Conversazione a ruota libera tra Giuliano Ferrara, Carlo Calenda, Oscar Giannino, Giorgio Meletti

La rivoluzione del capitalismo italiano che (non) si farà

Redazione

E' da dicembre che si svolgono consigli di amministrazione con iniziative incalzanti di Bolloré contro l'alleanza stretta con la Ppf di Petr Kellner e l'acquisizione della banca russa Vtb di cui lui chiede conto anche all'ad di Generali, Giovanni Perissinotto. Secondo voi, la faccenda è destinata a esplodere oppure ci potrà essere una ricomposizione?

    Il Foglio ha organizzato un forum sulle ultime vicende di Generali e i mutamenti in atto nel capitalismo italiano. Assieme al direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, hanno partecipato Carlo Calenda, animatore di ItaliaFutura, Oscar Giannino, editorialista del Messaggero, e Giorgio Meletti, giornalista del Fatto quotidiano.

    Giuliano Ferrara. Nella nota integrativa al bilancio delle Generali si spiega che gli accordi con il gruppo Ppf di Petr Kellner “potrebbero comportare per la Compagnia l'acquisto nel luglio 2014 del 49 per cento di Generali Ppf Holding con il conseguente potenziale esborso stimato a oggi tra 2.500-3.000 milioni di euro”.  Vincent Bolloré, il finanziere bretone azionista di Mediobanca, aveva parlato di 3 miliardi. Su tale questione è esplosa l'ultima di una serie di vicende un po' western che hanno coinvolto questa vecchia istituzione austro-ungarica che sono le Generali in una sparatoria di tutti contro tutti. E' da dicembre che si svolgono consigli di amministrazione con iniziative incalzanti di Bolloré contro l'alleanza stretta con la Ppf di Petr Kellner e l'acquisizione della banca russa Vtb di cui lui chiede conto anche all'ad di Generali, Giovanni Perissinotto. Secondo voi, la faccenda è destinata a esplodere oppure ci potrà essere una ricomposizione?

    Carlo Calenda. Secondo me la nota integrativa non ci dice nulla, nel senso che il tipo di operazione è totalmente di mercato; qualunque acquisizione o nuova partnership può prevedere un sistema di put and call con un prezzo ovviamente predeterminato sulla base di una rivalutazione del valore di entrata, e questa mi pare sia la tipologia rispetto a perizie e valutazioni che sono fatte al momento dell'acquisto. Giudicare se l'operazione è utile o non utile a Generali è assolutamente impossibile dall'esterno. Dire che è un'operazione inconsueta è altrettanto impossibile; è “market practice”, si potrebbe dire con una brutta espressione, non mi pare di ravvisare elementi anomali. Credo che però il tema richiami un problema di governance generale, cioè di chi decide di fare queste operazioni.

    Ferrara. Una sola integrazione: tutto nasce da una nota dell'Isvap, Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo, che dice di non vederci chiaro. E tra l'altro l'Isvap deve ancora decidere un intervento sulla materia. Questo cosa significa?

    Calenda. E' molto difficile dirlo, perché bisognerebbe vedere su quali basi questi rilievi vengono mossi. Ripeto: la modalità di acquisizione – cioè l'ingresso in una società fatto regolando il meccanismo di acquisizione della quota, nel caso di questa società si parla anche di un meccanismo che avviene alla fine di una serie di passaggi – è un meccanismo normale. Sul valore di questa società, se sia utile a Generali, io non ho gli elementi per valutare.

    Oscar Giannino. Questa indiscrezione conferma che rispetto all'alleanza stretta con la Ppf di Kellner siamo di fronte a un'operazione non trascurabile, un'operazione di impatto significativo. Queste sono operazioni decise dagli amministratori prima della presidenza Geronzi, all'interno del consiglio di amministrazione alcuni membri ritengono di non avere avuto sufficienti informazioni da parte del management per valutare tutte le conseguenze degli accordi con Kellner. La mia opinione è che, visto anche il rilievo dell'Isvap, se la cifra di 2,5-3 miliardi fosse confermata, farà ancora molto parlare. Si parlerà di come Giovanni Perissinotto (ad di Generali) e Alberto Nagel (ad di Mediobanca) hanno messo la firma su importanti operazioni prima che Generali cambiasse presidenza; dall'altra parte si confermerà che a difesa di Perissinotto scenderà in campo esattamente chi abbiamo già visto. La mia opinione è che questo è un elemento che ci fa capire perché alcuni dicevano: “Rispetto dell'autonomia del management sì, ma negli ultimi tempi non eravamo abbastanza informati su quello che faceva”.

