I forum del Foglio

Dove va la primavera araba?

Redazione

Il Foglio ha organizzato un forum sulla guerra di Libia, sulla necessità (o no) dell'intervento internazionale, sul futuro del colonnello Gheddafi e soprattutto sulla strategia da applicare nei confronti di un mondo arabo in rivolta. Paola Peduzzi, responsabile della redazione Esteri, ha moderato il dibattito tra Giuliano Zincone, collaboratore del Foglio e del Sole 24 Ore, Stefano Menichini, direttore del quotidiano Europa, e Massimo Boffa, giornalista e collaboratore del Foglio.

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    Il Foglio ha organizzato un forum sulla guerra di Libia, sulla necessità (o no) dell'intervento internazionale, sul futuro del colonnello Gheddafi e soprattutto sulla strategia da applicare nei confronti di un mondo arabo in rivolta. Paola Peduzzi, responsabile della redazione Esteri, ha moderato il dibattito tra Giuliano Zincone, collaboratore del Foglio e del Sole 24 Ore, Stefano Menichini, direttore del quotidiano Europa, e Massimo Boffa, giornalista e collaboratore del Foglio.

    Paola Peduzzi. In queste ore, sotto la protezione dei bombardamenti, i ribelli in Libia stanno combattendo a Sirte, città natale di Gheddafi, e hanno preso il controllo del petrolio. Il comando militare dell'operazione internazionale ora è passato alla Nato, il presidente americano Barack Obama ha preparato un discorso sulla guerra in corso e oggi a Londra si discute una via diplomatica per iniziare la fase due della campagna libica. Alla riunione partecipano tutti i paesi coinvolti, e il presidente francese, Nicolas Sarkozy, continua a voler gestire la guerra riservandosi ampi spazi di manovra. A questo punto, prima che inizino i negoziati, si può dire che questa guerra è stata utile, efficace, che sta raggiungendo i risultati prefissati?

    Giuliano Zincone. Sta vincendo la parte dei “volonterosi”, capitanata da Sarkozy. Quindi se si voleva ottenere solamente la caduta di Muammar Gheddafi, tecnicamente siamo sulla strada giusta. Se invece si voleva ottenere la democrazia, bisogna sapere cos'è la democrazia in una regione tribale come quella libica o nelle varie regioni del mondo. Sono concetti che variano da situazione a situazione (si parlava di democrazia anche nella Repubblica democratica tedesca) e che comunque non possono essere garantiti. Non possiamo sostenere di essere a favore della democrazia nei confronti di un dittatore sanguinario, quale Gheddafi è diventato anche agli occhi occidentali, senza guardare anche al passato. Gheddafi non era sanguinario quando il suo paese veniva accolto alla presidenza del Consiglio dei diritti umani dell'Onu né quando l'Italia, con voto bipartisan, ha stipulato un trattato di amicizia con la Libia in cui i due stati si promettevano rispettivamente nessuna ingerenza, né era sanguinario fino a quando sui barconi che arrivavano a Lampedusa non c'erano i libici. Per il futuro, c'è grande confusione, non sono nemmeno sicuro che ci possa essere una riunificazione della Libia.

    Peduzzi. A questo punto Gheddafi non può più restare a Tripoli o ha ancora qualche possibilità di rimanere al potere?
    Zincone. Credo che un'azione diplomatica, anche raffinatissima, non potrebbe riuscire a tenere Gheddafi al suo posto. Potrebbe ottenere, anche se sarà difficile, un salvacondotto. In genere noi occidentali portiamo la democrazia uccidendo il cattivo. In più la sindrome della padella e della brace è sempre in agguato – penso alle delusioni passate, la rivoluzione in Iran fu festeggiata come una vittoria, la cacciata del tiranno, da tutta la sinistra italiana, e all'inizio arrivò un governo laico, ma poi la situazione peggiorò incredibilmente. Non dico che ora, con i ribelli, la situazione sia peggiorata rispetto al regime di Gheddafi, ma non è detto che un domani la situazione non peggiorerà. Temo che possa accadere come al solito: si forma una grossa coalizione contro un nemico e all'interno di questa coalizione prevale sempre il gruppo più cattivo.

