Perché il rischio della Lega è rinchiudersi nell'urlo di Pontida

Redazione

Da Milano a Pontida sono circa 40 chilometri. Ma in macchina ci si possono mettere anche due ore. Vicine? Lontane? Intanto non siamo più in terra ambrosiana. L'Adda è appena superato; e forse il don Lisander faceva passare non lontano di qui Renzo, che con i fasti del Carroccio non aveva nulla a che fare. Eppure la passerella che domenica 19 giugno verrà allestita – ventun anni dopo il primo raduno – nel solito campo del piccolo comune bergamasco dovrebbe tener conto di Milano. Più di sempre.

di Marco Barbieri

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    Da Milano a Pontida sono circa 40 chilometri. Ma in macchina ci si possono mettere anche due ore. Vicine? Lontane? Intanto non siamo più in terra ambrosiana. L'Adda è appena superato; e forse il don Lisander faceva passare non lontano di qui Renzo, che con i fasti del Carroccio non aveva nulla a che fare. Eppure la passerella che domenica 19 giugno verrà allestita – ventun anni dopo il primo raduno – nel solito campo del piccolo comune bergamasco dovrebbe tener conto di Milano. Più di sempre. Più di quando la kermesse ancora primitiva, dalla terra di Bergamo-nazione poteva persino infischiarsene del capoluogo di regione. Soprattutto oggi, nelle ore indecifrabili e spericolate che seguono i referendum. La seconda sberla. Più sonora di quella del voto amministrativo, non foss'altro per la confusione che ha svelato sovrana anche sotto il cielo verde della Lega di Bossi. O delle Leghe che rispuntano divise per colonnelli, come una ventina d'anni fa erano divise per territori.

    Ma ripartire da Milano può essere utile e opportuno per l'orizzonte leghista, dopo aver incassato le divisioni e i distinguo referendari dei Maroni, dei Fontana, degli Zaia e dei Tosi. Perché del voto di Milano deve preoccuparsi più la Lega che il Pdl. E di quello di Milano più che di quelli di Novara o Gallarate. Nella provincia del nord, la Lega ha pagato sì la sua stagione di governo nazionale, ma anche e soprattutto la sua ingordigia di poltrone. “Siamo più preoccupati di perdere le municipalizzate che i voti”, ha detto cinicamente un sommo leader leghista dopo il primo turno delle ultime elezioni amministrative. Cinismo alla romana, in chi ha fatto dello slogan “Roma ladrona” il suo enzima elettorale. Lega ladrona? Basta azzardare la parafrasi per capire la crisi dei lumbard? L'ostilità a Roma ha costruito un progressivo consenso nelle terre del nord. Prima nelle valli, nella provincia, poi anche nelle città, nei capoluoghi. Fino a Milano. Appunto.
    Chiariamo subito: Milano non è mai stata leghista, nonostante i quattro anni di ilarità di Marco Formentini, sindaco verde liquidato dopo un mandato, con un trattamento analogo solo a quello riservato a Letizia Moratti. Ma quella è preistoria. La storia – fino a ieri – è stata fatta di una progressiva crescita del consenso leghista proprio negli ambienti meno rissosi della borghesia lombarda. Benpensante e da sempre autonomista, nel senso ambrosiano del termine. Dove nemmeno il carnevale è uguale agli altri. Dove pure la liturgia e il messale sono diversi. Dove non sono bastate le cannonate di Bava Beccaris, direbbero gli allievi di Gianfranco Miglio. Milano si era tardivamente, ma progressivamente affezionata al leghismo. Come sa fare Milano: con garbo persino eccessivo, con misura, con quello stile che non a caso si pretende dalla capitale internazionale del design. L'autonomia ambrosiana è meno urlata di quella “lumbarda”, meno esibita di quella venetista, ma radicata in quello snobismo imprenditoriale e finanziario che ha reso partecipe anche la classe operaia, a Milano mai ostile ai suoi “padroni”. Anche la Milano socialista – dei sindaci Aniasi e Tognoli – era autonomista (dal Pci). Craxiana.

