C'era una volta lo smart power
Il raid di Abbottabad non può essere estrapolato dal romanzo dell'Amministrazione Obama e ripubblicato come fosse un racconto a parte. Per il gioco dei simboli e anche le sue proprietà lenitive segna chiaramente un prima e un dopo, ma nel metodo è parte integrante di una strategia – forse anche una dottrina – sulla quale Obama ha modellato la politica estera americana. E così, anche al tempo delle guerre belle e umanitarie, delle mani tese, del multilateralismo poco arrogante e dei tiranni rovesciati a un certo punto arriva il momento di fare i conti.
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Il raid di Abbottabad non può essere estrapolato dal romanzo dell'Amministrazione Obama e ripubblicato come fosse un racconto a parte. Per il gioco dei simboli e anche le sue proprietà lenitive segna chiaramente un prima e un dopo, ma nel metodo è parte integrante di una strategia – forse anche una dottrina – sulla quale Obama ha modellato la politica estera americana. E così, anche al tempo delle guerre belle e umanitarie, delle mani tese, del multilateralismo poco arrogante e dei tiranni rovesciati a un certo punto arriva il momento di fare i conti. E i conti dicono che il presidente degli Stati Uniti sta mettendo in un angolo le parti più molli della diplomazia per affidarsi a strumenti più efficaci per amministrare quel potere americano che anche per volontà presidenziale è sceso, almeno a livello d'immagine, dal podio di superpotenza ineffabile.
Nel discorso pronunciato al Cairo nel 2009, quando piazza Tahrir era soltanto una piazza, Obama ha citato Thomas Jefferson per spiegare la sua idea del potere americano nel mondo: “Spero che la nostra saggezza cresca assieme al nostro potere, e ci insegni che il nostro potere sarà tanto più grande quanto meno lo usiamo”. Depurata dall'enfasi, la massima si riduce alla dottrina dello “smart power”, una bella idea che il segretario di stato, Hillary Clinton, ha portato avanti come la condizione necessaria per rifondare l'America dopo i disastri di George W. Bush e che ora è arrivata davanti allo specchio del suo fallimento. “Smart power” è la forma evoluta di “soft power”, vecchia categoria che indica tutti i mezzi non coercitivi o militari di cui l'Amministrazione dispone per affermare la sua politica a livello internazionale.
Aprire nuove sedi diplomatiche, dare contributi ai governi alleati, fornire assistenza quando ci sono emergenze umanitarie, finanziare scambi culturali, favorire i commerci, fare convegni, mostre, cene, aperitivi e qualunque altra cosa possa dare lustro alla causa americana nel mondo è soft power. Se viene messo a sistema, opportunamente finanziato e proposto come paradigma complessivo diventa “smart”, potere intelligente, il contrario dei bicipiti scolpiti con cui Washington si è presentata e impantanata in Iraq e Afghanistan. Lo “smart power” è una peculiarità della diplomazia, un'evoluzione intelligente di quell'arte che tende a evitare che i rapporti con le altre potenze si stabiliscano a colpi di scimitarra o con le minacce e la deterrenza nucleare. A volte, le parole vengono stirate a tal punto da far rientrare nella definizione anche le “operazioni militari cinetiche” con cui per il bene dell'umanità l'America interviene in accordo con la comunità internazionale, eventualità note anche con il nome di guerre. Nel linguaggio circospetto di Washington anche la Libia può finire sotto il cappello ambiguo dello “smart power”.