    Giorgio Meletti. E' evidente: siamo di fronte a una guerra di potere. Noi giornalisti poi abbiamo questa curiosa inclinazione ad appassionarci di dettagli di cose che spesso noi – parlo per me, ovviamente – non siamo nemmeno in grado di comprendere tecnicamente. Diego Della Valle ha attaccato il presidente di Generali, Cesare Geronzi, subito scendono in campo i difensori di Geronzi che attaccano l'amministratore delegato Perissinotto dicendo che se Geronzi fa qualcosa di male c'è sempre qualcos'altro di peggio. Io sono d'accordo con quanto diceva Calenda: è difficile discutere di questo senza vedere che è una tipica rappresentazione del capitalismo italiano che è basato sulle guerre di potere.

    Ferrara. Nino Sunseri oggi su Libero scrive che Bolloré sta cercando probabilmente l'uscita dall'investimento alle migliori condizioni possibili. Gli investimenti del finanziere bretone in Mediobanca e Premafin dovevano servire “per sostenere la presidenza di Antoine Bernheim in Generali” e “successivamente per aiutare gli alleati di Groupama a prendersi Fondiaria Sai”, ma ora “entrambi gli obiettivi sono venuti meno in maniera clamorosa”. Bolloré insomma non avrebbe più prospettive importanti e la sua offensiva prelude a una sua uscita. Può essere realistico?

    Calenda. Diventerebbe un giudizio sulle intenzioni, che è molto difficile. Al momento Vincent Bolloré (azionista importante di Mediobanca e Generali) sembra molto impegnato a essere presente nelle discussioni. Io però voglio dire una cosa sul capitalismo come “lotta di poteri”: il capitalismo è sempre una lotta di potere, ovunque, non solo in Italia. E' anche il suo bello. Il problema è un altro, ovvero capire questo: dal punto di vista individuale i poteri che si scontrano sono tutti legittimi e con legittimi interessi. Qual è però il valore dal punto di vista del sistema complessivo? Cioè, fra le due posizioni, qual è quella che aiuta di più il paese?

    Ferrara. Lei potrebbe dirci quali sono le due posizioni e quale è, secondo lei, la ricaduta sugli interessi generali del paese?

    Calenda. Quello che a me sembra è che da un lato c'è una visione di Diego Della Valle per la quale le strategie si discutono nel consiglio, gli amministratori hanno certe deleghe e le esercitano, non c'è più spazio per un capitalismo che si incontra fuori dai luoghi deputati. Come lo fa Della Valle? Lo fa con una certa dose di insofferenza che probabilmente gli deriva anche da una dimensione del gruppo Della Valle, che è pienamente concorrenziale, un gruppo che come background nasce da una storia imprenditoriale molto internazionalizzata, basata sul made in Italy. Lo fa dunque anche con una assertività che talvolta può risultare ruvida ma che è un'assertività che sta uscendo fuori in molti elementi del capitalismo italiano. Per certi versi, per esempio, a me la tipologia di azione che ha messo in atto Della Valle ricorda molto quella di Sergio Marchionne, l'ad di Fiat. Sono persone che si sono stancate di meccanismi e liturgie, e lo dicono in maniera ruvida e molto diretta. Della Valle ha sostanzialmente detto: io non accetto salotti nei quali si decide che non siano i consigli di amministrazione, o che si eserciti una moral suasion nei confronti del management che non sia codificata nelle regole. Il punto di vista di Marchionne è: io non accetto le liturgie delle relazioni industriali. Entrambi sono un riflesso del fatto che l'Italia è ormai un mercato molto integrato negli altri mercati e che quindi quelle anomalie che ieri, nel bene e nel male, hanno sostenuto il sistema economico oggi non reggono più.

    Giannino. Ciò cui stiamo assistendo non è tanto la guerra, di cui hanno scritto molto i giornali, tra Della Valle e Geronzi, che considero secondaria. In realtà per come la vedo io siamo all'inizio di un passaggio importante: quello in cui si gioca la partita per cosa diventeranno Mediobanca e Generali nell'epoca post-maranghiana.

    Ferrara. E' giusto dunque dire, come ha scritto il Foglio, che siamo alla vigilia della madre di tutte le battaglie finanziarie?