    La Lega ha perso i milanesi per colpa di Internet? C'è un po' di vero, nel peso del Web e del social networking (come metodo più che come medium) ai fini elettorali. Ma c'è anche molto del vezzo modaiolo, cui Milano non sa sottrarsi, come le sue signore chic che ogni tanto ti arrotano la erre, senza riuscire a farla veramente moscia. E' la morte della tv che ha fatto cadere Berlusconi nella sua Milano? Ma non diciamo sciocchezze. Non c'è più la tv del maestro Manzi, ma lei, la “televisiun” come diceva Enzo Jannacci, “la gh'a na forsa de leun”. Ancora oggi. E i leghisti non hanno mai fatto dipendere dalla tv la loro forza. Hanno vissuto da sempre fuori dall'ombra mediatica, nella “rete” non virtuale; quella dei bar di paese e dei treni dei pendolari; quella della piazza e delle mense aziendali. La Lega ha la radio, che insieme al telefono ha creato e crea la vera rivoluzione partecipativa dei paesi e dei meno inclusi. Radio Padania è un social network.
    L'ultima novità della Lega – dopo quella primizia del 1990, nelle province lombarde e non solo – non è stata tanto la collerica e barbarica reazione popolare al Palazzo romano. La vera novità leghista – che si è manifestata con gli ultimi successi elettorali dal 2008 al 2010 – è apparsa quando si è ricomposta nel profondo e radicato municipalismo della cultura sociale italiana. Al localismo delle province del nord si è aggiunto – con un salto di qualità – l'autonomismo profondo, quello irriducibile, che viene prima del colore politico. E' quell'autonomismo che si respira a Milano come nell'Emilia Romagna. Ma che a Milano si è coniugato da tempo con la solidità di una capitale. Autonoma, orgogliosamente diversa, non per ostilità, ma per supremazia. Questo localismo allargato ha fatto cambiare pelle alla Lega negli ultimissimi anni. E a Bossi sembrava riuscito il miracolo di far convivere il voto di lotta e di protesta con quello di governo e di opinione. Se dopo questa stagione – breve, ma radicalmente nuova – la Lega si rinserra nel prato sacro di Pontida rischia di essere finito anche il suo sogno. Il voto di opinione di Milano aveva dato alla Lega un respiro adulto. Una prospettiva nazionale proprio perché fortemente autonomista. Se la Lega torna “allo spirito di Pontida” si rinchiude, nel migliore dei casi, nel recinto delle specie protette. Tra Milano e Roma la Lega aveva cominciato a sottrarre a Berlusconi l'elettorato d'opinione, quello più volatile, ma a maggior valore aggiunto.
    L'autonomismo di Milano è profondo. Né ribelle, né di facciata. Tantomeno di occasione. Quando a Milano si sente il sapore di Roma – intesa come metafora del potere cinico e autoreferenziale – scatta la disaffezione. Milano si innamora lentamente e si disamora in fretta. E a Milano nelle amministrative, così come in Italia con i referendum, hanno vinto gli spiriti autonomisti, quelli insofferenti agli ordini centrali.

    La Lega di Umberto Bossi ha avuto il merito in questi ultimi anni di emanciparsi dai separatismi improbabili per concentrarsi sull'autonomismo possibile. Nulla a che fare con la volgarità – tutta romana, potremmo dire da sprezzanti milanesi – di volersi portare a casa i ministeri. Nulla a che fare con una indecente riscossa anti fiscale motivata da un paio di cartelle esattoriali pesanti (ma non pazze) recapitate ad altrettanti leader leghisti. Se la Lega non capisce la lezione autonomista di Milano (e dei referendum) e la riduce all'urlo localista, finirà a Pontida, più o meno come è cominciata. Una efficace forza d'urto e di disturbo per un Paese sull'orlo di una crisi di nervi. Potrà giocare una sua partita ancora importante in una nuova stagione proporzionalista. Ma per le ambizioni di un governo “rivoluzionario” ci vuole altro. Non basta tornare a sbraitare il localismo territoriale. Ci vuole una fedeltà autonomista che solo Milano sa capire. E se non la condivide, vuol dire che forse non c'è più.

    di Marco Barbieri

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