Il problema è che lo “smart power” costa, e quando a Washington è in corso una guerra di Palazzo (ed elettorale) per tagliare il budget e – chissà, un giorno – mettersi sulla strada della riduzione del debito, questa bella strategia dal volto umano passa immediatamente sotto la voce “cose che sarebbe bellissimo fare ma che possiamo rimandare”. Nelle settimane intricate delle trattative per un accordo sulla Finanziaria tra la Casa Bianca e i repubblicani alla Camera, lo “smart power” è stata la prima delle vittime sacrificate sull'altare del realismo economico. Otto miliardi di dollari tagliati (su un budget complessivo che si aggira attorno ai 60 miliardi) sono il compromesso che il dipartimento di stato ha dovuto accettare per evitare lo “shutdown” del governo, politicamente poco appetibile per la Casa Bianca, e che in termini concreti significa meno aiuti ai governi stranieri, strutture diplomatiche più ossute e un abbassamento generale del profilo civile di Washington nel mondo. Un potere un po' meno “smart” e molto più “soft”. “Questi tagli significativi al dipartimento di stato e ai programmi per l'assistenza internazionale significano che non saremo in grado di raggiungere alcuni degli ambiziosi obiettivi contenuti nella proposta di budget fatta dal presidente”, ha scritto un dolente Dan Pfeiffer, consigliere della Casa Bianca, dopo la decisione. Per il Pentagono, invece, il tempo delle vacche magre deve ancora arrivare. Il segretario della Difesa in partenza, Bob Gates, ha ottenuto i finanziamenti che servono per tirare avanti le attività ordinarie con un incremento superiore rispetto alla serie storica degli anni di Bush. Il bilancio per i prossimi dieci anni è di 5.800 miliardi di dollari, cioè 580 miliardi l'anno, il 23 per cento in più rispetto a quanto stanziato dal predecessore di Obama e l'incremento della spesa per la difesa aumenta del 45 per cento se paragonato al decennio 1991-2001. Senza contare i finanziamenti straordinari con cui Washington paga le guerre in Afghanistan e Iraq.
Eppure, quando Obama un paio di settimane fa ha annunciato che il Pentagono dovrà tagliare 400 miliardi, il portavoce di Gates, Geoff Morrell, ha regito con una certa sorpresa: “Altri tagli alla Difesa non potranno essere fatti senza tagliare in modo significativo anche le nostre effettive capacità militari”. Possibile che il presidente degli Stati Uniti imponga una riduzione “significativa” delle capacità militari del suo paese prendendosi un rischio per la sicurezza nazionale? E possibile che ne parli in una conferenza stampa senza prima essersi consultato con il suo ministro della Difesa? Difficile, in effetti. In realtà, contrariamente ai tagli per il dipartimento di stato, quelli della Difesa non sono, in termini reali, tanto pesanti quanto i numeri suggeriscono. Si parla, sulla carta, dei 400 miliardi di cui diceva Obama più altri 100 che Gates si è impegnato a tagliare eliminando gli sprechi che inevitabilmente si accumulano in un dipartimento pachidermico come quello della Difesa. Ma nel bilancio del Pentagono viene considerato per intero il costo di ogni singolo progetto, anche se di fatto al momento di presentare le tabelle è appena iniziato e sarà realizzato completamente nel giro di venti o trent'anni. Se oggi, ad esempio, il governo spende un miliardo per iniziare un sistema di radar che complessivamente costa 100 ma sarà attivo soltanto nel 2030, gli economisti del Pentagono riportano 100 nella colonne delle uscite, e non solo il miliardo effettivamente sborsato. In questo modo si possono fare lievitare i numeri complessivi per far sembrare i tagli particolarmente drastici. Il Project on Defense Alternatives ha ricostruito i tagli in termini reali: 162 miliardi di dollari spalmati nei prossimi vent'anni, meno di un quarto di quanto dichiarato dall'Amministrazione per mostrarsi bella e umanitaria a tal punto da non rinunciare a un colpo di forbice all'economia della guerra.
Questo non significa che Obama non sia attento alla disciplina fiscale anche quando si tratta del Pentagono. Molti analisti leggono nella scelta di Leon Panetta come successore di Gates la volontà di sistemare i conti: l'uscente direttore della Cia è cresciuto politicamente lavorando ai bilanci del Congresso prima e della Casa Bianca poi e la fama di eminenza grigia se l'è costruita soltanto più tardi, quando Bill Clinton l'ha nominato chief of staff. Il suo arrivo al Pentagono s'intona perfettamente con la lotta sulla spesa pubblica che occupa gran parte delle energie di Washington. Semplicemente, quando si tratta di sicurezza nazionale l'Amministrazione ragiona in termini di efficienza, il che significa, stringi stringi, che i soldi per lo “smart power” possono essere tagliati a cuor leggero, quelli del Pentagono no.
