L'Economist ha fregato i suoi lettori
L'Economist è un giornale molto serio. E' letto in tutto il mondo. Orienta l'establishment finanziario. Ha influenza politica. E' sconsigliabile trattarlo con sufficienza o ignorarlo. Ma pare di capire che stavolta ha screwed, ha fregato i suoi lettori. Il giornale di Londra ha appena pubblicato, dieci anni dopo i servizi di copertina ispirati all'idea che si dovesse bloccare l'ascesa al governo di Berlusconi, “inadatto a guidare l'Italia”.
L'Economist è un giornale molto serio. E' letto in tutto il mondo. Orienta l'establishment finanziario. Ha influenza politica. E' sconsigliabile trattarlo con sufficienza o ignorarlo. Ma pare di capire che stavolta ha screwed, ha fregato i suoi lettori.
Il giornale di Londra ha appena pubblicato, dieci anni dopo i servizi di copertina ispirati all'idea che si dovesse bloccare l'ascesa al governo di Berlusconi, “inadatto a guidare l'Italia”, un nuovo rapporto sul nostro paese. Un lavoro complesso, non privo di inaccuratezze (Rodolfo De Benedetti, per esempio, non gestisce affatto l'impero editoriale del padre, dal quale è invece piuttosto distante), ma di grandi ambizioni: lo scavo dello sfondo storico italiano, le fonti abbastanza ampie (ma non sempre utilizzate con proprietà, come nel caso del direttore di questo giornale), le interviste, i dati sull'industria, sulla crescita, sul mercato del lavoro, sul tasso di natalità, sul risparmio, sul sistema bancario, e naturalmente sul debito e i conti pubblici e privati dell'economia. Metteremo al lavoro, dopo aver dato rapidamente conto del survey sull'Italia, specialisti in grado di scavare nello scavo per informare bene i nostri lettori, con il massimo distacco, sui risultati di quel lavoro giornalistico.
Il primo giudizio, partendo dall'editoriale in cui il settimanale londinese cerca di portare a sintesi il suo rapporto, è negativo. A Berlusconi è dedicata antipatia, anzi una inimicizia non priva di risentimento verso la persona. L'impressione è quella di un arcigno insider che si liberi con fastidio del fantasma di un outsider. Non c'è alcun tentativo di capire nel profondo la natura del fenomeno che il berlusconismo ha rappresentato. Le sue origini nella crisi della Repubblica dei partiti, che produsse l'inestinguibile debito pubblico di cui si parla come remora alla crescita, intanto. Ma non è seriamente indagato lo spazio storico che Berlusconi ha occupato per anni, i suoi apporti riformatori di sistema, il carattere del consenso che ha sollecitato e organizzato e quelli del dissenso che ha provocato. Non c'è un'analisi convincente della forma reale del potere italiano: dal peso fragile dell'esecutivo al preponderante fattore di governo materiale impropriamente rivestito, contro ogni logica occidentale di mandato maggioritario, da forti poteri cosiddetti neutri, che hanno le loro responsabilità nello stato di fatto critico in cui questo paese si trova. Non c'è un esame sensibile e penetrante della funzione dei sindacati e della Confindustria, e della battaglia interna ai sindacati e allo stesso potere industriale (il caso Marchionne) sul modello di contrattazione adatto alla crescita. Non c'è un'analisi responsabile e informata della questione maggiore del sistema italiano contemporaneo: il rapporto anomalo, patologico, tra giustizia e politica, un potentissimo fattore di condizionamento sull'autonomia delle istituzioni elettive, che intorno a Berlusconi ha creato meccanismi di paralisi civile, ma non ha risparmiato nemmeno la capacità delle opposizioni, una volta diventate governo, ed è successo per tre volte (Dini, governi dell'Ulivo, governo dell'Unione), di sortire comportamenti seri di governabilità e di crescita riformatrice.
Alcuni risultati dei nove anni su diciassette in cui Berlusconi ha governato vengono riconosciuti. Ma questo rende ancora più incongrua la diagnosi univocamente infausta dell'Economist e le sue conclusioni. I Tremonti e i Sacconi e i Maroni e i Marco Biagi sono storicamente creature del ciclo berlusconiano, ciascuno con la propria sensibilità e cultura politica, e se i conti italiani sono migliori di quelli francesi di gran lunga, e se il mercato del lavoro è stato riformato con risultati riconoscibili sul piano dell'occupazione, e se la riforma delle pensioni è tra le migliori d'Europa, e se… e se…, tutte cose che il giornale inglese riconosce, questo non può essere considerato estraneo a Berlusconi o almeno a ciò che Berlusconi ha rappresentato. Le stupidaggini a cui il lead del settimanale indulge sul bunga-bunga non sono nemmeno degne di essere commentate. Lo scandalo delle feste di Arcore un giorno sarà ricordato come il penoso effetto di una accanita e faziosa tendenza della magistratura e del circuito mediatico a violare le regole del gioco e la privacy di un uomo pubblico che rivendica il proprio spazio privato con noncuranza e libertà, in circostanze radicalmente diverse da quelle in cui è incappato il beniamino dell'Economist, il socialdemocratico liberaleggiante e potente insider dell'establishment pro market Dominique Strauss-Kahn, l'uomo a cui la sinistra e i liberal europei, e lo stesso conservatorismo light dell'Economist, ha più o meno concesso lo status di “eroe filosofico”.
L'impressione è che il rapporto sia politicamente inquinato dal pregiudizio, dal partito preso, dalla necessità di inseguire senza equanimità e apertura mentale sufficienti i giudizi di una copertina di dieci anni fa, disattesi dalla realtà, che è il critico più radicale del lavoro giornalistico. Diciamo tutto questo sapendo che il nucleo forte del rapporto dell'Economist, e cioè un paese che cresce meno dei suoi concorrenti, che ha un tasso di competitività negativo, che non ha risolto problemi strutturali di condizionamento corporativo e conservatore dell'economia, è fondato, ed è il punto sul quale molti italiani che hanno scelto Berlusconi contro una inesistente alternativa politica e di programma sono infinitamente delusi.


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