    Boffa. Non esistono guerre giuste, esistono casomai guerre più o meno giustificate dalle circostanze, dagli obiettivi e dai risultati a lunga scadenza. L'intervento in Libia non è giustificato né dalle circostanze né dagli obiettivi perseguiti né dai risultati che fin da oggi è possibile immaginare. L'avanzata dei ribelli protetti dai bombardamenti della coalizione internazionale dimostra che la giustificazione umanitaria era una finzione già dall'inizio. E' sempre più chiaro che l'intervento non è un'operazione di polizia internazionale, non ha come obiettivo quello di difendere i civili in pericolo, come dice la risoluzione dell'Onu, ma quello di aiutare una parte, i ribelli, a vincere contro Gheddafi. Con un colossale imbroglio mediatico, avviato da al Jazeera, cui hanno collaborato anche i media occidentali, una guerra civile iniziata con una rivolta armata è stata presentata come una guerra di liberazione popolare contro il tiranno e poi si è imposta l'idea, smentita anche dai fatti di questi giorni, che solo uno dei contendenti usasse la forza. E poi, siamo sicuri che Gheddafi prima fosse un nostro nemico? Io non credo. Gheddafi non aveva mire espansionistiche destabilizzanti, era un tirannello imprevedibile, violento, capriccioso e dispotico.

    Peduzzi. Insomma, ha invaso i paesi vicini più volte, il Ciad per esempio.

    Boffa.
    Ma c'è un ultimo Gheddafi, quello che durante la seconda guerra del Golfo, per evitare di fare la stessa fine di Saddam, aveva deciso di accettare un patto con l'America e l'occidente per rinunciare agli armamenti nucleari, e oggi l'occidente lo vuole ugualmente abbattere. Da tutta questa vicenda traspare un messaggio velenoso: solo chi ha la bomba atomica non rischia di essere abbattuto dall'occidente.

    Menichini. Respingo la concezione di fondo. Quello che sta accadendo in Libia non è un'iniziativa dell'occidente o dei media o dei neocolonialisti che hanno deciso di aprire un fronte di regime change, ma sta succedendo a prescindere dalla nostra volontà, anzi spiazzando tutte le aspettative che tutti i leader occidentali avevano nell'area mediorientale. L'intervento in Libia sta avendo successo e sta raggiungendo i suoi obiettivi: c'erano pressioni politiche francesi e inglesi ma nulla è sembrato muoversi fino a quando Bengasi è stata stretta in assedio e Gheddafi ha annunciato una caccia senza pietà, concretizzando l'incubo di una pulizia etnica. Che questo, grazie all'intervento, non sia avvenuto è un successo che non possiamo negare. I paesi arabi in più vivono queste vicende in un clima unico e il fatto di aver mostrato da parte dell'occidente una disponibilità di intervento ha funzionato come molla rassicurante e moltiplicatrice di iniziative diverse vissute come analoghi movimenti di liberazione dalle masse di altri paesi, che vedono queste vicende collegate fra loro. Un segnale indispensabile.

    Zincone. L'occidente si è schierato dalla parte degli insorti. Il fatto che la repressione sarebbe stata sanguinosa è incluso nella definizione stessa di rivoluzione: “La rivoluzione non è un banchetto di nozze”, diceva Mao. E' normale in una guerra civile che entrambe le parti compiano azioni violente. La globalizzazione oggi si riferisce anche allo scavalcamento dei confini da parte delle masse, e questo è positivo, a patto che poi al loro interno non ci sia un altro potere che vuole manovrarle. Come diceva Debray, le merci si globalizzano e le persone si tribalizzano. Queste idee alimentano un'artificiale unità ma alimentano anche i localismi. Il ceto politico internazionale a volte non riesce ad affrontare queste contraddizioni.

    Boffa. E' vero che le rivolte attuali stanno avvenendo a prescindere dalla nostra volontà. Almeno fino al momento in cui non siamo intervenuti nella loro guerra civile, sulla base di una minaccia verbale – Gheddafi ha detto che avrebbe preso i ribelli uno a uno “senza pietà” – di un gravissimo bagno di sangue. Questa guerra nasce da un retroterra ideologico e culturale che da un ventennio in occidente plasma l'opinione pubblica e i governi, l'idea del diritto di ingerenza umanitaria, cioè l'idea che si propone di sovvertire o di eccepire nelle relazioni internazionali al principio della sovranità degli stati e di sovvertire secoli di sobrio realismo politico. Sempre più spesso la politica estera dei governi occidentali è inquinata da un moralismo impaziente, che presenta la scena come uno scontro manicheo, tra il bene e il male, tra i popoli e i tiranni, tra la democrazia e le autorità, in cui noi dovremmo intervenire. L'ingerenza umanitaria invece è uno strumento da maneggiare con cautela: utile per esercitare pressioni su regimi politici fuori controllo, come è stato per Milosevic, ma, nella sua interpretazione estrema, mi sembra uno strumento velleitario – perché prende di mira i regimi deboli, altrimenti faremmo la guerra all'Iran – e destabilizzante, perché rischia di rendere la politica internazionale prigioniera di una retorica dei diritti indifferente agli imperativi di una stabilità geopolitica. Bisogna invece tornare al realismo politico e accettare che il mondo delle relazioni internazionali non è l'arena di uno scontro sui valori ideali, ma il luogo di accordi strategici e compromessi con le altre potenze, soprattutto Russia e Cina, per riuscire a tenere in ordine il mondo.

