Il nemico del mio nemico

Cinque guerre e un'elezione. L'azzardo di Obama

Redazione

Una guerra necessaria, una sbagliata, una inevitabile, una silenziosa, una umanitaria. Il presidente americano, Barack Obama, ha un bel daffare a definire e distinguere tutte le guerre che si è messo a combattere, lui che era stato eletto perché voleva portare i soldati a casa e perché i pacifisti hanno preso l'abbaglio più grande della loro storia recente (e in effetti sono parecchio innervositi). Mentre decide come liberare l'Iraq (la guerra sbagliata) dalla presenza americana, Obama bombarda con i droni il Pakistan (guerra inevitabile), un po' anche lo Yemen (guerra silenziosa).

Nel Foglio in edicola altri articoli sull'impotenza di Kayani e la scommessa di al Zawahiri.

    Nel Foglio in edicola altri articoli sull'impotenza di Kayani e la scommessa di al Zawahiri.

    Una guerra necessaria, una sbagliata, una inevitabile, una silenziosa, una umanitaria. Il presidente americano, Barack Obama, ha un bel daffare a definire e distinguere tutte le guerre che si è messo a combattere, lui che era stato eletto perché voleva portare i soldati a casa e perché i pacifisti hanno preso l'abbaglio più grande della loro storia recente (e in effetti sono parecchio innervositi). Mentre decide come liberare l'Iraq (la guerra sbagliata) dalla presenza americana – e gli attentati naturalmente si moltiplicano, non c'è manna per i fondamentalisti come una data di ritiro –, Obama bombarda con i droni il Pakistan (guerra inevitabile), un po' anche lo Yemen (guerra silenziosa), apre una base segreta nel Golfo Persico perché al Qaida si sta riorganizzando e bisogna intercettarla prima possibile, e va a caccia del colonnello Muammar Gheddafi a Tripoli (guerra umanitaria, anzi solo umanitaria, perché guerra non si può dire). Il Congresso inizia a scalpitare, discute sui soldi da dare a tutte queste missioni e soprattutto discute dei poteri del presidente, che insiste a non considerare la Libia una guerra perché l'apporto degli Stati Uniti è modesto. Oggi lo speaker della Camera, John Bohener, lo aspetta al varco per quel che riguarda la Libia, il commander in chief è sì potentissimo, ma non è un imperatore, per fare una guerra deve chiedere il permesso al Congresso (oltre che spiegare i motivi della guerra, quale interesse nazionale è in gioco).

    Ma è l'Afghanistan (la guerra necessaria) con il suo eterno e drammatico prolungamento in Pakistan che tiene banco nelle discussioni a Washington. Perché da quando i Navy Seals hanno scovato e ucciso Osama bin Laden, nulla è come prima. La tentazione di andare a casa è tornata fortissima, ora che i soldi mancano e il partito dei falchi in rigore fiscale è potente e pacifista, ora che alcuni sostengono – ascoltati – che a Kabul l'America ormai ci sta per “inerzia”. La prima tranche del ritiro inizia il mese prossimo, ufficialmente, ma un esperto come Andrew Exum, del think tank obamiano Center for a New American Security, dice che le truppe (poche migliaia) dovrebbero iniziare a rientrare dopo l'autunno, quando la neve congela un po' anche la furia talebana. L'ipotesi estrema è quella che sostiene invece di riportare indietro tutte le truppe del “surge”, deciso nel 2010 ma poco efficace (in realtà non c'è mai stato come adesso un calo degli attacchi da parte dei talebani, i quali un po' si spostano in Pakistan e un po' abbandonano i fortini). In mezzo c'è la dottrina Obama, con la sua flessibilità pragmatica, il compromesso da raggiungere inevitabilmente, perché l'anno prossimo si vota, e la sinistra radicale a oggi è perduta.

    In mezzo c'è anche il Pakistan. Mentre si ripetono gli sgambetti reciproci, le ripicche, gli urli e gli ultimatum, i droni americani continuano a colpire il nord del paese e i talebani continuano a colpire obiettivi pachistani. Cioè sul campo si è solo più violenti, mentre negli incontri e nelle telefonate si è solo più freddi. Bloomberg Wiew ieri ha cercato di suggerire gli elementi di un rilancio dei rapporti tra Islamabad e Washington, perché lo stallo prolungato rischia di compromettere ancor più la già rischiosa esistenza dei soldati e degli 007 americani. L'uomo chiave è l'ammiraglio Mike Mullen, il capo del Joint Chiefs of Staff, perché è l'unico ad avere ancora un buon rapporto con il generale pachistano Ashfaq Pervez Kayani (e secondo una conversazione avuta con lo staff di Bloomberg View, Mullen è uno dei pochi a credere che il Pakistan voglia ancora buoni rapporti con gli Stati Uniti). Obama dovrebbe mandare Mullen a Islamabad con un messaggio chiaro: la collaborazione serve a entrambi, fate un passo indietro sul caso Bin Laden, dateci tutte le informazioni che ci servono, così per noi sarà più facile resistere alle pressioni del Congresso che vogliono smetterla con questa farsa dell'alleanza. In cambio l'America potrebbe cedere qualcosa sul fronte dell'India – sostiene Bloomberg View – limitandone il coinvolgimento nelle questioni afghane. Ma il mandato di Mullen non durerà ancora a lungo, il Pakistan farà fatica – anche volendo – a dimostrare buona fede e l'India non toglierà facilmente le mani da Kabul. Soprattutto se vacilla l'unico interlocutore a Islamabad, il generale Kayani, il resto dell'apparato istituzionale pachistano è ormai perduto.