Non c'è soltanto innocenza perduta nell'eccezione norvegese

Guido De Franceschi

Dall'iniziativa stragista del norvegese Anders Behring Breivik, un'azione sanguinaria dalla genesi ideologica allucinatoria e dall'esecuzione tragicamente lucida, non si può trarre deterministicamente nessun elemento che dica alcunché del paese, la Norvegia, in cui si sono svolti i drammatici avvenimenti.

    Dall'iniziativa stragista del norvegese Anders Behring Breivik, un'azione sanguinaria dalla genesi ideologica allucinatoria e dall'esecuzione tragicamente lucida, non si può trarre deterministicamente nessun elemento che dica alcunché del paese, la Norvegia, in cui si sono svolti i drammatici avvenimenti. Tanto più che, anche applicando alla popolazione totale del paese scandinavo la frase di John Stuart Mill – “Una persona con un credo ha altrettanta forza di centomila persone che non hanno interessi” – utilizzata con spirito deformante dall'attentatore-sparatore come usbergo dei suoi propositi omicidi, in Norvegia le persone con un “credo”, quello “breivikiano”, sarebbero all'incirca 47, cioè per fortuna pochine e statisticamente irrilevanti, almeno finché non imbracciano un fucile e non confezionano un potente ordigno.

    Ciò nonostante, seppure con ogni cautela, è forse opportuno tentare di contestualizzare l'azione criminale di Breivik nel paese che l'ha subita, per districarsi tra le migliaia di analisi che in tutto il mondo hanno cercato di raccontare l'avanzata della destra estrema nel nord Europa, la xenofobia che non risparmia la Scandinavia, la presunta crisi dei modelli di stampo socialdemocratico che ancora plasmano quei paesi e quella sensazione di “perdita dell'innocenza” o di “paradiso perduto” con cui si è giornalisticamente titolato il day after vissuto dalla Norvegia. Un aspetto di qualche rilievo può essere quello della “particolarità norvegese”, in altre parole dalla consapevolezza di essere un paese e un popolo provvisto di un tratto proprio. La norvegesità, interpretata attraverso l'inquietante lente della “purezza”, si affaccia nelle concioni on line di Breivik, preoccupato che il paese tradizionale fosse inquinato e corrotto da innesti allogeni, con il colpevole placet dei socialdemocratici. Seppure con spirito ed esiti del tutto opposti la norvegesità innerva di sé anche le parole del premier Jens Stoltenberg, apprezzate in tutto il mondo: “Sono orgoglioso di vivere in un paese che è riuscito a rimanere unito davanti a una tragedia simile. Sono impressionato dalla nostra dignità e dalla nostra forza. Siamo un paese piccolo ma siamo un popolo fiero. La nostra risposta sarà più libertà e più democrazia, ma ciò non significa più ingenuità”. In altre parole, di fronte a uno stragista che fa un massacro per difendere la sua malata e criminale idea di purezza etnica, il resto del paese, affezionato a un'identità nazionale in cui la particolarità sia una virtù e non un abominio, risponde per bocca del primo ministro proprio con l'orgogliosa promessa di difendere, magari in modo d'ora in poi più dolorosamente occhiuto, proprio l'eccezione norvegese, cioè quel sistema paese fatto di apertura, dialogo, democrazia e libertà, interpretate attraverso la declinazione, propria e riconoscibile, norvegese.

    La particolarità del paese nordico è dovuta a vari fattori. In primo luogo sarebbe sbagliato giudicare come un monolite omogeneo il gruppo di paesi formato da Danimarca, Svezia, Norvegia e Islanda, che pure hanno tanti tratti storici e culturali in comune. Infatti, se l'insularità, la piccolezza demografica e la marginalità geografica dell'Islanda la pongono più esplicitamente in una posizione particolare, qualcosa di analogo, seppur meno visibile, è vero anche per la Norvegia. Se la Danimarca e la Svezia hanno due vere capitali europee di lunga tradizione come Copenaghen e Stoccolma, senza contare altri centri dai tratti decisamente metropolitani come Malmö e Göteborg, e sono da secoli più profondamente integrate nello scacchiere dell'Europa occidentale, la Norvegia, con una capitale assai più defilata come Oslo, una tradizione rurale più longeva e una storia più appartata rispetto al resto del continente, ha nel suo Dna una sorta di insularità virtuale e un'identità che per essere tale ha bisogno di riferirsi a età lontane, saltando a piè pari buona parte dell'età moderna. Tanto che nel periodo tra il 1814 (l'anno in cui la Norvegia riuscì a svincolarsi dal secolare controllo danese per finire nell'orbita della Svezia) e il 1905 (anno in cui divenne pienamente indipendente), il paese scandinavo, nonostante un vigoroso movimento intriso di romanticismo e di una riscoperta nazionalista, ebbe qualche difficoltà a costruirsi un'identità propria. Mentre la Norvegia, nel giro di poche generazioni, offriva al resto del mondo e soprattutto alla cultura europea tre giganti nelle rispettive discipline come Edvard Grieg, Henrik Ibsen e Edvard Munch, al suo interno viveva il faticoso costruirsi di un'idea di sé.

