Benvenuti al sud
Benvenuti al Sud perché poi, in Sicilia, per dire, l'unica cosa che si può fare è la villeggiatura. Benvenuti perché voi del Nord – voi del Continente, voi tutti del mondo di fuori – non avete l'obbligo (faccio sempre per dire), di sputare sulla pista di Catania ogni volta che atterrate. Fa così il mio amico Sandro Monaco ogni volta che viene trasferito da un carcere all'altro. Lui mi scrive scongiurandomi di non tenere troppo a lungo i miei figli in Sicilia: “Non li fare affezionare a questa terra maledetta”, mi dice.
Benvenuti al Sud perché poi, in Sicilia, per dire, l'unica cosa che si può fare è la villeggiatura. Benvenuti perché voi del Nord – voi del Continente, voi tutti del mondo di fuori – non avete l'obbligo (faccio sempre per dire), di sputare sulla pista di Catania ogni volta che atterrate. Fa così il mio amico Sandro Monaco ogni volta che viene trasferito da un carcere all'altro. Lui mi scrive scongiurandomi di non tenere troppo a lungo i miei figli in Sicilia: “Non li fare affezionare a questa terra maledetta”, mi dice.
Sandro, insomma, è un imprenditore, è in carcere già da dieci mesi. E' in carcerazione sedicente preventiva, accusato di mafia, trascinato nell'inchiesta Iblis ed è uno dei tanti stretti nella morsa tra lo stato e gli assassini. E' uno di quelli costretti a scegliere tra pagare l'estorsione e andare in prigione o non pagare e farsi ammazzare. Ha già avuto attentati nei suoi cantieri, si è pure costituito parte civile ma siccome non è uno di quelli che fa finta di essere imprenditore – alza la saracinesca ogni mattina e dà lavoro a tante famiglie – racconterò un'altra volta e, altrove, com'è finito in un calvario la cui unica resurrezione possibile sarà una presa di coscienza: non lasciare più un solo soldino di lavoro, fatica e impresa in Sicilia e dare anche volentieri un Benvenuto al Sud a chiunque arrivi, purché venga solo per la villeggiatura.
Venite dunque in villeggiatura in questo Sud, specie adesso che Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli, ha tolto la spazzatura dalle strade. Venite pure anche se c'è sempre la Salerno-Reggio Calabria e non c'è il Ponte di Messina e se già la storia di Sandro vi ha fatto intuire di che legno è fatta la scopa già avete capito, faccio per dire, perché non è stato fatto il Ponte: se si fa è perché la mafia ha interesse nell'affare, e lo vuole. Se non si fa è perché la mafia non ha guadagno nell'affare, e non lo vuole. Magari vuole tenere vivo il business dei traghetti. Oppure gestire la vendita abusiva di Compact disc dei neomelodici alle biglietterie della Caronte perché – diciamolo – il dilemma è sempre cornuto. E se c'è la modernizzazione vuol dire che c'è la mafia a inquinare gli appalti. Se resta l'arretratezza, invece, c'è sempre la aafia a costringere il tessuto sociale a precipitare nella sudditanza clientelare. E così via.
E così, sempre. Fino all'aeroporto di Comiso, che è bello, pronto e confezionato, ma non operativo perché in eterna attesa di collaudi e autorizzazioni. Ad aprirlo, anzi, a riaprirlo – fu orgoglio dell'aeronautica italiana in Era fascista – ne avrebbe beneficio un'area delicata quanto a scambi commerciali. Fosse pure per i pomodorini di Pachino e i caciocavalli ragusani. O per il turismo, per proclamare, appunto, il “Benvenuti al Sud!” e godere il barocco di Noto, Modica e Ibla e scendere comunque in Sicilia e sputare visto che l'aeroporto di Catania, causa eruzione dell'Etna, è spesso chiuso.
E Benvenuti al Sud, in questo estremo Sud che non è, certo, sottosviluppato ma sottosoprasviluppato. E se stanno facendo il quarto binario tra la Milano-Brescia-Cremona, ci vogliono pur sempre sette ore per coprire la distanza tra la costa orientale e quella occidentale della Sicilia. E se non ci sarà mai un Eurostar è perché non ci sono neanche le strade. Per fare la costa mediterranea da una punta all'altra ci vogliono, infatti, cinque ore e mezzo. E quando ci sono, le strade, sono come l'incompiuta Gela-Siracusa: l'unico tratto accessibile è fino a Rosolini. Non è collaudato e perciò si percorre a ottanta chilometri orari non senza però l'optional che garantisca la modernità della messa in opera: l'autovelox.