    Peduzzi. L'applicazione della teoria dell'ingerenza umanitaria è partita con l'intervento in Kosovo, è passata attraverso la campagna contro Saddam Hussein in Iraq e ora determina anche l'intervento in Libia. Cosa pensate di quelle guerre?

    Zincone. Io sono contro l'intervento in Libia ed ero contro tutte queste guerre, anche contro l'Iraq, me ne andavo in giro con un fiocco sul cappotto. Ho tolto la bandiera arcobaleno dal balcone quando quei maiali che esponevano la mia stessa bandiera hanno cominciato a gridare: “Dieci, cento, mille Nassiriyah”. L'unica guerra che ho capito è stata la prima guerra del Golfo contro l'invasione di Saddam del Kuwait. Bush padre con lungimiranza ha lasciato in piedi un dittatore laico che stabilizzava la regione.

    Menichini.
    Ero contro la guerra in Iraq, soprattutto perché sono ostile alla dottrina Bush.

    Boffa.
    Sono stato molto contrario alla guerra in Kosovo, ma avevo e ho un giudizio più cauto sulla guerra in Iraq, perché vorrei vedere come va a finire. Sono contro la missione in Libia, mentre anche a me è piaciuta la prima guerra del Golfo.

    Peduzzi. Ma torniamo agli interventi umanitari. Boffa ha detto che hanno plasmato decenni di politica estera e l'ingerenza oggi è diventata uno strumento che si può usare con eccessiva facilità.
    Menichini. Non possiamo definire questo come un intervento umanitario occidentale, altrimenti mostriamo di avere una visione molto ristretta e unilaterale di quanto sta accadendo. In questo senso il paragone con l'Iraq è fuori luogo: lì si trattò di un intervento deciso da una parte della comunità internazionale, di guerra scatenata per la seconda volta nel giro di diversi anni. Questo invece è un fenomeno di fronte al quale nessuno di noi era preparato.

    Peduzzi. Ma noi siamo intervenuti perché c'erano i ribelli che chiedevano aiuto e a Bengasi stava per esserci un massacro, quindi si può dire che la motivazione umanitaria sia quella che ha fatto scattare l'operazione, dopo che c'era stato un tentennamento americano.

    Menichini. La questione Libia però è evidentemente parte di un fenomeno più complessivo, le cui specificità – è una guerra civile e c'è la presenza del petrolio – la stanno facendo sviluppare oltre alle sue premesse, in maniera peculiare. Ma c'è uno scenario complessivo da considerare. Tutti i leader occidentali hanno fatto affari con i dittatori, hanno avuto atteggiamenti concessivi, hanno perdonato e hanno stretto accordi. Non sono un cieco ottimista liberal, ma quando si manifesta un fenomeno del genere bisogna capire con prontezza come relazionarsi con quanto sta accedendo. Noi italiani siamo stati lenti, reazionari in senso tecnico, e altri paesi sono stati più pronti a rimodulare il proprio atteggiamento, come gli Stati Uniti. Nel caso egiziano, l'ingerenza americana è rappresentata dal presidente Obama che parlava, ascoltato in diretta dalle folle, da uno schermo in piazza Tahrir; quelle folle che nei nostri schemi mentali solitamente le bandiere americane le bruciano. Poi magari i Fratelli musulmani vinceranno le elezioni, ma intanto questa capacità americana di cambiare paradigma, rimodulare l'intervento in maniera diversa, ha provocato un effetto di straordinario cambiamento, vissuto positivamente dagli egiziani. Altrimenti si finisce per mostrare il mondo come se fosse diviso fra quelli che hanno i diritti e tutti gli altri. Emma Bonino, che ha vissuto al Cairo per diverso tempo, quando fu interrogata sulla rivoluzione disse: “In Egitto non è possibile che succeda nulla perché il regime è troppo forte”.