Brian Katulis, analista di politica internazionale dell'obamiano Center for American Progress, dice al Foglio che all'interno dell'Amministrazione “gli argomenti di chi vuole stanziare altri fondi per lo smart power non sono credibili. Non c'è nessun favore a livello politico, ma soltanto un generico sostegno intellettuale del dipartimento di stato”. E a Foggy Bottom non c'è nemmeno più Richard Holbrooke, uno dei grandi avvocati della dottrina “intelligente”, morto improvvisamente a dicembre dell'anno scorso. “Ma anche quando c'era lui – ricorda Katulis – non è che ci fossero molte speranze di portare avanti un progetto di diplomazia allargata. Ai tempi della Bosnia e del Kosovo era diverso: allora lui faceva davvero gli accordi, negoziava, dettava la policy all'Amministrazione. Era diplomazia assistita dalla forza, mentre ora è esattamente il contrario. Gli uomini del Pentagono prendono le decisioni che contano davvero e il loro budget complessivo è triplicato rispetto al 2000”. Le osservazioni di Katulis su Holbrooke e sulla debolezza del dipartimento di stato rispetto alla catena di comando militare sono confermate anche dalla lunga inchiesta scritta da Ryan Lizza sul New Yorker, entrata immediatamente nella classifica delle cose più lette alla Casa Bianca. Lizza scrive che Holbrooke era sommamente rispettato a Foggy Bottom ma non aveva un canale diretto con Obama, tanto che una delle rarissime volte che lo ha incontrato faccia a faccia alla Casa Bianca per convincerlo a non aumentare le truppe in Afghanistan il presidente ha fatto esattamente il contrario.
Sulla rivista Foreign Policy il politologo Joseph Nye, uno dei teorici dello “smart power”, ha scritto un accorato appello al Congresso perché non ratifichi l'accordo politico fra il presidente e i repubblicani alla Camera. Nye inanella argomenti intuitivi: l'America in questi ultimi anni ha mostrato il suo potere muscolare nel mondo – dice – il che è legittimo e anzi, l'iniziativa militare è una delle fonti più autorevoli del potere, ma nondimeno l'America, bastione della democrazia e altare del diritto, ha come orizzonte ultimo quello di promuovere i suoi valori universali nel mondo; e, scrive Nye, “la democrazia, i diritti umani e la società civile non si promuovono con una canna di fucile”. Il risultato di questa politica sbilanciata verso Marte è per Nye “una politica estera che conta su un gigante della difesa circondato da dipartimenti nani”.
All'articolo di Nye ha risposto l'ex diplomatico Ken Adelman, un falco repubblicano che ha lavorato gomito a gomito con Donald Rumsfled ma poi si è ricreduto sulla politica estera dell'Amministrazione Bush ed è passato a essere un fan di Obama. La sua obiezione è radicale: non solo lo “smart power” non è “smart”, ma non è nemmeno un vero “power”. “Nel 1981 – scrive Adelman – quando sono stato nominato ambasciatore presso l'Onu, ho creato un algoritmo sul computer per capire se nel mondo c'era una correlazione fra la ricezione di fondi dagli Stati Uniti e le scelte politiche di questi stessi paesi. Quello che cercavo di capire era: tutti questi soldi sono serviti a comprare la loro lealtà? Il computer dell'era di Neanderthal mi ha sputato il risultato: no”. Tutti i miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno versato, in termini di progetti per la cooperazione, aiuti umanitari, armi, strutture e tutto quello che fa “smart power” non sono serviti a convincere i beneficiari a stringere vere alleanze con gli Stati Uniti e nemmeno, per dire, a far votare le risoluzioni Onu in linea con l'America. Il 95 per cento dei paesi che ricevono soldi americani ha sempre votato – e non si vede perché dovrebbe smettere l'abitudine – contro il parere dell'America su qualsiasi argomento. Molti di questi paesi, anzi, hanno somatizzato il passaggio di denaro come un atto dovuto dell'America e ormai i loro leader protestano presso le ambasciate se la loro quota annuale non incrementa quanto quella del vicino.