Benvenuti, quindi, e va bene. Ma mai una volta che la modernità si applichi su altri controlli: è mai possibile che tutta quella minchia di folla di lavoratori socialmente utili non venga spedita, ramazza in mano, a pulire le spiagge o la riserva dell'Irminio, bellissima, struggente, unica, sublime, impareggiabile, commovente, scena adatta a tutti i Montalbano ma infestata di bottiglie di plastica e munnizza galleggiante? Mai che la modernità – faccio sempre per dire – cammini lungo i percorsi dell'informatica. Quando nelle civilissime Catania e Palermo si accendono i condizionatori – faccio sempre per dire – si abbassa la tensione e non funziona più l'Adsl, cioè: arriva il caldo e si bloccano i terminali delle banche, degli uffici e pure delle case d'appuntamento.
Tutto diventa moderno, alla moda, di tendenza, ma mai che in questa orgia di “aria del Continente” si sposi l'orario continuato se per dare il Benvenuto al Sud si deve poi raccomandare di arrivare non troppo tardi perché al Parco archeologico dello Jato – francamente bello quanto le Dolomiti, però con le frasche – se già si arriva alle dodici e mezzo è tardi. Chiude infatti all'una ed è un piacere contare ben sei impiegati per un solo visitatore: io.
E poi dice che non ha ragione la Lega. Piero Maniscalco, artista, nativo di San Giuseppe Jato ma residente ormai in Russia, diventa una furia al cancello del Parco, non sa capacitarsi su come in Sicilia non sia possibile passeggiare in un parco e sull'arte che redime, lui ha un'idea poco glamour e racconta quando si presentò al cospetto del compianto Ludovico Corrao, a Gibellina. Il senatore – il grande sindaco che della ricostruzione della città dopo il terremoto fece un punto d'onore chiamando il meglio degli artisti – a Maniscalco, armato di pennelli, disse: “Tu ti devi raffinare. Ti sei mai guardato allo specchio, nudo, per incontrare te stesso? Vai incontro all'introspezione e così ti ricongiungi al tuo io”.
Maniscalco, all'epoca, non ci capì niente, ora se la gode (beato lui) a fare la star in quel di Mosca ma a dirla tutta quest'arte che si precipita in Sicilia è forse quella mostrificazione di “sottosviluppo, arretratezza e marginalità” di cui ha già scritto Francesco Merlo sulla Repubblica e se poi guardo l'arte in faccia, come all'angolo di via Giafar, a Palermo – o come nella bretella stradale della tangenziale di Catania, costeggiando Librino – dove Antonio Presti, quello della “Fiumara d'Arte”, a ogni palo ha appeso una bandiera, ognuna diversa e ciascuna corredata da solenni minchiate tipo “contro la guerra” o “la Costituzione è bella”, sulla polemica innescata da Merlo ci levo il “forse” e dico che ha totalmente ragione. E perciò non saranno i Consagra, i Samonà, i Cascella e i Burri a salvarci. Tutta la “merda d'artista” a noi che siamo siciliani dell'alluminio anodizzato ci rende mosche fameliche della parodia assistenzialista perché nel frattempo, dal genio di Corrao a oggi, la Sicilia è sprofondata in un terremoto sociale, culturale e politico che fa il paio con quel sindaco che dall'altare, ai funerali di Corrao, lo salutava ringraziandolo per averci lasciato il “Cretto di burro”. In quel lapsus, quel sindaco, più che l'ignoranza stava rivelando un'evidenza: piuttosto che far cataloghi d'arte è più urgente l'arrivo di ingegneri, di elettricisti, di idraulici e di tecnici informatici. E poi i soldi, certo, ci vogliono sempre, come dice Andrea Vecchio, capo dei costruttori, “solo i ricchi possono salvare la Sicilia” ma ogni volta che si sente scorrere la munita, in Sicilia, è come quando si scuote la scodella di Pavlov che fa salivare i cani. Sbavano i delinquenti, ovvio, ma l'acquolina (vogliamo dire quella del pregiudizio ideologico contro i ricconi?) viene anche ai magistrati.
