La frustata al cavallo arabo
Alla sola vista delle manifestazioni di piazza, gli autocrati arabi hanno reagito come un sol'uomo: prima di affidarsi alla repressione armata, ognuno di loro, nessuno escluso, ha fatto ricorso infatti alle stesse leve di politica economica e ha annunciato dosi aggiuntive di spesa pubblica, optando ora per sussidi ora per assunzioni di personale nel settore statale. Il presidente tunisino Zine el-Abidine Ben Ali, subito prima di fuggire dal paese a fronte dei moti di piazza, ha promesso che avrebbe aumentato il numero di posti di lavoro e ridotto d'imperio i prezzi dei beni di consumo primari.
“Vessare la proprietà privata significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più, riducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi. Una volta privati della speranza di guadagnare, essi non si prodigheranno più. Gli attentati alla proprietà privata fanno crescere il loro avvilimento. Se essi sono universali e se investono tutti i mezzi di esistenza, allora la stagnazione degli affari è generale, a causa della scomparsa di ogni incentivo a lavorare”.
Ibn Khaldun (XIV secolo)
Alla sola vista delle manifestazioni di piazza, gli autocrati arabi hanno reagito come un sol'uomo: prima di affidarsi alla repressione armata, ognuno di loro, nessuno escluso, ha fatto ricorso infatti alle stesse leve di politica economica e ha annunciato dosi aggiuntive di spesa pubblica, optando ora per sussidi ora per assunzioni di personale nel settore statale. Il presidente tunisino Zine el-Abidine Ben Ali, subito prima di fuggire dal paese a fronte dei moti di piazza, ha promesso che avrebbe aumentato il numero di posti di lavoro e ridotto d'imperio i prezzi dei beni di consumo primari. Il raìs egiziano, Hosni Mubarak, prima di lasciare il palazzo presidenziale del Cairo per rifugiarsi altrove, ha garantito che avrebbe innalzato i salari degli impiegati pubblici e le pensioni. La stessa ricetta avanzata da Ali Abdullah Saleh in Yemen. Muammar Gheddafi ha dispiegato le sue truppe per reprimere l'insurrezione nella parte orientale della Libia, ma solo dopo aver promesso di incrementare gli stipendi statali del 150 per cento. In Siria, il ministro delle Finanze, Muhammad al-Hussein, ha annunciato un piano per creare ulteriori 10.000 posti nella Pa, oltre ai 63.000 già preventivati in base alla finanziaria attuale, per un costo di 18 miliardi di dollari; contemporaneamente il ministro degli Interni, Sa'id Surour, ha ipotizzato l'assunzione di 20.000 persone nel suo dicastero, e il ministro della Giustizia, Ahmed Hamoud Yunis altre 4.377 persone. Il re Abdullah dell'Arabia Saudita, infine, ha fatto le cose ancora più in grande: ha garantito l'elargizione immediata di 93 miliardi di dollari – tra innalzamento del minimo salariale nel settore pubblico e sussidi di disoccupazione –, oltre alla creazione di 60.000 nuovi posti di lavoro nella macchina amministrativa del regno. In sintesi, come ha scritto James Surowiecki, columnist economico del settimanale New Yorker, “i leader, innervositi, sono stati più inclini a corrompere la popolazione per comprarsi la quiete che desiderosi di offrire riforme reali”. Mostrando così di non capire, però, che nella piazza araba le aspirazioni libertarie e democratiche si nutrono anche di una diffusa insofferenza verso un sistema economico strutturalmente asfittico e poco inclusivo.
“Le rivoluzioni non possono procedere senza adeguate opportunità economiche”, ha dichiarato in compenso ieri il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, illustrando tra l'altro un piano di sostegno economico ai paesi dell'area. Un legame, quello tra il successo delle sommosse di piazza e l'andamento dell'economia, finora un po' sottovalutato da alcuni osservatori. I quali hanno forse dimenticato che già nel 1977, per esempio, quando il governo egiziano ridusse drasticamente i sussidi per gli alimenti – l'opposto dunque di quel che avviene oggi – tale azione generò significativi aumenti di prezzo per prodotti di base come il pane e il riso, e fu all'origine di violente sommosse nel paese. “Nel momento in cui gli scontri terminarono – ha ricordato Annia Ciezadlo su Foreign Affairs – centinaia erano gli edifici bruciati, 160 le persone morte, e il presidente egiziano, Anwar Sadat, aveva imparato una lezione essenziale per ogni moderno dittatore arabo che volesse mantenersi in sintonia con i propri cittadini: ‘Consentigli di mangiare il pane. Tanto pane a buon mercato'”.
