Cosa resta del rigoroso “approccio laico” del pm Ingroia a Ciancimino jr

Candelotti in giardino

Redazione

All'udienza del processo Mori, oggi a Palermo, Massimo Ciancimino non ci sarà. Avrebbe dovuto chiarire alla Quarta sezione del tribunale palermitano le allusioni alla presunta trattativa tra stato e mafia presenti nei dattiloscritti del padre, che chiamerebbero in causa il generale Mario Mori, l'ex comandante del Ros dei carabinieri che arrestò Totò Riina. Ciancimino jr, però, è stato trattenuto in Emilia dal gip di Parma, Alessandro Conti, che ha convalidato il suo arresto.

Leggi L'insabbiamento del caso Ciancimino è già in pieno corso di Giuliano FerraraGuarda la puntata di Qui Radio Londra Il vergognoso caso Ingroia-Ciancimino-Santoro

    All'udienza del processo Mori, oggi a Palermo, Massimo Ciancimino non ci sarà. Avrebbe dovuto chiarire alla Quarta sezione del tribunale palermitano le allusioni alla presunta trattativa tra stato e mafia presenti nei dattiloscritti del padre, che chiamerebbero in causa il generale Mario Mori, l'ex comandante del Ros dei carabinieri che arrestò Totò Riina. Ciancimino jr, però, è stato trattenuto in Emilia dal gip di Parma, Alessandro Conti, che ha convalidato il suo arresto. Il figlio dell'ex sindaco di Palermo deve spiegare com'è che il documento perno della trattativa tra stato e mafia, l'elenco dei tredici protagonisti del “Quarto livello” da lui consegnato, fosse grossolanamente falsificato e cosa ci facessero tredici candelotti di dinamite dietro i serbatoi del suo giardino, insieme a ventuno detonatori e svariati metri di miccia.

    L'avvocato di Ciancimino jr, Francesca Russo, chiederà che il suo assistito sia trasferito nel carcere di Palermo, e c'è quasi da augurarselo. La lontananza dalla città natale sembra non giovare al figlio di don Vito, che ai diffidenti pm di Caltanissetta non risponde, mentre a quelli di Palermo, più propensi a valorizzarlo, ha affidato un fiume di rivelazioni sensazionali. Un bel contributo per il pm Ingroia, che si trova per la seconda volta a esercitare la pubblica accusa in un processo contro il generale Mori, dopo aver chiesto al giudice di archiviare il procedimento. Il primo processo, quello per la mancata o ritardata perquisizione del covo di Totò Riina, si è concluso con l'assoluzione di Mori e del capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio.

    Nel processo in corso, invece, il generale è accusato di avere impedito la cattura di Bernardo Provenzano nove anni prima che venisse bloccato una volta per tutte dalla polizia. La testimonianza di Ciancimino jr, su questo punto, è decisiva: “Provenzano godeva di un'immunità territoriale che gli veniva dall'accordo stipulato, nel '92, pure grazie al contributo di mio padre”, ha detto ai magistrati di Palermo. Il motore della trattativa? Il signor Franco (o Carlo), un potentissimo e misterioso agente dei servizi al quale Ciancimino jr ha col tempo dato un nome (l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro), con l'aiuto di un documento (l'elenco del “Quarto livello”) che si è ormai rivelato palesemente farlocco.

    Fino a pochi giorni fa, però, la procura di Palermo riteneva che le rivelazioni di Ciancimino jr fossero attendibili, a costo di rompere il sodalizio con i magistrati di Caltanissetta, molto più scettici rispetto alle sue rivelazioni. Non importa che ad accusare De Gennaro siano gli appunti di Vito Ciancimino, che era stato pesantemente danneggiato dalle indagini che l'ex capo della polizia svolgeva al fianco di Giovanni Falcone. Non importa che Ciancimino jr  sia tutt'ora indagato per concorso in associazione mafiosa dalla stessa procura di Palermo. Il procuratore aggiunto Ingroia era ricorso al suo peculiare “approccio laico”, un “vaglio critico rigorosissimo” che lo avrebbe messo al riparo da eventuali raggiri, quali, ad esempio, una lista taroccata con un banale copia e incolla.

    Ingroia, purtroppo per lui, non è nuovo a sviste di questo tipo. Non si era accorto, ad esempio, di dividere la stanza con un maresciallo della Finanza, Giuseppe “Pippo” Ciuro, che faceva la spia per conto di Michele Aiello, un imprenditore condannato per associazione mafiosa. Fino all'indagine del 2003 Ingroia non aveva sospettato niente: con Ciuro (e il giornalista Marco Travaglio) c'andava in vacanza e all'impresa di Aiello aveva affidato alcuni lavori al suo casolare di Calatafimi. Sono sviste che possono azzoppare una carriera, ma non quella di Ingroia, che è riuscito, non si sa come, a mantenere una fede incrollabile nel suo intuito. Lui, come ha scritto, nel suo “Nel labirinto degli dei” (Il Saggiatore, 2010), aveva colto al volo “il peso criminale” di don Vito perché, “certe cose noi siciliani le percepiamo subito”.

    Lui aveva capito che Massimo “era fatto di tutt'altra pasta”, riconoscendogli la tempra di chi “per riscattare la propria immagine ha sfidato la legge dell'omertà che il padre mai aveva osato violare”. Poco importa se, per riciclarsi “icona dell'antimafia”, Ciancimino jr abbia distribuito con noncurante larghezza il marchio infamante del mafioso al presidente del Consiglio, all'ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino o a due uomini d'arme come il generale Mori e il prefetto De Gennaro. Per la gestione del testimone Ciancimino, Ingroia non si scusa. Si arroga, per proprietà transitiva, i meriti storici della sua procura. Come diceva un anno fa, “credo che i pm di Palermo, che hanno avuto maestri come Falcone e Borsellino, sappiano come si fanno le indagini”.

    Leggi la puntata di Nove colonne Ecco i pizzini veri usciti dall'uovo di Ciancimino jr - Leggi L'insabbiamento del caso Ciancimino è già in pieno corso di Giuliano Ferrara - Leggi L'ultima balla - Leggi Peccato per il libro che santificava Ciancimino jr, con prefazione di Ingroia - Guarda la puntata di Qui Radio Londra Il vergognoso caso Ingroia-Ciancimino-Santoro