    Giannino. Per me sì, è abbastanza giusto. Non credo siano i soliti eccessi del giornalismo italiano. Secondo me i giornalisti hanno un compito storico che è quello di descrivere. Per esempio: Della Valle non è Marchionne, sta nel patto di sindacato di Rcs, dentro e fuori Mediobanca e Generali; per favore non faccia quello che viene dal pianeta Marte. In sintesi estrema ritengo che le due grandi filiere che si confrontano sono quelle di Unicredit e Intesa: nella Mediobanca e in Generali, e nelle partecipate di Generali (quindi Rcs, Telecom), la questione è capire la posizione di Intesa e degli amici di Intesa di fronte alla nuova Unicredit. Perché l'Unicredit di Alessandro Profumo era quella “non entrista”, che anzi voleva uscire da Mediobanca, Rcs. Oggi invece in Unicredit si rifanno vive le fondazioni che si candidano a un ruolo stabilizzatore sia in Mediobanca sia in Generali. Bisognerà vedere, di fronte a questo, poiché Intesa si prende il risparmio gestito di Unicredit, se Intesa non ritenga opportuno dare un'altra grande scrollata dicendo: visto che siamo qui e a Unicredit ritengono di potersi candidare di nuovo a fare gli equilibratori intorno a Mediobanca e Generali, se non sia il caso di dare una scossa, tanto per cominciare risolvendo l'ultima grande eredità della fase maranghiana, ovvero i francesi in Mediobanca e i francesi come Bolloré, vicepresidente in Generali.

    Ferrara. Quindi, per riassumere in termini un po' rozzi: il vero filo di tensione è tra Giovanni Bazoli, presidente di Intesa, e Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit?
    Giannino. Per capirci, sì. Poi ovviamente il discorso è più ampio perché riguarda Nagel, Mediobanca, che a questo punto deve fare delle scelte, perché alcune delle opzioni di Perissinotto nell'est sono scelte su cui anche Mediobanca ha puntato molto. Il punto di fondo è uno: visto che ci eravamo abituati al fatto che ci fosse una sola banca dedita a operazioni di sistema, Intesa, ora l'altra banca dice: “Aspetta, ci siamo anche noi”.

    Meletti. Sul futuro di Bolloré non ho gli strumenti per investigare i propositi reali del finanziere bretone. Però l'idea che Bolloré in questa fase cerchi di ottimizzare il prezzo di una sua uscita la trovo improbabile perché significherebbe che lui è stato a suo modo protagonista delle vicende finanziarie italiane, ma senza aver capito a che gioco si stava giocando. Cioè sarebbe la prima volta in cui un protagonista del capitalismo italiano fa un'operazione di rilievo strategico guardando al risultato economico immediato. A me infatti la cosa che incuriosisce di questo dibattito, per limitarmi ai nomi fatti finora – Bazoli, Palenzona, Della Valle – è che stiamo parlando di persone che non sono proprietarie di niente. I Bazoli, i Palenzona, i Geronzi, i Perissinotto sono dei funzionari, delle personalità di tipo politico. Mi colpiva proprio stamattina l'intervista sul Corriere della Sera a Guido Rossi, intervista nella quale lui citava con nostalgia lo spessore dei personaggi come Cuccia, Mattioli e Beneduce. E' una costante del capitalismo italiano la cui storia non può essere mai simboleggiata da figure di grandi imprenditori ma sempre da queste figure di tipo politico.

    Ferrara. Però Guido Rossi ha usato anche un'espressione molto dura e velenosa; ha detto che qui sono in gioco dei “power broker”, che è un bel termine anglosassone ma in realtà la sua traduzione nel linguaggio corrente italiano è quella di “faccendieri”. E' molto dura l'intervista di Guido Rossi da questo punto di vista… Geronzi, Bazoli, Palenzona sono i legittimi eredi di Cuccia, Mattioli oppure sono dei “power broker”?

