enterprise Institute e in parte anche della rivista Commentary – il potentato che Norman Podhoretz ha passato in eredità al figlio John – tutta proiettata sulla politica estera e sul posto dell'America nel mondo, soffra questi tempi di austero ripiegamento verso l'interno, questo pragmatismo di cabotaggio che crede di poter discettare del ruolo globale dell'America accettando una sostanziale diminutio del suo status di superpotenza. Il giornale di Kristol sostiene il capofila delle “young guns” Paul Ryan, capo della commissione budget alla Camera con un talento innegabile per la leadership; per qualche tempo a Washington si è mormorato di una sua possibile discesa in campo per le primarie repubblicane, ipotesi poi caduta nel vuoto, ma che segnala l'insofferenza della galassia kristoliana per i candidati in corsa. Dalle parti del quartier generale dei neocon sulla diciassettesima strada, a Washington, quel filo di isolazionismo che unisce a vario titolo i repubblicani che puntano al 2012 non piace affatto (l'unico che parlava come un falco era Tim Pawlenty, il primo dei ritirati). Anche per questo nel mondo neoconservatore orfano di un establishment politico si sono prodotti innamoramenti episodici, tipo quello per John Thune, senatore del South Dakota che scalpita nelle retrovie o quello, già più solido, per il governatore del New Jersey, Chris Christie.

    Eli Lake, storico corrispondente dal Pentagono del Washington Times ora passato a Newsweek, dice che “sono gli stessi termini della discussione repubblicana sulla politica estera a essere cambiati: la fine dell'Amministrazione Bush e la crisi economica hanno tolto tutti i riferimenti precedenti. I neoconservatori, come tutte le altre correnti, sono in lotta per ritagliarsi il loro posto”. La galassia ha aggiunto alcune sigle, tipo Keep America Safe, progetto di Kristol e Liz Cheney sulla sicurezza nazionale e la Foreign Policy Initiative di Bob Kagan, pensatoio dal quale dovrebbe rinascere un nuovo piano per la politica estera americana. Negli anni però non sono mancati i fuoriusciti. David Frum, ex speechwriter di Bush già collaboratore di questo giornale, è stato cacciato dall'Aei perché rifiutava di allinearsi alla posizione intransigente dei suoi colleghi sulla riforma sanitaria. Da allora risponde volentieri a qualunque domanda tranne a quelle sulla sua dipartita; preferisce starsene nella sua casa in stile coloniale di Van Ness, quartiere perbene della capitale, con la moglie e due Golden Retriever. Da lì amministra FrumForum, portale per conservatori non convenzionali e con una vena polemica mai esaurita per gli ex amici dell'era Bush. La Cnn lo ha scritturato per la parte del conservatore presentabile. Un transfugo antico è Francis Fukuyama, il teorico della fine della storia e dell'esportazione della democrazia, che nel 2006 ha dichiarato morto il neoconservatorismo: “Deve essere rimpiazzato con un'agenda realista”, dice. Dopo decenni di pugna washingtoniana, l'intellettuale di origine giapponese si è rifugiato fra le mura di Stanford (le stesse che accolgono l'ex segretario di stato Rice). Fra una lezione e l'altra costruisce mobili in un piccolo laboratorio in mezzo al giardino, tanto per sottolineare la sua dipartita. In quella trasversale compagine unita dall'Iraq c'era anche Kanan Makyia, professore iracheno con un passato trotzkista e amico del cultore delle minoranze oppresse Christopher Hitchens. “I soldati americani saranno accolti con i fiori” è una delle massime che meglio spiegano la sua foga interventista. Scriveva nel 2007 Dexter Filkins: “Nella preparazione della guerra in Iraq Makiya più di ogni altro ha insistito non per invadere a causa delle armi di distruzione di massa, ma perché era la cosa giusta”. Makyia, quello dei seminari con Richard Perle – neocon che lavorava anche come advisor di Gheddafi, non senza imbarazzo – come molti falchi, si è pentito. E' tornato nella sua terra d'origine al seguito delle truppe con l'idea di rimanere, ma nel 2006, scottato da quello che aveva visto, ha preso un volo per l'America e si è rifugiato alla Brandeis University, nel Massachusetts.

    Nel 1952 il giornalista politico Samuel Lubell ha scritto “The future of the american politics”. La tesi di questo classico è che il sistema bipartitico implichi l'alternanza fra una maggioranza “soleggiata” e un'opposizione “lunare”: è nella maggioranza che le idee crescono e prosperano; nell'opposizione tendono ad avizzire per la poca esposizione alla luce della politica reale. E' così che fra transfughi ed ex alleati liberal tornati da dove erano venuti, i neoconservatori cercano ovunque, anche in Libia, il loro posto al sole.