Pane a buon mercato è esattamente il programma di politica economica che, nel momento dell'emergenza di piazza, i leader arabi tentano di attuare in queste settimane. Non a caso, lo studioso Larbi Sadiki ha parlato di “democrazia del pane”, “dimuqratiyyat al-khubz”: “Essenzialmente la sua premessa principale è questa: i governatori arabi post indipendenza si sono visti corrispondere un certo grado di deferenza politica da parte dei loro popoli in cambio della fornitura di servizi finanziati dai soldi pubblici come l'educazione, la sanità, oltre all'impegno dello stato ad assicurare l'occupazione. La deferenza politica è stata offerta in cambio di khubz, o pane, dove il termine è usato in senso generico per indicare tutta una serie di servizi gratuiti”. Altri studiosi preferiscono l'espressione più omnicomprensiva di “capitalismo patrimoniale”, ovvero “una forma di capitalismo non di mercato” – sostiene il politologo tedesco Oliver Schlumberger – che “emerge in quelle situazioni nelle quali il controllo politico sull'economia è altamente concentrato e dove le modalità informali di interazione tra lo stato e il mondo degli affari dominano sulle regole formali e sulle leggi”. La sostanza resta la stessa: le turbolenze di questi mesi hanno dimostrato che la costituzione economica di molti paesi arabi, pur avendo garantito a lungo la stabilità di tali regimi, non può essere definita un successo.
Sul carattere asfittico del capitalismo locale ci sono pochi dubbi.
La crescita anemica dell'area è stata certificata anche dall'ultimo Arab Human Development Report, quello del 2009, a partire dal dato dell'evoluzione storica del prodotto interno lordo: “In base ai dati della Banca mondiale, il pil pro capite dei paesi arabi è cresciuto di un mero 6,4 per cento nei 24 anni che vanno dal 1980 al 2004 (ovvero meno dello 0,5 per cento di crescita ogni anno)”. Sempre secondo l'organizzazione internazionale nata a Bretton Woods, tra il 2003 e il 2006 i paesi dell'area mediorientale e nordafricana sono poi cresciuti a un tasso medio annuo del 6,2 per cento, facendo segnare così la loro migliore performance da 30 anni a questa parte. Il dato, che tra l'altro è aggregato e non pro capite, si riferisce a un arco di tempo piuttosto limitato e riflette in ampia parte un aumento straordinario dei prezzi del petrolio, salito infatti dai 24-29 dollari a barile del 2003 ai 51-66 dollari del 2006.
A rendere la miscela più esplosiva è stato il carattere poco inclusivo del modello capitalistico arabo, come sottolineato da uno dei pochi autorevoli economisti che si sia applicato al tema della cosiddetta “primavera araba” in queste settimane: Edmund Phelps, premio Nobel per l'Economia nel 2006. Ricostruendo le vicende di questi mesi, Phelps ha ricordato come le manifestazioni in Tunisia che lo scorso 14 gennaio hanno portato alle dimissioni di Ben Ali, il primo autocrate arabo a cadere, siano iniziate subito dopo il 17 dicembre 2010, giorno in cui il giovane Mohamed Bouazizi si diede fuoco per protesta: “Bouazizi stava vendendo verdure sulle strade di Sidi Bouzid – ha scritto Phelps – quando la polizia gli ha confiscato la sua bancarella sulla base del fatto che gli mancavano i permessi necessari. Non potendo permettersi le licenze e l'acquisto di una nuova bancarella, la vita di Bouazizi è stata in questo modo distrutta. Il giovane, infatti, non aveva altro modo per sostenersi”. Nella Tunisia di Ben Ali, ha spiegato Phelps nel suo intervento per il Financial Times scritto a quattro mani con Saifedean Ammous (Lebanese American University), “quasi tutte le attività economiche, non solo la vendita di verdura per le strade, erano sotto la supervisione del regime”. Evidenziare che la libertà economica nei paesi dell'area è regolarmente soffocata non è questione accademica: “L'assenza di inclusione nell'economia di mercato patita dalle persone più povere era una grave ingiustizia – osserva infatti Phelps – milioni di Bouazizi, incapaci di ottenere un posto in un mercato del lavoro controllato dallo stato e impossibilitati a iniziare un'attività senza avere le giuste connessioni, hanno trovato impossibile divenire membri produttivi della società”.