La farsa suprema dello “smart power” si sta consumando in Pakistan. Islamabad ha ricevuto dal 2001 18 miliardi di dollari, assistenza militare, scambi agevolati di persone e conoscenze e protezione politica; certo, i pachistani hanno dovuto tollerare i droni nel Waziristan – che tuttavia non sono bombardamenti a tappeto sulle città ma operazioni mirate sui rifugi talebani – ma non hanno né dimostrato qualche interesse a cooperare contro i terroristi – i servizi segreti di Islamabad sono storicamente una depandance talebana – né di avere a cuore la protezione di Washington. Gli ufficiali chiedono un risarcimento pari a cinque volte la somma che hanno ricevuto per i danni economici causati dalla guerra nel confinante Afghanistan e vogliono gli altri 7,5 miliardi di dollari che Washington aveva promesso. E c'è di più: qualche settimana fa il premier, Rafa Gilani, ha incontrato il presidente afghano, Hamid Karzai, per convincerlo a scaricare gli Stati Uniti e a guardare a Islamabad, Mosca e Pechino come rifugi sicuri per costruire un futuro per Kabul. Dopo l'imbarazzo supremo di Abbottabad, con gli onnivedenti militari pachistani che si sono trovati a recitare la parte dei finti ingenui che nulla sapevano di quel compound spurio dove stavano Bin Laden e i suoi, il Congresso ha iniziato a protestare in modo esplicito e sia da destra sia da sinistra arrivano rischieste di bloccare quei soldi che hanno comprato soltanto la slealtà di Islamabad.
Oltre ad Afghanistan e Pakistan, nella classifica dei paesi più pagati dagli americani ci sono Israele, Iraq, Egitto, Sudan e Territori palestinesi, i quali – Israele a parte – non sembrano particolarmente interessati a stabilire un rapporto amichevole con Washington, ma al massimo a mantenere una situazione di equilibrio forzato. In Iraq, nonostante gli annunci formali c'è ancora una guerra; l'Egitto di Mubarak era un alleato per modo di dire, quello che verrà potrebbe esserlo ancora meno, date le intese che si stanno creando con l'Iran; il Sudan – paese che il fu Bin Laden conosceva bene – non ha relazioni diplomatiche con l'America, che con una mano foraggia il regime di Omar al Bashir, con l'altra lo sanziona; la Cisgiordania e Gaza non disdegnano il miliardo di dollari che arriva da Washington e in cambio fanno qualsiasi cosa contro l'impero del male.
Discorso diverso per Israele, alleato al di sopra di ogni sospetto, ma i 2,5 miliardi che incassa ogni anno (con incrementi regolari, fino ad ora) non hanno cambiato l'opinione pubblica, che giudica questa Amministrazione una delle peggiori di sempre, sentire peraltro riflesso dal primo ministro, Bibi Netanyahu, che con Obama ha avuto molti momenti di freddezza e pochi di soddisfazione. “Abbiamo speso molto – ammette Katulis – ma raggiunto pochissimi risultati. Era iniziato tutto con i grandi propositi della ‘transformational diplomacy' di Condoleezza Rice, poi si è tornati a una versione più edulcorata che serve ben poco gli interessi degli Stati Uniti”. E' per questa diffusa impressione di inefficacia che Obama ha cambiato l'intera scenografia della sicurezza nazionale, militarizzando la diplomazia e investendo ovunque su raid, incursioni, bombardamenti mirati, intelligence militare. L'operazione di Abbottabad è dunque la rappresentazione sontuosa di una regola, non l'eccezione riservata unicamente al principe del terrore. Dal Pakistan allo Yemen, fino a Libia ed Egitto, l'Amministrazione sta mettendo risorse e uomini in un grande progetto che è l'opposto simmetrico dello “smart power”, il quale ormai giace riverso fra le braccia di Hillary Clinton, mentre Obama va a braccetto con i pilastri della sua diplomazia de facto: il generale Petraeus, presto alla Cia, e il tessitore dell'operazione di Bin Laden, Leon Panetta, presto al Pentagono.
Lo “smart power” è una dottrina pulita che va bene a tutte le età e latitudini; è generosa ai limiti alla prodigalità e forse ha persino a che fare con il principio kantiano del disinteresse. Ma questo zuccheroso pacchetto di principi non va d'accordo nemmeno con il presidente delle belle parole, quello del cambiamento e della mano tesa, della speranza e della storia che si dispiega sotto i nostri occhi; dovendo scegliere, Obama si tiene stretto il vecchio “hard power” e butta nel fiume tutto il resto, anche se “smart”.
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