Facebook sta distruggendo il mito di Vasco?
C'era una volta la comunicazione tradizionale, da uno a molti. Si parlava in contesti ufficiali, annunciati, e tutti gli altri ascoltavano. Sbagliare era difficile. In quel mondo in cui il flusso del messaggio era monodirezionale e l'interazione limitata, un fan arrivava difficilmente a sapere cosa stesse combinando Vasco. Le emozioni erano studiate a tavolino, selezionate e decise da un gruppo di spin doctors. Il giornalista doveva arrivare alla fonte tramite conoscenze e contatti.
di Vincenzo Carbone
C'era una volta la comunicazione tradizionale, da uno a molti. Si parlava in contesti ufficiali, annunciati, e tutti gli altri ascoltavano. Sbagliare era difficile. In quel mondo in cui il flusso del messaggio era monodirezionale e l'interazione limitata, un ammiratore arrivava difficilmente a sapere cosa stesse combinando Vasco. Le emozioni erano studiate a tavolino, selezionate e decise da un gruppo di spin doctors. Il giornalista doveva arrivare alla fonte tramite conoscenze e contatti.
Poi un giorno un universitario americano di nome Mark che portava sempre i sandali di plastica, un cognome complicatissimo, la tshirt spiegazzata, il laptop sottobraccio e si divertiva a citare film con Tom Cruise e a giocare a “beer pong”, si inventò il più grande sistema di condivisione delle informazioni private: Facebook.
“Il gigante in blu” dal 2005 ha raccolto più di 750 milioni di fan, tra cui molti personaggi noti. Vasco negli ultimi tempi è riuscito ad attirare l'attenzione dei vecchi media, i giurassici Tv, Stampa e Web tradizionale, quello solo nominalmente 2.0.
Di solito i “famosi” usano i canali di social networking come una fonte semi ufficiale o di notizie rendendoli un'appendice dei media tradizionali. Date di concerti, notizie sulla lavorazione di album, anteprime e qualche rara informazione personale decisa dall'ufficio stampa. Tra le rare eccezioni il caso delle foto di Martina Colombari su Twitter, gioia degli onanisti internauti o di Alessia Marcuzzi su Facebook che ha “regalato” ai suoi estimatori momenti di vita privata.
Qualche volta degli impostori rubano le identità “social” dei personaggi dello spettacolo, ma ormai le pagine ufficiali hanno sistemi tali per cui la verifica è una prassi. L'esperienza di Corrado Guzzanti è curiosa: incontrava gente per strada che si complimentava per il suo profilo Facebook, di cui erano fan. Peccato che lui non ne sapesse nulla, e a malapena conosceva il sito.
Chi invece non si è fatto tanto problemi di contenuto è il Blasco, il rocker di Zocca, l'idolo della metà degli italiani che divide il pubblico come Berlusconi, estimatori contro detrattori. Stavolta a far parlare è il suo utilizzo, fin troppo disinvolto, del social network più diffuso del mondo. Si è “dimesso da Rockstar”, come ha dichiarato, abbandonandosi al flusso del web sociale. Nemico giurato dell'ipocrisia e delle banalità, ha affidato il suo messaggio a Internet. E lo ha fatto ingenuamente. In una recente intervista a Repubblica ha dichiarato di aver pensato, in passato, che Facebook fosse “una cagata”. Poi ha iniziato a notare le numerose pagine a suo nome e a dialogare con i fan fingendosi il fratello minore. Ora Vasco vede Facebook “come il bar, ma è molto più profondo, sei più sincero, e ho conosciuto degli amici veri”.
I fan sono triplicati rapidamente e i vecchi media-dinosauro si sono affannati alla ricerca dell'ultimo video, l'ultima dichiarazione. E' lo stesso rocker a non capire tanto clamore: “Mi diverte moltissimo, non capisco perché ci sia tutta questa demonizzazione, tutti che mi dicono che esagero, che non dovrei farlo. Invece io mi diverto” ha detto. Ora però gli è sfuggito di mano il mezzo. C'ha preso gusto, inizialmente timidamente. Ha presentato il nuovo singolo “I soliti” come farebbe qualunque altro artista. Si vedeva, almeno all'inizio, la mano del suo ufficio stampa, probabilmente della sua portavoce storica, la mitica Tania Sachs. E' scesa in difesa del suo cliente-amico sulle pagine del sito ufficiale, polemizzando con il “Corriere della Sera” che aveva strumentalizzato un colloquio dell'artista con Fegiz creando allarmismo sulla sua salute. “Ecco il giochino delle tre carte al quale Vasco non vuole più sottostare”, ha scritto.
Il social networking renderà tutto incontrovertibile. Quando Vasco dice in un video pubblicato su Facebook che gli piacciono gli Audioslave, così è. Nessuno potrà smentire. Verrà il giorno in cui qualche politico di spicco perderà la testa per un medium come Facebook, scambiandolo per un giocattolo, e rischierà di farsi male. Basta immaginare cosa avrebbe combinato Berlusconi alle prese con Facebook se avesse avuto 25 anni di meno.
Vasco e il suo staff hanno frainteso la natura del profilo ufficiale del social network che ha rivoluzionato la storia dei media. Si sarebbero dovuto dedicare a Twitter, per vari motivi. Il primo è che Vasco lavora troppo di pancia, e Facebook è pura emozione mentre Twitter è la ragione. Si sarebbe disciplinato meglio. La seconda è che in Italia Twitter è assai poco diffuso, si parla di poche centinaia di migliaia di utenti attivi (davvero) e un paio di milioni di iscritti che cercano le foto in bagno della Colombari o sono curiosi di leggere i tweet di Gianni Riotta, attivo come un diciassettenne sul social network di micro blogging.
La domanda è: Facebook è condivisione? Sì. Ma esiste una parete che non va abbattuta, ed è quella della capacità di uso di un mezzo. Un telefono in mano ad un bambino di 8 anni significa scherzi telefonici. Un computer connesso a Internet a un adolescente lo porta sulla via del porno; uno smartphone a un anziano significa giustificarne l'uso come fermacarte. Il signor Rossi tratta il medium Facebook come la radio, fingendosi un Dj, alternando musica e parole attraverso un iMac e un uso impacciato di un mouse senza fili. “E' come la radio, si parla con tutti", ha detto. Ma non è così quando sei la più popolare delle star italiane e sono tutti pronti a farti a pezzi, a partire dai media-dinosauro. Lasciare Vasco libero di usare Facebook come crede, magari in un momento difficile per lui, significa giustificarne l'abuso. Perché non è nelle sue corde: anagraficamente, culturalmente, socialmente, psicologicamente. Eppure, come direbbe lui, “io sono ancora qua, eh già”.
di Vincenzo Carbone


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