In questi paesi, anche quando si è trattato di portare avanti programmi di privatizzazione e liberalizzazione, come avvenuto negli anni Novanta, “l'obiettivo dei governanti arabi e delle loro clientele – ricorda Schlumberger – è stato quello di mantenere il potere politico per controllare non soltanto le conseguenze politiche, ma anche quelle economiche in un mondo destinato a cambiare rapidamente a fronte di enormi sfide economiche”. Tale logica, quella del “capitalismo patrimoniale”, ha fatto sì che i governi dell'area siano divenuti tanto politicamente repressivi quanto economicamente invasivi e distruttivi. L'imponenza del settore pubblico, con annesso frequente ricorso alla discrezionalità delle autorità a fini politici, è uno dei caratteri salienti del sistema capitalistico patrimoniale. Le dimensioni ipertrofiche della burocrazia statale nei paesi considerati sono evidenti: basti dire, per esempio, che in Egitto il 35 per cento della popolazione in età lavorativa è alle dipendenze della Pubblica amministrazione; in Giordania oltre il 50 per cento, e la media attraverso tutta la regione è di circa il 30 per cento. Eppure non mancano gli studi che dimostrano una correlazione significativa tra il successo economico dei paesi emergenti e il numero relativamente contenuto di impiegati pubblici , né – come visto – mancano le prove di un tasso di sviluppo relativamente modesto nei paesi arabi. Non solo: oramai quando si tratta dell'invadenza dello stato, non è più da considerare il solo controllo totale e quotidiano da parte del governo. Infatti “la leadership politica”, come spiega Ian Bremmer riferendosi alla categoria più ampia di “capitalismo di stato” – nella quale l'analista annovera anche potenze come la Cina e la Russia –, oggi sempre più “si avvale della mediazione di una serie di istituzioni”. Strumenti come per esempio “le grandi società petrolifere (e del gas) pubbliche, altre imprese di proprietà statale, i campioni nazionali privati e i fondi sovrani”. Arabia Saudita, guardacaso, docet: “La famiglia reale – scrive Bremmer nel suo “La fine del libero mercato” – vive e prospera utilizzando gli imponenti ricavi del petrolio (288 miliardi di dollari nel 2008) per comprare la fedeltà politica dei cittadini. Dipendere dal petrolio significa essere legati mani e piedi alla società di stato Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo. Il bilancio e l'operatività dell'Aramco sono soggetti alla supervisione del ministero del Petrolio e delle risorse minerarie e di un ‘consiglio supremo' presieduto dal re in persona”.