    Interminabile, ad esempio,
    è stata la disputa sulla lingua ufficiale da dare al paese. Tra liti ortografico-lessicali ed estenuanti discussioni, la Norvegia è rimasta in bilico sostanzialmente fino a oggi tra due varianti dell'idioma nazionale, il più diffuso bokmål (la “lingua del libro”, preferita oggi dall'85-90 per cento della popolazione) e il più fragile nynorsk (“nuovo norvegese”, scritto e letto dal 10-15 per cento degli abitanti, ma maggioritario in alcune aree rurali). La particolarità, rispetto a molti altri paesi europei, è che le due varianti non sono idiomi diversi, né idiomi appartenenti a differenti comunità etniche o culturali, ma soltanto il risultato di un controverso processo di normalizzazione linguistica in cui alcuni, i partigiani del bokmål, volevano conservare l'uso colto provvisto della tradizione più solida e di più forti legami con il danese, e altri, gli alfieri del nynorsk, preferivano diluire maggiormente le somiglianze con la parlata degli ex dominatori e dare lustro e ufficialità alle varianti di lessico e pronuncia più genuinamente norvegesi. Questioni di maggiore o minore purezza, insomma.

    Poi venne il petrolio. La scoperta di massicci giacimenti nel Mare del nord trasformò la fino ad allora piuttosto povera Norvegia nell'unico paese europeo in cui il petrolio ha un peso economico determinante. Ma anche in questo caso il paese scandinavo ha operato una scelta che, seppur non condivisa da tutti i cittadini e da tutti i partiti politici, rappresenta un unicum: i proventi del petrolio non vengono spesi ma finiscono perlopiù in una cassaforte statale di cui potranno usufruire le prossime generazioni, nel momento in cui l'estrazione del petrolio dovesse farsi più modesta e quindi merluzzo e salmone tornassero a essere le maggiori (e assai meno remunerative) ricchezze nazionali.

    La presenza poi di un movimento politico come il Partito del progresso, cui lo stesso Breivik è stato iscritto per qualche anno, non può essere rubricata sbrigativamente sotto la dicitura “crescita dell'estrema destra nordeuropea”. Il Partito del progresso, che è guidato da Siv Jensen ed è arrivato secondo nelle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento, sebbene sia impegnato propagandisticamente sui temi del controllo rigoroso dell'immigrazione e dei pericoli derivanti da un'islamizzazione sottotraccia del paese, non è un partito fascistoide ed etnicista ripulitosi per poi riciclarsi come protagonista della scena politica. Le sue origini sono anzi diversissime, essendo nato nel 1973 come movimento antitasse, individualista, liberista, libertario, allergico allo statalismo. Una specie di Tea Party ante litteram, debitore di una tradizione norvegese in cui le fattorie e le comunità di pescatori erano in grado di bastare a se stesse.
    I norvegesi, che abitano una terra dominata dalla propria natura, bellissima quanto selvaggia, scintillante quanto faticosa e ostile, sembrano affezionati alle loro particolarità nazionali e ai loro primati. La Norvegia è il paese che, in proporzione alla popolazione, destina più soldi in aiuti internazionali ed è tra gli stati che accolgono più profughi, atteggiamento che la pone ai primi posti nei cuori progressisti di tutto il pianeta. Eppure, per quanto riguarda il côté più ecologista, ecco che la Norvegia è inserita nella lista dei “nemici” dal medesimo mondo progressista, visto che è tra i pochissimi paesi, insieme all'Islanda e al Giappone, a trasgredire al bando sulla caccia alle balene. Questioni, in entrambi i casi, di eccezionalismo norvegese.

    L'eccezionalismo qualche volta si paga, come ad esempio in occasione del furto di una delle varie versioni del celebre “Grido” di Munch, che fu sottratto nel 1994 dalle sale della Galleria Nazionale di Oslo. I ladri lasciarono un biglietto: “Grazie per gli scarsi sistemi di sicurezza”. Scarsi sistemi di sicurezza probabilmente dovuti, ancora una volta, all'eccezionalità norvegese. D'altronde, Oslo ama fare parte per se stessa. Per ben due volte la popolazione ha rifiutato, seppure non a larga maggioranza, l'ingresso nella Cee prima e nell'Unione europea poi, al contrario di tutti i vicini, esclusa l'Islanda, che però ora sembra intenzionata a tornare rapidamente sui suoi passi. E la Norvegia, in cui tra l'altro si consegna il Nobel per la Pace, grazie alla sua “separatezza” è diventata guida e sede privilegiata per difficili mediazioni internazionali. Il guaio è che in qualcuno il fatto di essere norvegese, e cioè un po' diverso dagli altri, provoca non un'orgogliosa e virtuosa coltivazione delle proprie qualità, ma un avvitamento psicologico alla ricerca della purezza.

    E così se per il sedicente cristiano
    Breivik la linea non oltrepassabile era la presenza di estranei di recente immigrazione, per alcuni protagonisti della celebre scena musicale black metal norvegese – dediti negli anni Novanta oltre che alla produzione discografica anche a qualche omicidio, al bruciare antiche chiese lignee e al satanismo – la purezza norvegese era da ricercare ben più in là, cioè prima dell'arrivo nel paese dell'aborrito e rammollente cristianesimo.
    E quindi ora la sfida della Norvegia, espressa dalle parole del premier, sembra essere quella di difendere la propria particolarità nazionale non dall'“altro” quanto dal “sé” e cioè da chi, nel sanguinario e delirante tentativo di proteggere la propria e altrui norvegesità con la violenza, rischia davvero di distruggerla.