Gli azionisti della Compagnia di Trieste e le dimissioni di Geronzi
Breve guida sulla madre delle battaglie finanziarie consumata in Generali
Meglio una presidenza di sistema o flussi di cassa più abbondanti? Su cosa sia preferibile per Generali, anzi per i suoi azionisti, il Financial Times non ha dubbi. Per questo ieri, nella sua Lex Column, il quotidiano finanziario inglese sosteneva che la Compagnia “merita un destino migliore” di quello riservato dalla presidenza di Cesare Geronzi, con il suo tentativo di “romanizzare la società di Trieste”. Parole che in mattinata, dopo le dimissioni presentate dal banchiere romano, sono sembrate d'un tratto anticipatrici.
Meglio una presidenza di sistema o flussi di cassa più abbondanti? Su cosa sia preferibile per Generali, anzi per i suoi azionisti, il Financial Times non ha dubbi. Per questo ieri, nella sua Lex Column, il quotidiano finanziario inglese sosteneva che la Compagnia “merita un destino migliore” di quello riservato dalla presidenza di Cesare Geronzi, con il suo tentativo di “romanizzare la società di Trieste”. Parole che in mattinata, dopo le dimissioni presentate dal banchiere romano, sono sembrate d'un tratto anticipatrici. L'interesse del quotidiano della City per la partita in Generali, d'altronde, si capisce considerato che il gruppo italiano è una delle principali realtà assicurative e finanziarie sulla scena internazionale.
Fondata nel 1831, la Compagnia è presente in 68 paesi con 85 mila dipendenti di cui circa 16 mila in Italia. Oltre a consolidare la leadership nel nostro paese, nel 2010 ha visto aumentare il numero di premi sottoscritti dai clienti (per un totale di 73,1 miliardi di euro, un incremento dell'11,7 per cento) più degli altri concorrenti europei, tra i quali si contano la tedesca Allianz (che resta al primo posto in Europa con una raccolta per 101 miliardi) e la francese Axa (91 miliardi di euro).
Ma è sufficiente passare in rassegna la struttura azionaria delle Generali per comprendere il perché delle tentazioni sistemiche.
Tra i grandi azionisti del Leone primeggia Mediobanca, con il 13,47 per cento del capitale. La banca d'affari – nel cui azionariato svetta Unicredit – un tempo condivideva il governo della Compagnia con Lazard, mentre oggi ha a che fare con “una mezzadria di nuovi soci eccellenti”, ha scritto Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera: in Generali, infatti, oltre alla Banca d'Italia (4,49 per cento), ci sono il fondo Blackrock (2,82), gruppo De Agostini (2,43), gruppo Caltagirone (2,24), Effeti (2,27), controllata dalla finanziaria Ferak e dalla Fondazione Crt che esprime il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, e altre personalità come Leonardo Del Vecchio (che si è recentemente dimesso dal cda) e Petr Kellner, finanziere ceco.
Ma a Trieste c'è un portafoglio di partecipazioni cruciali da cui deriva la tentazione di tirare i fili del sistema capitalistico italiano. Se si esclude l'attività assicurativa, Generali ha innanzitutto una quota in Mediobanca (ne detiene il 2 per cento). Non solo: è presente in Pirelli (4,41 per cento), Gemina (3,6 per cento), ed è il primo socio italiano di Telco, finanziaria che controlla Telecom.
Tra le partecipazioni storiche, all'interno di patti di sindacato, c'è quella in Rcs Mediagroup, casa editrice del Corriere della Sera. Il consigliere Diego Della Valle, nei due mesi di polemiche che hanno preceduto la giornata di ieri, aveva proposto che il Leone rinunciasse a un suo ruolo in Rcs, ma il cda a febbraio ha lasciato cadere la richiesta pur ribadendo che nessuna partecipazione è strategica. Tanto basta per capire perché la madre di tutte le battaglie finanziarie, in Italia, non poteva che essere combattuta a Trieste.
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