Gli investitori internazionali sono i primi a rendersi conto del terreno di gioco “truccato”, e non a caso i paesi arabi sono quelli destinatari della quota più modesta di investimenti diretti esteri in tutto il mondo. Tra 1990 e 2000, per esempio, solo l'1 per cento degli investimenti diretti esteri del pianeta sono stati destinati all'area. Ma se gli investitori internazionali si possono facilmente tenere alla larga, i nativi non possono che avere a che fare tutti i giorni con la discrezionalità insita nella costituzione economica di questi paesi. La storia del giovane tunisino Bouazizi, che si è dato fuoco perché vessato dalle forze dell'ordine e perché impossibilitato a procurarsi legalmente una licenza per operare, sarà simbolica ma non per questo meno significativa. E' un episodio paradigmatico di un tessuto economico sclerotizzato e con scarse occasioni per i giovani outsider; d'altra parte anche due economisti di Yale come Ian Ayres e Jonathan R. Macey hanno individuato proprio nella legislazione farraginosa e ampliamente discrezionale che regola qualsiasi attività imprenditoriale uno dei fattori principali che è alla radice del carattere poco innovativo di questi paesi. “La vera precondizione per la crescita economica”, sintetizzano i due giuristi, “consiste nella tolleranza – da parte del sistema legale e della società – di un ipotetico fallimento” . La creazione di istituti giuridici come la società a responsabilità limitata (l'italiana Srl) “manda un segnale agli imprenditori”, allo stesso tempo delimitando la responsabilità personale degli stessi, contenendo i costi potenziali di un investimento andato male, e neutralizzando quanto più possibile lo stigma sociale associato con un fallimento. “Quando lo stato rende semplice e non costoso l'accesso a forme di responsabilità limitata, quindi, segnala di voler incoraggiare la possibilità di prendersi dei rischi”. Esattamente l'opposto di quel che avviene in molti paesi arabi, i quali impongono ancora troppi ostacoli a chi voglia creare una piccola impresa senza entrare nel rigoglioso mercato nero. Così, se negli Stati Uniti e in Europa i requisiti di capitale per fondare una società a responsabilità limitata sono azzerati o prossimi allo zero, in Arabia Saudita nel 2005 ci volevano 533 mila dollari di anticipo per fondare l'equivalente di una nostra Srl, 700 mila dollari in Giordania, 65 mila dollari nel più “liberista” Oman. Sarebbe d'altronde “irrazionale” per i gruppi al potere incoraggiare la piccola imprenditorialità, notano Ayres e Macey: “Un numero crescente di piccole imprese condurrebbe infatti alla crescita di una classe media che a sua volta genererebbe pressioni destabilizzanti a favore di riforme democratiche. Senza contare che le nuove imprese aumenterebbero la competizione ai danni delle società esistenti che, per definizione, forniscono sostegno politico alla classe di governo attuale”. In sintesi, ancora una volta: gli ostacoli burocratici sono funzionali al mantenimento del potere da parte delle attuali élite al governo. Il capitalismo c'è soltanto finché può essere domato a piacimento in base alla discrezionalità di uno stato piuttosto invasivo; sarebbe errato parlare di libero mercato.
L'impatto più macroscopico di questo stato delle cose sulle società arabe è costituito dal livello elevato di disoccupazione. “La disoccupazione”, si legge nell'ultimo Arab Human Development Report che cita dati consolidati e antecedenti la crisi economica mondiale, “è una fonte significativa di insicurezza economica nella maggior parte dei paesi arabi”. Secondo un rapporto pubblicato dall'International Finance Corporation, in collaborazione con Banca Mondiale e Islamic Development Bank, il tasso di disoccupazione dei giovani arabi (25 per cento) è “il più alto al mondo”; i tassi di partecipazione dei giovani alla forza lavoro sono tra i più bassi al mondo (circa 35 per cento contro una media globale del 52 per cento); e tale situazione è associata a una “perdita economica secca che supera i 40-50 miliardi di dollari ogni anno in tutta l'area”, una cifra pari all'intero pil di paesi come la Tunisia o il Libano. Senza considerare poi che “per quanto questi dati sulla disoccupazione siano preoccupanti, essi potrebbero non rendere la gravità del problema in paesi in cui i cittadini tentano con qualsiasi mezzo di sostentarsi nel momento in cui non trovano un posto di lavoro permanente”. Per questa ragione, “le definizioni di ‘disoccupazione' che vanno bene per il mondo sviluppato sono di rilevanza limitata per gli stati arabi, dove sono sufficienti poche ore a settimana di lavoro per far sì che qualcuno venga depennato dalla lista dei disoccupati”. E a parità di condizioni la pressione demografica, almeno per i prossimi decenni, non farà che aggravare la situazione.
Anche Masood Ahmed, direttore del Fondo monetario internazionale per il Dipartimento medioriente e Asia centrale, ha sostenuto che la prima lezione che viene dalle rivolte di piazza nei paesi arabi è innanzitutto economica: “Gli eventi recenti hanno portato improvvisamente alla luce il bisogno di una crescita inclusiva e di una governance migliore”. Il successo duraturo dei sussulti libertari arabi, insomma, passa per una rivoluzione del modello economico dominante.
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