I candelotti di Ciancimino jr

I pm di Palermo, un po' nervosi, cercano un'exit strategy dal pataccaro

Redazione

E meno male che il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, ritiene “non convincenti” le spiegazioni date da Massimo Ciancimino sul tritolo ritrovato nel giardino di casa del figlio dell'ex sindaco, condannato per mafia e corruzione.

Leggi gli altri articoli del Foglio sul caso Ingroia-Ciancimino

    E meno male che il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, ritiene “non convincenti” le spiegazioni date da Massimo Ciancimino sul tritolo ritrovato nel giardino di casa del figlio dell'ex sindaco, condannato per mafia e corruzione. Perché se Messineo la pensa in un modo, il suo sostituto Nino Di Matteo, intervistato dal Fatto di ieri, alla domanda “lei non pensa a una messa in scena?”, risponde testualmente: “C'è molta superficialità nel dare per certo che l'esplosivo se lo sia messo lui. Noi continuiamo a indagare e l'ipotesi della minaccia a me pare abbia almeno la stessa plausibilità dell'altra”.

    Massimo Ciancimino dunque divide non solo le procure di Palermo e Caltanissetta, ormai ai ferri corti, nonostante i tentativi di Messineo di nascondere il sole con una rete, ma anche all'interno dell'ufficio inquirente palermitano emergono posizioni divergenti. Chi crede più al condannato per riciclaggio e fittizia intestazione di beni, divenuto per incanto il supertestimone di tutte le indagini sulla storia d'Italia, una volta che ha provato a mascariare con un copia e incolla l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro? Chi ci crede, dopo che si è fatto sorprendere dall'arresto in Emilia, mentre teneva in giardino, in Sicilia, 13 candelotti di dinamite, 21 detonatori e diversi metri di miccia? E che vale dire che li ha fatti scoprire lui? Che figura ci avrebbe fatto se la perquisizione fosse stata più accurata e a trovare l'esplosivo fossero stati gli investigatori?

    La procura di Palermo è dunque alle prese con una difficilissima “exit strategy” rispetto alle tante fanfaronate di Ciancimino junior. Antonio Ingroia, lo stratega del gruppo inquirente che da tre anni gestisce il pentimento meno convincente della storia (dopo quello di Vincenzo Scarantino, seguito dal pm Di Matteo, quando a Caltanissetta indagava sulla strage Borsellino), non può mollare d'emblée l'uomo che ha contribuito a far assurgere all'anomalo ruolo di oracolo dell'antimafia. Tuttavia non può nemmeno insistere nella difesa a oltranza di chi, con le sue balle, ha screditato la procura palermitana, passata – nella migliore delle ipotesi – per credulona.

    Per dirla con le parole di Di Matteo, “non si può buttare il bambino con l'acqua sporca” e non “considerare carta straccia tutto quello che, con grande fatica, è stato acquisito sulla trattativa stato-mafia”. Certo, finora Ciancimino non aveva fatto partorire altro che iscrizioni nel registro degli indagati (prossimo candidato, dopo il generale Mario Mori, che risponde di concorso esterno in associazione mafiosa, l'ex ministro Nicola Mancino) ma nessun processo, nessun rinvio a giudizio, nessun arresto e nessun sequestro di beni.

    La procura si prepara a chiedere al Parlamento l'autorizzazione all'utilizzo delle intercettazioni che riguardano i politici, ritenuti impicciati in una vicenda di corruzione: Carlo Vizzini, Saverio Romano, il defunto Totò Cintola, il carcerato Totò Cuffaro. Questo è il primo e forse unico risultato della “collaborazione” di Ciancimino, che però, a detta unanime di Messineo e Ingroia, non è un collaboratore. E allora che cosa è? Ciancimino, sostengono magistrati e giornalisti che gli restano ancora devoti, “ha fatto ritrovare la memoria” a personaggi delle istituzioni. A ben guardare, solo due: Claudio Martelli, che non ha mai trovato abbastanza memoria per spiegare se nel 1987, quando la mafia decise di votare per il Psi in Sicilia e lui era capolista, ci fu o non ci fu un qualche accordo con i capi di Cosa nostra. In compenso Martelli ha ritrovato la memoria contro Andreotti, contro Mori, contro Mancino: mai contro se stesso. L'altro smemorato è Luciano Violante, che ha ricordato solo che Mori gli parlò di una volontà di Vito Ciancimino di incontrarlo e di parlargli.

    Tutto qui. Non è certo moltissimo. E non è sicuramente per merito di Massimo Ciancimino che si stanno aprendo gli scenari della vera trattativa, quella del 1993, l'anno delle bombe di Roma, Firenze e Milano e degli inspiegabili annullamenti e revoche del carcere duro ai mafiosi. Ma don Vito era in galera e dunque di queste cose non ne sapeva niente. Un altro tormentone di Massimuccio era stato il “papello”, la lista delle richieste di  Riina allo stato, per far cessare le stragi. “L'ho preso da una cassetta di sicurezza in Liechtenstein”, aveva detto il figlio di don Vito, quando lo portò in fotocopia ai pm, due anni dopo averne parlato per la prima volta. Dal Principato hanno però risposto che nella banca da lui indicata non c'era una cassetta di sicurezza intestata a Ciancimino padre o figlio o a società a loro riconducibili. Un altro mistero, direbbe Di Matteo. Un'altra balla, direbbe il suo capo.

    Leggi Candelotti in giardino - Leggi L'insabbiamento del caso Ciancimino è già in pieno corso di Giuliano FerraraGuarda la puntata di Qui Radio Londra Il vergognoso caso Ingroia-Ciancimino-Santoro