    Meletti. Sono i legittimi eredi nel senso che ereditano quel sistema, quel modo di concepire il capitalismo. La valutazione più interessante non è sulla qualità professionale, politica o morale dei personaggi; la notazione è sulle condizioni del capitalismo italiano. Con Cuccia le cose bene o male funzionavano – anche se in quel regime di Cuccia sono stati secondo me piantati i semi del declino – il problema è che oggi noi stiamo discutendo di Della Valle che non ha una sola azione delle Generali, di Geronzi che non ha una sola azione delle Generali, di Perissinotto… Il problema che io pongo è questo: queste persone che cosa rappresentano? Io mi sono per esempio sempre chiesto che cosa rappresenti Palenzona se non la propria capacità di tessere relazioni di potere. A questa considerazione vorrei affiancarne un'altra sullo stato del capitalismo italiano: queste persone si contendono il potere senza far comprendere a nessuno qual è l'idea di capitalismo che vorrebbero attuare; ma negli ultimi anni c'è stato un passaggio consistente di quote di reddito dal salario al profitto, e contemporaneamente gli investimenti sono crollati; dove sono finiti tutti questi soldi? Quello che osservo, accanto a questo, è che ormai le maggiori aziende italiane sostanzialmente si stanno vendendo pezzi di patrimonio per pagare il dividendo.

    Ferrara. A questo punto devo rilanciare il paragone Della Valle-Marchionne, nel senso che se c'è un manager che ha dato un'idea – a partire dalla rivoluzione nelle relazioni sindacali, anche se deve ancora precisare questa idea sul terreno di una politica di prodotto vincente – del “perché” e del “come” usa il suo potere, questo è Marchionne. Il dottor Calenda ha paragonato Della Valle a Marchionne…

    Giannino. Prima osservazione: se parliamo di banchieri e assicuratori, non è che Claude Bébéar e Henri de Castries, di Axa, possiedano le azioni. Banchieri e assicuratori devono essere manager che non hanno cointeressenze. La questione del “power broker” è un'altra: la particolarità di alcuni banchieri, ed è chiaramente l'accusa fatta a Geronzi, è quella di intessere le relazioni con la politica e grazie a questo ha fatto quello che ha fatto. Ma non dimentichiamoci che noi abbiamo un consolidamento bancario alle spalle, avvenuto in maniera molto “guidata” per tanti anni dalla Banca d'Italia, quindi il rapporto con la Banca d'Italia era fondamentale; in questo Geronzi era uno dei banchieri che aveva un rapporto storico più stretto con Palazzo Koch. I power broker? Certo, ma il consolidamento bancario lo abbiamo fatto così; e lo abbiamo fatto poi con un altro tipo di figure, i capi delle Fondazioni. Palenzona è un classico esponente di questa seconda categoria. Io dico solo questo: di Palenzona si possono avere tutte le opinioni, però se non c'era gente come Palenzona noi non avremmo avuto Unicredit, perché la proposta della sua Fondazione era di vendere a Intesa, invece nel giro di alcuni mesi decisivi, alcuni come Palenzona credettero in Alessandro Profumo, e dal mio punto di vista è meglio avere due grandi banche invece che una, quindi a Palenzona non posso disconoscere questo merito. Power broker? Insomma, Unicredit è oggi la banca italiana più internazionalizzata.
    Spiego brevemente perché non sono d'accordo con il paragone Della Valle-Marchionne. Della Valle è in questi anni in Rcs e non posso dimenticarmi il ruolo avuto nel 2009, quando l'allora direttore Paolo Mieli andò via e tornò Ferruccio de Bortoli. Quella fu la classica vicenda di potere. Non mi risulta proprio che si possa dire – nella perfetta legittimità di Della Valle e Luca Cordero di Montezemolo di sostenere allora un altro candidato alla direzione del Corriere – che la loro posizione fosse immune dall'essere una posizione classicamente italiana, ovvero una posizione da power broker. C'è poi la richiesta un po' singolare di oggi di Della Valle a Generali: chiede alla Compagnia di vendere la quota in Rcs e dice di volerla acquistare lui; se è un buon investimento, allora che Generali se la tenga! Marchionne invece è uno che dice: “Io rompo tutte le ragnatele vischiose”. Della Valle è una persona della quale rispetto il grande gruppo e ciò che ha fatto a livello internazionale – ce ne fossero! – ma detto questo è un'evoluzione e non è una rottura, come dimostrato dalla vicenda Rcs e dal tipo delle sue obiezioni a Generali oggi ancora su Rcs.

