L'ultima guerra del Patto atlantico

Gianandrea Gaiani

Forse riuscirà a vincerla ma per la Nato la campagna libica rischia di rappresentare il canto del cigno. Dopo dieci anni di conflitto afghano, dal quale l'Alleanza atlantica conta di sfilarsi entro il 2014, la guerra libica ha messo in luce tutte le debolezze e le contraddizioni di un'alleanza militare incapace persino di chiamare la guerra con il suo nome. Nelle note di linguaggio dei comandi alleati l'operazione Unified Protector è definita “operazione a protezione dei civili”.

    Forse riuscirà a vincerla ma per la Nato la campagna libica rischia di rappresentare il canto del cigno. Dopo dieci anni di conflitto afghano, dal quale l'Alleanza atlantica conta di sfilarsi entro il 2014, la guerra libica ha messo in luce tutte le debolezze e le contraddizioni di un'alleanza militare incapace persino di chiamare la guerra con il suo nome. Nelle note di linguaggio dei comandi alleati l'operazione Unified Protector è definita “operazione a protezione dei civili”. Oltre 20 mila sortite aeree delle quali più di 8 mila di attacco con più di 500 missili da crociera e alcune migliaia di bombe sganciate sulla Libia (poco più di 500 delle quali lanciate dai jet italiani) rappresentano uno sforzo non irresistibile per le potenzialità (almeno quelle sulla carta) della Nato ma di certo sufficiente a far rientrare l'intervento nella definizione di guerra come dimostrano oltre un migliaio di civili uccisi secondo fonti lealiste.

    La campagna libica ha già richiesto oltre cinque mesi di incursioni, ben di più di quanto preventivato dai comandi alleati tenendo conto delle capacità non certo formidabili dell'armata di Gheddafi. Sul piano politico e strategico il conflitto nel Mediterraneo ha ribadito, ingigantendoli, i problemi già evidenziati dai partner europei della Nato nella campagna afghana. L'ex segretario alla Difesa statunitense Robert Gates aveva sottolineato nell'ottobre 2007 di non essere “soddisfatto del fatto che un'alleanza con membri che hanno oltre due milioni di militari non riesca a trovare le modeste risorse aggiuntive promesse per l'Afghanistan”.

    Se a Kabul il ruolo preminente degli Stati Uniti ha coperto i vuoti lasciati dagli europei, in Libia il basso profilo assunto da Washington nelle operazioni aeree ha evidenziato i limiti militari della componente europea. Le 300 sortite aeree quotidiane pianificate in marzo si sono ridotte in pratica a 120/150 per la carenza di aeroplani. In media  cinque velivoli messi in campo da Olanda, Belgio, Norvegia, Canada, Spagna, Svezia, Danimarca, Qatar ed Emirati arabi uniti oltre ai dodici dell'Italia.

    Francia e Gran Bretagna con una cinquantina di cacciabombardieri e una ventina di elicotteri d'attacco hanno fornito più della metà dei velivoli da combattimento. Svezia e Norvegia hanno già ritirato i loro jet e se a fine settembre le operazioni non saranno ancora concluse si ritireranno altri paesi, inclusa probabilmente l'Italia. Di fatto non sono più di un centinaio i jet da combattimento schierati dagli alleati, inclusi i caccia destinati a pattugliare lo spazio aereo libico. Una missione marginale già in aprile quando era evidente che Gheddafi non disponeva più di forze aeree mentre lo sforzo maggiore si concentrava nelle operazioni contro gli obiettivi terrestri.

    Come in Afghanistan anche in Libia alcuni paesi hanno posto caveat per limitare o negare l'impiego bellico dei jet. Spagna, Italia e Svezia non hanno autorizzato i propri velivoli a colpire obiettivi a terra, poi a fine aprile Roma ha deciso di partecipare ai raid ma soltanto fuori dai centri abitati per non rischiare di colpire civili. Peccato che gran parte delle forze lealiste fossero schierate proprio in ambiente urbano per rendere più difficili e rischiose le incursioni aeree. Per la stessa ragione le navi della marina militare non possono bombardare obiettivi a terra nonostante molte importanti battaglie di questo conflitto (a partire da quella di Misurata) si siano sviluppate lungo la fascia costiera. Alle limitazioni politiche si sono aggiunte le carenze di bombe, missili e munizioni arrivate già dopo poche settimane di guerra. Anche i cacciabombardieri Harrier della marina italiana sono stati ritirati dal conflitto a metà luglio, assieme alla portaerei Garibaldi, non per ridurre i costi ma perché avevano esaurito le armi.

    E' una situazione imbarazzante che pone seri interrogativi su quali guerre siano in grado di combattere gli europei. Un gap aggravato dai tagli agli strumenti militari imposti dalla crisi finanziaria proprio nel momento in cui l'infiammarsi del Mediterraneo e del mondo arabo imporrebbero al contrario di potenziare le Forze armate. Il Pentagono ha dovuto ammettere il 26 maggio di aver rifornito con bombe americane gli aerei europei impegnati sulla Libia offrendo di nuovo il destro a Gates per accusare gli europei che condannano la Nato all'irrilevanza militare. Molte delle componenti e delle operazioni determinanti per la vittoria (al momento parziale) in Libia non hanno nulla a che fare con la Nato. I rifornimenti di armi fornite ai ribelli da Italia, Francia, Gran Bretagna e Qatar sono sbarcati a Bengasi o sono stati paracadutati in Tripolitania nell'ambito di interventi dei singoli paesi. Lo stesso vale per i contingenti di forze speciali, contractor, mercenari e consiglieri militari che da mesi affiancano gli insorti rispondendo ai singoli governi. Così lunedì la Nato ha potuto tranquillamente smentire le indiscrezioni che riferivano di truppe alleate presenti a Tripoli. I jet francesi e la portaerei De Gaulle si coordinano con il comando Nato di Napoli ma non ne dipendono. Ecco perché Parigi ha accettato che la flotta alleata fosse sotto comando italiano. Lo stesso vale per gli elicotteri franco-britannici Apache, Tigre e Gazelle imbarcati sulle portaelicotteri Ocean e Tonnerre che hanno spianato la strada per Tripoli ai ribelli e che sono sotto il controllo di Londra e Parigi.