L'unica arte praticata in Sicilia, la nostra vera potente merda d'artista, è quella dell'incompiuta. Nel bel mezzo del centro commerciale di Catania, faccio per dire, sul lungomare roccioso, a ridosso del solarium e della spiaggia di San Giovanni Li Cuti, è possibile godere di una gigantesca fossa recintata e adornata dai writer. Il grande buco è ciò che resta di un cantiere in project financing, senza costi per il municipio che ha dovuto dare solo le autorizzazioni: un parcheggio sotterraneo da cinque anni ammanettato, finito in custodia cautelare e consegnato a un processo la cui sentenza, assoluzione, dopo questi cinque anni di sfregio urbanistico non potrà che avere un esito: gli arrivederci e i baci degli imprenditori. Toccherà ai pm armarsi di pala e piccone e proseguire i lavori.
Tutta la merda d'artista è incompiuta. Attende le mosche fameliche della provvisorietà e della provvigione. Quella di un viadotto lasciato a metà o, lo scheletro di uno stadio, è testimonianza di un investimento fallito. E' una caratteristica tutta italiana ma la Sicilia è in testa alla graduatoria per le incompiute, ben centocinquantasei. Mentre a Sarzana stanno facendo il “Festival della Mente” a Giarre – che è la capitale delle incompiute con un mezzo stadio, un mezzo campo di polo, un mezzo parcheggio multipiano, e poi ancora un mezzo parco e un mezzo salone multifunzionale lasciati a metà – hanno realizzato perfino il “Festival delle incompiute” perché, alla fine, si deve pur sfruttare al meglio la propria specificità. Siate dunque Benvenuti al Sud perché se la Sicilia ha il primato, la Calabria ne ha cinquantatré, la Puglia trentanove, ventotto la Campania e altre quattordici la Basilicata.
A giustificazione della penuria di acqua nella Piana degli agrumeti – faccio sempre per dire – era stata pensata la Diga di Pietra Rossa. E' un'urgenza vecchia di vent'anni finanziata per 145 miliardi di lire dalla ormai mitica Cassa per il mezzogiorno. I lavori furono bloccati nel 1993 quando, con il contributo certamente “disinteressato” dei tombaroli, in località Casalgismondo fu rinvenuto un insediamento di epoca romana. Subito divampò una campagna di sensibilizzazione per un progetto di scavi archeologici, meritorio, ci mancherebbe altro, i lavori della diga procedettero a singhiozzo e se oggi è completata al novanta per cento il risultato è degno della Sicilia migliore: niente acqua e niente reperti.
E allora certo che ha ragione Francesco Merlo, che è un moderato al confronto di quello che scriveva il filosofo Giovanni Gentile quando, dalla sua Castelvetrano, affidando all'editore Sansoni “Il tramonto della cultura siciliana”, liquidava la paccottiglia pittoresca o, peggio ancora, la retorica della specificità regionalistica nel nulla di fatto di “un isolamento geografico e storico, chiuso in se medesimo”, di una realtà “scarsa di contenuto e di tenacia di tradizione”. Gentile era odiato al suo paese perché, pur ministro della Pubblica istruzione, non concedeva favori, non riceveva questuanti e non faceva raccomandazioni e questo libro così crudo, feroce e nemico della sicilitudine è ancora la sola medicina utile per guarire dal provincialismo irriducibile di chi va a cercare la luna smagliante della gloria di Trinacria nel pozzo del localismo.
Gentile che indicava in un processo di modernizzazione la compiuta esecuzione di uno Stato “italiano e cosmopolita”, garante di un livello accettabile di convivenza, se non di civiltà, a dispetto dei suoi stessi paesani, individuava uno stato che, con i Borghi rurali, portava la città in campagna, sottraendo il territorio alla mafia. Era uno stato che fabbricava industrie e segnava ferrovie, riducendo le distanze e la periferia. Era uno stato che debellava l'analfabetismo portando tutto il mondo dentro il largo paese della marginalità. Fa impressione oggi vedere, stritolata dai rampicanti inselvatichiti, la parola “scuola” di un edificio dell'edilizia popolare nel bel mezzo di una desolazione incolta come senza più zappa e aratro è gran parte della campagna siciliana. Tutto questo adesso è modernariato, chiunque faccia un percorso dentro quello che fu il grande ventre del latifondo può trovarne memoria e vestigia e se la merda d'artista, oggi, è l'incompiuta delle grandi opere, tutta questa archeologia delle “città di fondazione” in Sicilia è un monito sull'aver fatto in luogo del non farlo mai.