    Meletti. Quanto al paragone Della Valle-Marchionne, condivido quello che ha detto Giannino. Marchionne è uno che fa auto e Della Valle è uno che fa scarpe, l'analogia finisce qui. Mentre Marchionne cerca di tenere assieme i pezzi della sua scommessa automobilistica nel mondo, Della Valle è uno che ha evidentemente un sacco di tempo. Le scarpe gli lasciano molto tempo libero per partecipare a questo gioco che è un gioco del potere politico nazionale. E' la partita di queste polemiche da cortile con le quali questa oligarchia, che si distribuisce il potere su aziende che non sono sue, sta mettendo in ginocchio l'economia italiana.

    Calenda. Porsi il problema del rapporto tra quello che era Cuccia ieri e quello che è magari Bazoli oggi è un falso problema. Magari Bazoli è meglio di Cuccia o viceversa; il problema però è che oggi il paese è completamente diverso. Prima era un paese sostanzialmente chiuso alla concorrenza, che godeva di una spesa pubblica gigantesca e quindi dava la possibilità di avere una forma di intervento dello stato e di collateralismo della politica molto forte. Oggi all'Italia non si adatta più quel tipo di modello, o comunque il paese non dovrebbe aspirare a quel modello. Quest'ultima osservazione risponde a una personalissima visione di quello che il paese dovrebbe essere, essendo l'Italia non un paese di natura germanico-francese, dove c'è comunque un forte elemento di dirigismo o moral suasuion; l'Italia dovrebbe essere molto diversa, essendo più individualista, con una classe imprenditoriale più opportunista nel senso positivo del termine, e quindi dovrebbe essere più vicina a un modello anglosassone.

    Giannino. Questo è pure il mio pensiero…

    Calenda. Io però penso una cosa: Della Valle e Marchionne sono simili innanzitutto perché vengono da quel mondo. Giannino ha perfettamente ragione nel dire che Della Valle sta in una serie di patti di sindacato, ma quello che consente a Della Valle di esservi presente, al di là di Generali dove è presente ma non ha investito, è la forza che gli deriva dal core business della sua azienda presente in tutto il mondo. E' un signore che ha fatto un brand straordinario che vende in tutto il mondo, che fa un sacco di cassa e molti utili; la sua attività in Italia è quindi un riflesso della sua presenza nel mondo. Anche per Marchionne l'Italia è un riflesso della sua presenza nel mondo. Poi entrambi giocano battaglie di potere in Italia, perché hanno interessi in questo paese, e ci mancherebbe. Aggiungo: se Marchionne fa le macchine bene o male, non mi interessa; lo giudicheranno gli azionisti e i consumatori. Qui stiamo parlando del valore oggettivo delle battaglie di Marchionne e Della Valle per il paese. Io non credo neanche, avendo frequentato un pochino i poteri forti, che i poteri italiani siano in grado di pianificare gli schieramenti in modo così dettagliato: Unicredit contro Intesa, Unicredit che si allea con Mediobanca. Se i poteri forti italiani fossero in grado di fare questo ragionamento, noi saremmo come la Francia e purtroppo non lo siamo. La situazione è molto più casuale; io in questo sono un sostenitore della teoria del caos. La battaglia di Della Valle parte dal mondo e arriva in Italia, con una legittima attenzione ai propri interessi. Il sistema che state descrivendo di Generali, Mediobanca, Rcs è comunque un retaggio che abbiamo ereditato – buono o sbagliato che sia – ma in qualche modo va rinnovato. Io penso che l'azione di Della Valle, nei modi che ha usato Della Valle – altra similitudine con Marchionne – sia un sano scossone ai nostri residuati del capitalismo relazionale.

    Ferrara. Veniamo alla questione Rcs: noi siamo tutti vecchi di questi boschi e sappiamo che quando si parla del Corriere della Sera il mondo di chi fa e di chi osserva impazziscono entrambi, perché è una storia che ha avuto aspetti tenebrosi in passato – li ricorda Guido Rossi nella sua intervista facendo riferimento alla fase post P2 – dopodiché la situazione è sempre rimasta identica: c'è qualcuno che porta qualcuno dal Bettino Craxi di turno per nominare i direttori, e questa struttura del patto di sindacato è contestata da varie parti. Adesso Palenzona, in un'intervista allo stesso Corriere, propone che si ritirino i poteri economici e si passi a “un editore puro o una public company vera, con i giusti statuti”. Altri fanno notare: se Della Valle vuole prendersi Rcs, faccia un'Opa (offerta pubblica d'acquisto, ndr), se lo compri! Insomma, che cosa sta succedendo intorno a Rcs? La public company come si fa a costruirla se nessuno ci mette i quattrini? Oggi il patto di sindacato sembra la soluzione inevitabile…