    Zincone. Io sono contrario a qualsiasi intervento “umanitario”, perché maschera un intervento neocolonialista. Altrimenti in Ruanda i paesi spinti da spirito umanitario avrebbero gestito la questione in modo molto diverso. Mi sorprende lo stupore dell'Europa e degli alleati davanti a questi moti, più o meno spontanei, e mi faccio qualche domanda sui servizi segreti occidentali: o sono inutili o hanno avuto un ruolo nelle rivolte. Bisogna poi distinguere, fra gli interventi. Parliamo di Europa: l'Europa non ha la credibilità per affermare che il suo intervento risponde a determinati criteri, come a quello umanitario. Non c'è una posizione univoca di tutta l'Europa, ci sono interessi e timori particolari. L'Italia teme i flussi migratori, temiamo tutti la diaspora del terrorismo.

    Peduzzi.
    Secondo quanto è stato scritto anche sul Foglio, ci sono molte differenze tra la guerra in Libia e quella in Iraq. Con il regime di Saddam Hussein si è studiato come fare la guerra, s'è cercato il consenso internazionale, c'era un progetto per il futuro ed era una campagna studiata. La missione contro Gheddafi invece è partita tardi, senza obiettivi condivisi, molti si sono sfilati strada facendo, non c'è stato un comando unificato, si è bombardato soltanto dall'alto. Quindi applicare la stessa formula irachena, in un contesto diverso, non è sempre utile. Secondo voi invece il paragone regge?

    Menichini. Io sono molto d'accordo sulla premessa: ci vogliano standard diversi per situazioni diverse – io ero contro la guerra in Iraq mentre considero l'intervento in Libia giusto e giustificato. Siamo di fronte a un passaggio storico che non lascerà le cose immutate da nessuna parte. Non potevamo stare a guardare perché altrimenti avremmo contribuito al fallimento di tutte le rivolte. Noi italiani ora facciamo asse nella nostra prudenza con la Russia. Ma all'inizio i think tank vicini a Putin sostenevano che Gheddafi stesse dando l'esempio di come vanno trattati alcuni tipi di rivolte. Tra l'ottimismo sciocco dei liberal e il realismo sanguinario dei regimi autoritari resto con i primi. Sull'Iraq ero contrario in origine per la visione politica, poi, una volta iniziata la guerra, pensavo soltanto che dovesse finire il prima possibile e nel miglior modo, cioè con la caduta di Saddam. A posteriori: c'è stato un bagno di sangue indicibile, ma forse è andata nel migliore dei modi possibili.

    Boffa. Nel caso iracheno da parte mia si è trattato di ignavia. Avevo e conservo un giudizio più cauto: provo soddisfazione per la caduta di un despota sanguinario ma anche inquietudine per aver eliminato un importante bastione sulla strada dell'espansionismo iraniano. Tutto si vedrà da come succederanno le cose in una regione molto in movimento. Visto che le guerre si giustificano attraverso i risultati, gli effetti della guerra in Iraq – che è seguita all'undici settembre, è stata una guerra in cui l'occidente ha ridisegnato tutti i suoi rapporti col mondo arabo – si dispiegheranno ancora per molto tempo e molto dipenderà dall'espansionismo geopolitico, ideologico e, chissà, militare dell'Iran. Guardo con animo timido e attonito a queste rivolte, perché si tratta di uno di quei giganteschi avvenimenti destinati a cambiare la storia del mondo, come è stato nel 1848 in Europa. Siamo all'inizio, una rivoluzione è partita e nessuno sa dove spingersi e per questo nel giudizio è necessaria qualche cautela. Spero come tutti che tutto questo porterà libertà e pace in quella regione ma preferisco tenere i piedi per terra. Vedo alcuni processi non necessariamente positivi. So bene che nel nostro mondo occidentale è stata prevalente una lettura compiaciuta e ottimistica delle rivolte nel mondo arabo, come se fossimo in presenza di rivoluzioni liberali e libertarie contro le tirannie, i ragazzi di Facebook contro i dittatori. Sarebbe bello che fosse così, ma non mi convince, soprattutto se parliamo dell'Egitto. Dal punto di vista geopolitico, cioè la sicurezza d'Israele, l'espansionismo islamico e gli interessi dell'occidente, si sta profilando un autentico disastro, il peggiore dopo la caduta dello scià di Persia. Una sconfitta per l'occidente e i suoi alleati nella regione. Abbiamo visto il più fedele alleato, Hosni Mubarak, spazzato via qualche giorno dopo le manifestazioni e abbandonato dai suoi protettori americani, anche qui con un messaggio velenoso ai regimi moderati della regione: è pericoloso avere gli americani e gli occidentali come protettori perché quando si tratta di sfidare le rivolte vi legheranno sempre le mani dietro la schiena. Si è sbagliato a enfatizzare il significato libertario della piazza – e poi il problema non è la caduta di Mubarak, ma la sopravvivenza del regime, quello militare, che governa l'Egitto da sessant'anni e ha garantito una certa stabilità del paese e una politica regionale molto vicina ai nostri interessi. In alcuni casi la democrazia non è una soluzione, ma è il problema. Le rivoluzioni non si sa mai come vanno a finire, come dalle pentole in ebollizione cui si toglie il coperchio. In più l'Egitto è storicamente la culla della rivoluzione islamica. Seguiamo i passi successivi della rivoluzione egiziana (le elezioni del Parlamento, di un presidente, ecc.) senza poter far molto per influenzarli, ma i primi segnali non sono rassicuranti, anzi sono inquietanti. Le uniche forze egiziane sono i Fratelli musulmani e l'establishment militare. Il progetto di una teocrazia rivoluzionaria è il progetto del rilancio di un nazionalismo arabo. I famosi giovani di Twitter, per cui tutti abbiamo molta simpatia, che sono stati in prima fila al Cairo, appaiono disarmati ora, non sono più forza propulsiva.