Ecco, Gentile dava quelle spiegazioni che un Salvatore Settis, in polemica con Merlo, non ha saputo dare. Se infatti Merlo chiede che venga tolta la Venere di Morgantina da Aidone per darla al mondo (e togliere, di conseguenza, l'Efebo da Selinunte, il Satiro da Mazara del Vallo, e darli al mondo, goduti e apprezzati dal pubblico, visto che non si può bandire un concorso pubblico per “visitatori di musei” e sistemare così i precari), se la gente di Sicilia preferisce affollare il “Fashion Village” di Agira, invece che il museo, a venti minuti di distanza dalla Villa del Casale (aperta a metà), prima ancora di spiegare quanto sia necessaria la memoria e la Dea c'è da capire un perché, ecco: perché questo outlet, raccontato ormai in tutti i giornali, è uno specchio di pulizia, efficienza, versatilità e fruibilità (mi accorgo di scrivere come un cretino cognitivo), mentre invece, tutto intorno, è ancora landa di lagna e sacchetti di plastica? Ci sono perfino le torrette di nebulizzazione per combattere l'afa e i concerti con Gianna Nannini la sera giusto quando alle sette di sera il museo di Aidone inesorabilmente ha già chiuso e la cosa incredibile è che i tour operator hanno inserito il “Fashion Village” tra le tappe, con grande gioia di chi viene a fare la villeggiatura.
Salvatore Settis, sempre sulla Repubblica, evoca gli eroi locali come la Dea di Morgantina protetti da assessori incatenati ai guardrail e dà torto a Merlo perché rivendicarli “è una battaglia per la legalità, oltre che per la conoscenza del loro contesto storico”. L'unica soluzione, dice, “è un'idea dell'Italia, un progetto per la sua cultura”. Bellissimo, giusto, perfetto ma, in attesa che Settis ce la dia questa sua idea, che facciamo: ci prendiamo una pillola?
Ancora una volta l'impossibilità di una risposta vera, ancora una volta il cortocircuito della politica che fa impazzire le competenze. Sembra di risentire quelli che in pieno fallimento del marxismo cercavano una nuova idea del marxismo, un progetto per la sua cultura.
In attesa di trovare una soluzione è tutto un discutere, qui in Sicilia, su come Merlo abbia infine sputato sulla propria terra, caterve di insulti lo avvolgono come neppure al più incallito dei leghisti sarà mai capitato.
Capita dunque di sputare sulla Sicilia, non lo sapevo, ma sono i più devoti a bruciare le più potenti bestemmie. E dovevo saperlo. E l'altra persona che avevo visto scaracchiare su questa terra dove pure fioriscono i limoni, in verità, l'aveva fatto per finta. Giusto un attore. Alla fine del primo atto de “I Malavoglia” di Giovanni Verga, una regia di Lamberto Puggelli, quando nel climax della dannazione, Rocco Spatu, esce di scena dalla quinta e sputa. Era il solito ciclo dei vinti ma siccome la realtà supera la fantasia Sandro Monaco, che non se la cava con la letteratura ma col carcere duro sì, prepara con buon anticipo il suo sputo.
Capita perciò di cambiare galera da un giorno all'altro – è previsto dalle regole, anche quelle per un Benvenuto – e lui comincia a ruminare non appena il comandante annuncia l'atterraggio su Fontanarossa. Sono venti minuti buoni e Sandro, seduto nel sedile centrale, accumula quanta più sputazza possibile per battezzare il paradiso abitato dai diavoli, la bedda Sicilia dove solo la villeggiatura si può fare e niente più.
Ecco, urge detergersi, e poi io sono qui a fare il mio dovere, a dire “Benvenuti al Sud”. E però, badate: la prossima rivolta araba, quando s'incepperà il nebulizzatore del “Fashion Village”, comincerà da qui. Come in Tunisia, come in Egitto. Ma faccio sempre per dire.


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