    Meletti. E' evidente. Ma io insisto, perché anche qui si dà per scontata una cosa: il signor Palenzona che cosa rappresenta quando fa queste proposte? A nome di chi parla? A me sembrano i racconti delle lotte di potere interne al Partito comunista sovietico. Della Valle, siccome ha fatto scarpe di successo nel mondo, avrebbe autorevolezza a mo' di un generale che si distinse nell'assedio di Stalingrado; Palenzona è il presidente della commissione Industriale nella Repubblica dell'Ucraina… Non capisco, è una situazione molto confusa. Io non è che trovo la lotta di potere disdicevole in sé. Il problema è che non c'è nessun elemento economico o reale sottostante. Appunto, Della Valle se vuole il Corriere si compri le azioni. Ma io non credo si stia parlando di questo: si inventano continuamente nuovi schemi gestionali per ridisegnare in modo implicito i rapporti di potere. Per esempio, facciamo una public company ideata in maniera tale da tenere fuori qualcuno, e in maniera tale che comandi Della Valle ma solo per fare fuori qualcuno. Non si discute mai, per esempio, del conto economico di questa azienda, che è un'azienda che ha problemi serissimi. Poi c'è un argomento strutturale, che non uso in maniera polemica: il gruppo Rcs è gestito da persone che di fatto non rischiano un euro dentro il gruppo, per cui tutte le decisioni che prendono sono strutturalmente scollegate dall'interesse economico dell'azienda e dei suoi azionisti.

    Ferrara. E' o non è la Rcs lo “sfondo magico” di questa danza finanziaria tra Generali e Mediobanca?

    Giannino. Non credo che sia “la” questione, piuttosto il Corriere è lo specchio simbolico della questione per quel che riguarda gli assetti di potere e di indirizzo. Complessivamente non mi sentirei di dire che il Corriere di oggi non sia indipendente. Io non sottovaluterei invece la questione da cui sono partito: guardate che il confronto tra Intesa e Unicredit è un confronto di potere per grandi fette del mercato del risparmio italiano, per grandi accordi con la più grande assicurazione italiana. Però non voglio eludere la questione posta da Ferrara quando fa riferimento alla proposta di una public company per il Corriere. Palenzona pone la consueta provocazione, perché dice: “Io non sono contrario, a nome di un pezzo di mondo che sta in Unicredit, a dire ‘usciamo tutti noi che abbiamo conflitti d'interesse', però lo dobbiamo fare tutti assieme”. A questo la risposta degli altri è sempre stata: “Comincia a uscire tu”. Quella di Palenzona è una classica proposta che ai soci del patto di sindacato appare del tutto impercorribile. E poi in generale il giudizio di Meletti non si applica a tutti; faccio l'esempio di Giuseppe Rotelli, in fila per anni per entrare nel patto di sindacato, uno che ci ha messo 200 milioni rispetto ai quali l'andamento del titolo attuale gli fa rimettere un mucchio di soldi.

    Meletti. E Rotelli però non conta niente, era proprio questo che stavo dicendo…

    Giannino. L'hanno messo nel patto di sindacato, e adesso lui dice: “Pensiamo al conto economico”. La mia impressione è che questa proposta non verrà raccolta. La mia opinione è che nel giorno in cui la classe dirigente – sia in Unicredit che in Intesa, in Mediobanca e in Generali – capirà davvero che bisogna fare del Corriere qualcosa di simile a ciò che gli Alleati fecero per la Frankfurter Allgemeine Zeitung, con una fondazione che garantisce l'indipendenza dei direttori, quello sarà un grande giorno. Ma non mi illudo, perché so che il confronto tra Intesa e Unicredit è confronto di mercato serio, fatto anche con le relazioni perché siamo in Italia. Quindi non me la posso cavare dicendo: il nuovo regolerà il vecchio. Perché Corrado Passera, per esempio, è nuovo o vecchio? Passera è un grande manager che è passato anche lui per un grande gruppo pubblico, un finanziere privato come Carlo De Benedetti, e poi da anni gestisce una cosa mica da ridere come il rapporto con Bazoli, di cui abbiamo visto alcune scintille proprio sul Corriere della Sera; quindi, insomma, la storia non fa mai salti e rotture.