    Peduzzi. Pericolo islam: molti che non credono in un contagio positivo nella regione vedono affermarsi soltanto la variabile fondamentalista a discapito della rivoluzione laica e dal basso.

    Zincone. Bisogna distinguere fra le varie situazioni ma bisogna avere un minimo di coerenza e distinguere un colpo di stato militare dal dissenso, seppur duro, del popolo di Twitter. Una volta fatta questa distinzione la coerenza ci deve spingere a non elogiare la posizione di chi prima bacia le mani e poi alza i tornado. E' una cosa che ci fa vergognare davanti a tutto il mondo. Il pericolo islamico è insito all'interno di una qualsiasi situazione rivoluzionaria nel mondo arabo. Ovviamente ci sono le fazioni estremiste, gli stessi Fratelli musulmani non sono tutti uguali. E' evidente che per noi il pericolo esiste, ma so che è una follia (che potrebbe costarci molto cara) imporre la nostra volontà, con un colpo di stato o un bombardamento. Un minimo di coerenza politica deve esserci. L'ingerenza umanitaria è spesso lo schermo per intervenire in una situazione che non ci riguarda. Il desiderio di imporre la nostra volontà non farà altro che stimolare le reazioni di chi ci considererà inaffidabili e abbraccerà per esempio l'islamismo. Secondo me noi, l'occidente, più che Sparta siamo Bisanzio. E non possiamo dare lezioni di sobrietà a nessuno.

    Menichini. Dobbiamo fidarci di quello che ci viene ripetuto da alcune leadership di borghesia laica, per esempio in Egitto o in Tunisia, che ci sono anche a Bengasi, quando dicono che la loro rivolta non ha motivazioni teocratiche. Chiedono diritti e benessere economico, una serie di paradigmi completamente contrari alla sharia. Non dobbiamo proiettare il nostro panico, la nostra paura, anche se non ingiustificata. L'undici settembre è capitato quando quasi tutti i dittatori erano al loro posto e l'occidente aveva con loro ottimi rapporti e l'Arabia Saudita era una sentinella nell'area di crisi, in un momento in cui non ce l'aspettavamo. Però tante ironie sui giovani di Twitter non le farei, più che altro considerando l'età media e i dati anagrafici di questi paesi, paesi molto connessi con i media occidentali e ricettivi (anche se i messaggi che girano non sono sempre positivi). Quando dovesse ripresentarsi una rivolta borghese laica in Iran, nel cuore della teocrazia islamica, applicando queste categorie dovremmo assistere passivi? Non sostenerli? Esserci o no non è indifferente ai fini del suo esito. Non esserci significa che vincono le componenti più avvelenate e rivendicative nei confronti dell'occidente. Mi ha colpito che nonostante tutte le sciocchezze fatte dall'Italia in Libia, il comitato provvisorio di Bengasi abbia manifestato nei confronti dell'Italia e del governo Berlusconi la promessa di mantenere tutti gli accordi. Non ci stiamo mettendo nelle mani di pazzi irresponsabili.

