Paralisi italiana

Ernesto Felli e Giovanni Tria

Mentre il governo tace, occupato a comprendere le implicazioni e i limiti della sua stessa manovra e a seguire i preparativi per la nuova prova di forza (?) sul “processo lungo”, viene molto pompato un appello sottoscritto da quasi tutte le organizzazioni sindacali del lavoro delle imprese e delle banche (manca solo la Uil), con il quale le cosiddette parti sociali invocano una discontinuità nell'azione di governo, o forse del governo, e un patto per la crescita il cui contenuto come sempre accade in questi casi è del tutto sfuggente.

    Mentre il governo tace, occupato a comprendere le implicazioni e i limiti della sua stessa manovra e a seguire i preparativi per la nuova prova di forza (?) sul “processo lungo”, viene molto pompato un appello sottoscritto da quasi tutte le organizzazioni sindacali del lavoro delle imprese e delle banche (manca solo la Uil), con il quale le cosiddette parti sociali invocano una discontinuità nell'azione di governo, o forse del governo, e un patto per la crescita il cui contenuto come sempre accade in questi casi è del tutto sfuggente. Le sigle che hanno firmato l'appello sono infatti rappresentative delle corporazioni che hanno di fatto fino ad oggi bloccato l'azione di riforma necessaria a fare dell'Italia un paese con una economia competitiva. Ossia, le corporazioni che hanno costruito il capitalismo corporativo italiano e continuano a essere impegnate a difesa dell'esistente.

    Naturalmente tutte queste corporazioni dichiarano una vocazione riformista, e forse si autoconvincono di ciò, ma il riformismo richiesto è sempre quello che tocca gli altri ma protegge gli interessi della propria corporazione. Si tratta di un problema non solo italiano, che riguarda con diversi gradi d'intensità un po' tutte le moderne democrazie, comprese quelle anglosassoni come dimostra ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti, una volta patria del capitalismo dinamico e innovativo. Ma questo problema assume in Italia un peso particolare per la debolezza della politica sempre più incapace di affermare la propria indipendenza seppure negoziata con gli interessi particolari. Per dimostrare che queste nostre affermazioni non rappresentano un'invettiva gratuita, basta riprendere il manifesto-programma per la crescita in nove punti pubblicato sul Sole 24 Ore del 16 luglio scorso. Manifesto a cui sembra richiamarsi l'appello di cui stiamo parlando, e sui cui punti gli autori di questo diario, peraltro, concordano. Ebbene la maggior parte delle azioni indicate nei nove punti, a parte quelle che riguardano decisioni di competenza europea sulle quali il governo italiano ha compiti di convincimento degli altri governi degli stati membri, sono bloccate dal potere di veto di una o più delle sigle corporative o, se vogliamo chiamarle in modo politicamente corretto, di una o più delle parti sociali che adesso reclamano la “discontinuità”. La riforma tributaria con un aumento dell'Iva per finanziare la riduzione di imposte dirette e contributi sul lavoro è ostacolata dalla forza elettorale dei rappresentanti dei commercianti. Il piano di liberalizzazioni, sempre dalle stesse sigle con l'aggiunta dei rappresentanti delle professioni ed è aperta la caccia a chi guarda solo alle liberalizzazioni nel campo altrui. L'innalzamento (oggi e non alla data ridicola del 2050) dell'età pensionabile a 70 anni per tutti – punto due del programma per la crescita – ha il veto dei sindacati che chiedono discontinuità. L'aumento delle rette universitarie e l'abolizione del valore legale del titolo di studio provocherebbe l'insurrezione dei sindacati della scuola contro gli attentatori al sacro compito di mantenere in serie A, ma solo sulla carta, tutte le università italiane, anche le più scalcagnate.

    Potremmo continuare ma non abbiamo lo spazio, per entrare ad esempio nel mondo dorato e progressista della corporazione bancaria italiana e dei suoi intrecci incestuosi con quella industriale. C'è solo da notare che una delle poche azioni di riforma adottate, quella della Pubblica amministrazione, stenta a prendere corpo e a produrre effetti perché le parti sociali che chiedono discontinuità la ostacolano in difesa dello status quo. Per non dire della lotta agli sprechi e ai costi eccessivi della Pubblica Amministrazione, che è certamente sacrosanta, ma che non dovrebbe nascondersi la circostanza che dietro molte di queste inefficienze c'è il tornaconto di qualche corporazione privata. I firmatari dell'appello alla discontinuità devono essere quindi consapevoli che i loro veti incrociati sono una delle cause fondamentali della paralisi complessiva.

    Quanto detto assolve il governo? Niente affatto, perché sarebbe compito suo imbrigliare gli interessi corporativi. Ed è questa debolezza del governo e in genere della politica italiana a giustificare quei movimenti esterni che tentano di commissariare di fatto l'Italia, riproponendo il mix old fashion di governo tecnico e tassa patrimoniale. Vale a dire quel miracoloso intruglio di potere irresponsabile, nel senso di “non accountable”, e di prelievo straordinario sulla ricchezza, che serve a liquidare in un colpo solo il problema del debito pubblico e, ahinoi, quello della crescita. Giacché, dall'esterno non si può intervenire sul tasso di crescita ma si può cercare di evitare che l'Italia crei problemi all'Europa, e agli elettori degli altri stati membri, anche “imponendo” azioni dannose per la nostra economia. Ma deve essere chiaro che il commissariamento riguarderebbe il sistema delle corporazioni, e non solo quello della politica.