Deputato del Pd spiega cosa vuol dire davvero tagliare i costi della casta

Redazione

In uno dei consueti mattinali anticasta, meritati, che si leggono di questi tempi, tra le sei azioni che la casta potrebbe far subito per ridurre i costi della politica, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella propongono come da vulgata corrente il dimezzamento del numero dei parlamentari, cui, volendo davvero, si potrebbe ecumenicamente giungere fin dalla prossima legislatura.

di Eugenio Mazzarella, deputato del Pd

    In uno dei consueti mattinali anticasta, meritati, che si leggono di questi tempi, tra le sei azioni che la casta potrebbe far subito per ridurre i costi della politica, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella propongono come da vulgata corrente il dimezzamento del numero dei parlamentari, cui, volendo davvero, si potrebbe ecumenicamente giungere fin dalla prossima legislatura. Iscrivendosi autorevolmente alla caccia al parlamentare in corso, fanno in tempo a rammentare la turlupinatura che ne sarebbe venuta alla "gente" dalla proposta antireferendum, fosse stata presa seriamente in considerazione, che ne prevedeva la diminuzione, per i deputati, da 630 a 518 e, per i senatori, da 315 a 252. Una sforbiciata insufficiente. Sul tema corrono varie proposte. Il Pd immagina una riduzione dei deputati a 400 e dei senatori a 200. Calderoli propone numeri semplici da tenere a mente: 250 deputati e 250 senatori. Se bisogna colpire l'immaginazione va bene anche così. Tralascio i vincoli procedurali, dal ridisegno delle circoscrizioni in su, per una riforma del genere, che probabilmente la renderebbe operativa solo nella legislatura successiva alla prossima; e dalle difficoltà politiche.

    L'assumo come realisticamente praticabile
    , e forse pretendo troppo, vorrei ragionare sull'utilità istituzionale di una drastica riduzione del numero dei parlamentari, al netto della sua necessità mediatica per una politica in crisi di legittimazione e a corto di idee. Della serie (nietzscheana): sull'utilità e il danno di questa storia, del taglio dei parlamentari, per la vita delle istituzioni. Come si sa questo taglio o dimezzamento andrebbe accompagnato da una nuova legge elettorale perché i cittadini possano tornare a scegliere i loro rappresentanti. Questo combinato disposto sarebbe necessario per i seguenti motivi: 1. Riportare la politica a migliore espressione di territori e società, ridando ai cittadini la possibilità di scegliere i loro rappresentanti, oggi “nominati”, e ridare mobilità dal basso (leggi turn over : via sempre “le stesse facce”) alla rappresentanza parlamentare: ne avrebbe beneficio la sintonia con il paese; 2. Un Parlamento “dimezzato” avrebbe una migliore funzionalità e di riflesso garantirebbe una maggiore governabilità; 3. Ad ogni modo questo la "gente" vuole, perché costa di meno e bisogna dar segni di resipiscenza dai propri sogni dogmatici di casta. Di questi tre motivi, ritengo l'unico inconfutabile l'ultimo.

    Il problema è se venirgli incontro nei modi della vulgata corrente – anche in presenza di un auspicabile cambio della legge elettorale con un sistema legato ai collegi uninominali, il più difendibile – non sia in contraddizione con i primi due, che sono poi i bisogni reali che strutturano le risentite richieste della “gente”. Provo a spiegare perché. Assumo per dato il taglio della Camera dei deputati a 400, una via di mezzo tra la sforbiciata rimbrottata da Rizzo e Stella e la semplificazione numerologica di Calderoli. Bene. Una coalizione che vincesse con il maggioritario in vigore, tendenzialmente da far vivere, porterebbe a casa 220 deputati. Il partito azionista di maggioranza incasserebbe due terzi dei deputati, diciamo 140. Dovendo garantire il ceto politico nazionale (in vario modo, quota proporzionale, collegi di fascia A tanto per far scegliere agli elettori…) – e questo per motivi anche ovvii perché senza una quota di professionismo politico stabile, “duro”, nessun sistema rappresentativo reggerebbe – e un po' di quote e leader territoriali stabili quanto gli stati maggiori nazionali, un rinnovamento fisiologico del ceto politico parlamentare sarebbe una chimera, riducendosi a una decina di testimonial o poco più.

    A meno che un vincolo rigido
    esterno ai partiti, per legge, impedisse di andar oltre due o tre mandati a chiunque. Con il che però ci sarebbe un turn over significativo, ma a prezzo di perdere competenze politiche professionali consolidate, che per legiferare servono. Anche fare il parlamentare è un mestiere: lo si impara accanto ad altri che lo trasmettono. Da questo lato, dunque niente rinnovamento del ceto politico o niente funzionalità per difetto di esperienza dell'assise. Non solo, ma da suoi numeri troppo bassi, ne verrebbe un ingorgo con la struttura del governo, perché se una sessantina di suoi componenti fossero pescati dai deputati – in questo caso di scuola i migliori scelti nel modo migliore – una maggioranza parlamentare con un terzo dei suoi componenti al governo sarebbe costantemente esposta ad andare sotto nel voto. Rimedio: i membri del governo non possono per legge essere scelti tra i parlamentari, o si dovrebbero dimettere (complicato, perché in ipotesi con i collegi si ritornerebbe al voto in decine di essi; e se il diavolo ci mette la coda e vincono “quegli altri” si altererebbero i numeri parlamentari, con il rischio che la maggioranza nelle “suppletive” diventi minoranza). In definitiva il governo sarebbe espressione solo del premier che pescherebbe in una tecnocrazia esterna alla politica (un governo tecnico permanente), che risponde solo a lui, rafforzandone i poteri e deprivando ulteriormente il ruolo del Parlamento.

    Davvero uno scenario del genere servirebbe agli scopi che si prefigge, o è solo un modo per sfuggire a più costose, per la politica, autoriforme di ceto, accettando che si spari, magari però ai piani bassi, sul quartier generale, che pure se lo merita, senza incidere sulle costose armate dislocate sul territorio? Ho la sensazione che il “Parlamento leggero” rischierebbe la fine del “partito leggero”: un incremento alla deriva populistica della leadership, e a partiti delegittimati si sommeranno istituzioni delegittimate. Ma chissà, ragionandoci su, magari insieme alla “gente”, potrebbero emergere soluzioni istituzionalmente più meditate affrancate dall'urgenza mediatica e demagogica. Magari una Camera dei deputati con gli stessi numeri, e un Senato delle regioni di cento componenti eletto dai consigli regionali ridurrebbe la sventurata nomenklatura romana, come si chiede, ma lo farebbe in modo sensato.

    di Eugenio Mazzarella, deputato del Pd