    Peduzzi. Veniamo a Obama. Il Wall Street Journal ha scritto: questo è il mondo senza America, vi piace? Finché non c'è stata l'iniziativa americana non si è fatto nulla. La cautela è stata la tattica obamiana, salvo poi farsi convincere dal dipartimento di stato a intervenire, quando il Pentagono ha fieramente opposto resistenza. Che cosa pensate della dottrina Obama nei confronti della primavera araba e della Libia in particolare?

    Zincone. L'atteggiamento di Obama mi sembra molto ondeggiante e ci sono posizioni assai diverse anche all'interno della sua Amministrazione, come quella del segretario di stato Hillary Clinton. Volevo aggiungere però che davanti alla prudenza, giusta, di Obama, il fatto che le masse siano in gran parte giovanili, cioè che l'età media sia più bassa rispetto alla nostra, non dovrebbe essere un motivo di soddisfazione o di speranza ulteriore, perché non è affatto detto che i giovani siano più moderati degli anziani, che la “bomba demografica” non sia poi un incentivo ulteriore per avvicinarsi fisicamente alle nostre coste e alle nostre “torte”. Perché noi siamo anche un bene, una torta, sul quale mettere eventualmente le mani, anche se in una proiezione magari lontana nel tempo, ma quando noi saremo molto vecchi e queste masse di giovani si avvicineranno alle nostre frontiere non ci sarà tanto da essere allegri perché manifestano oggi questi desideri di libertà, certo, ma anche di acquisizione di beni. Di fronte a questo, Obama che ha anche i suoi problemi interni, di migrazioni e minoranze, di melting pot adesso ormai abbastanza fallito, tiene conto di questi aspetti e guarda all'Europa in maniera meno cauta di quanto non facesse un tempo.

    Boffa.
    Non capisco bene la politica di Obama, vedo una retorica della presidenza americana e ho più difficoltà a vedere una strategia. Mi rendo conto che nella politica estera americana continua a giocare un grande ruolo l'ideologia, e la lotta contro i tiranni tocca ancora corde molto profonde nella psicologia americana. Il discorso di Obama al Cairo era improntato a questi ideali, ma ho difficoltà a capire la sua strategia in medio oriente perché troppi segnali appaiono poco coerenti. Non vorrei che Obama al momento del bilancio storico finisse come Jimmy Carter, il presidentre americano che alla fine, dopo tutte le sue acrobazie diplomatiche, ha sacrificato il suo principale alleato nel medioriente. Questo rischio ora c'è. Sicuramente ha mandato ai suoi alleati moderati nella regione quello che chiamavo messaggio velenoso. Finora, al netto della situazione siriana, essere alleati dell'America significa trovarsi con le mani legate e i regimi moderati non si sentono più protetti come prima. Mi colpisce l'assoluto silenzio di Israele, denso di inquietudine per i risultati in termini di sicurezza.

    Menichini.
    La preoccupazione per Israele e al suo interno è probabilmente all'origine di tanta riluttanza a considerare in termini positivi quanto sta accdendo nel quadro mediorientale. Credo sia un errore perché anche Israele sarà portata a cambiare il suo sistema di relazioni, e non potrà che farle del bene. Obama sta scoprendo che il multilateralismo, opposto all'unilateralismo di Bush, è molto difficile da praticare perché i partner, per prima l'Europa, sono inaffidabili, sfuggenti, non molto disponibili a condividere. Ma per vie tortuose forse la tattica americana potrebbe risultare un grande capolavoro. Bush ha provato a cambiare i regimi nel nome della “freedom Agenda” e gli Stati Uniti ne sono usciti isolati nel mondo e odiati in medio oriente, guardati con diffidenza dagli europei e incapaci di imporre i loro ritmi. Ma lungo questo percorso, meno limpido e più confuso, potremmo scoprire che alcuni capitoli della “freedom agenda” vengono davvero applicati, non si bruciano più le bandiere occidentali, l'Europa non guarda più all'America come a un prepotente alleato e gli Stati Uniti si ricollocano, come era indispensabile.

    Peduzzi.
    Ultima domanda. Sarkozy ce la farà a prendersi tutto il petrolio che prima era dell'Italia?

    Zincone.
    Ci sta provando, ci sta provando.

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