    Ferrara. Per Guido Rossi, Giulio Tremonti è il ministro dell'Economia più potente di sempre in Italia. D'altra parte è noto che Tremonti, non solo per la legge Bassanini ma anche per come ha governato se stesso e il suo ruolo di governo, ha un'influenza abbastanza determinante nel corso delle cose. Che cosa sta facendo Tremonti e che cosa dovrebbe fare Tremonti?

    Calenda. In rapporto alla madre delle grandi battaglie finanziarie, io non vedo al momento un lavoro diretto di Tremonti su questi tavoli; dove c'è un rischio di incrocio con queste vicende è il tema della legge “anti Opa” o anti scalata francese. Regolare dal punto di vista legale l'ingresso di investitori internazionali, tanto più se interni all'Ue, è una cosa pericolosissima; non perché non sia giusto anche difendere i propri campioni nazionali, ma perché questi si difendono – come per esempio fa Intesa – costruendo alleanze di sistema, e il governo può dare anche un contributo a questo. Ma codificare per legge quando un investitore possa investire in Italia mi pare estremamente difficile, a meno di fare una cosa molto ristretta sui settori della Difesa, dell'energia e pochissimi altri.

    Meletti. In questa fase Tremonti si muove in maniera molto felpata; l'impressione è che debba ancora decidere se entrare pienamente in questo tipo di partite, quelle del potere nel pollaio del capitalismo declinante. Qualcuno lo sta convincendo che questa strada non si può evitare per costruire un potere politico al quale immagino lui stia pensando per il dopo Berlusconi. Sostanzialmente sto aspettando di vedere, perché soltanto un suo appoggio chiaramente decifrabile al nuovismo di Della Valle ci direbbe se lui ha scelto questa strada.

    Giannino. Due aspetti: primo, cosa hanno fatto le autorità sinora nelle partite di cui stiamo parlando? Quando la Consob guidata da Giuseppe Vegas ha detto a Groupama che se voleva partecipare al riassetto di Fonsai sarebbe stata costretta a lanciare un'Opa sulla società, e quindi loro si sono ritirati, ha fatto bene o ha fatto male? Ha fatto bene, ha applicato una regola di mercato che spesso negli incroci mediobancheschi le autorità non facevano applicare. Questo naturalmente ha un impatto diretto su quello che stiamo dicendo perché Unicredit, intervenendo lei in Fonsai, si rafforza in Mediobanca e Generali, e a Intesa questa roba non piace. Questo problema si riproporrà oggi che Lactalis ha raggiunto il 29 per cento del capitale di Parmalat. Seconda sfera, quella che riguarda la legge di cui ha parlato Tremonti a Cernobbio dicendo che si stava ispirando alla legge francese e canadese. Da quel punto di vista, ho l'impressione che Tremonti non ci tiene affatto ad apparire un protezionista. Lui vuole che sia chiaro che ci sono due diversi livelli: c'è un livello di settori strategici – la Difesa, l'energia, come in tutti gli altri paesi dell'occidente – ma poi c'è un altro livello, quello della reciprocità in nome del diritto alla concorrenza europea e Tremonti vuole divenire un fortissimo sostenitore del fatto che gli altri paesi europei ai quali noi apriamo le porte ci devono consentire reciprocità. Questo è quello che per esempio riguarda le ferrovie, dove c'è una partita che vede il monopolista francese impedire – a detta dell'ex incumbent italiano – di entrare nel mercato francese, e la concorrenza che noi invece stiamo giustamente consentendo, essendoci anche Sncf (Société Nationale des Chemins de fer Français) in Ntv (Nuovo trasporti viaggiatori, primo operatore privato nel trasporto ferroviario di persone nella rete dell'alta velocità, presieduto da Luca Cordero di Montezemolo). Mi pare che fino a questo momento Tremonti non meriti dunque l'epiteto di “protezionista”.

    Calenda. Sulle ferrovie mi sento un po' chiamato in causa. Proprio le ferrovie sono l'esatta dimostrazione del perché stabilire per legge la reciprocità è impossibile. Ferrovie dello stato ha acquistato Veolia, una società francese che opera nel trasporto ferroviario passeggeri. Dice Mauro Moretti, ad del Gruppo Fs: “Però questa cosa non è esattamente uguale alla partecipazione francese in Ntv, perché Ntv è il mercato domestico, mentre Veolia collegherà diversi paesi”. Al di là del caso di specie, con i francesi che in Ntv hanno il 20 per cento e non è previsto che salgano, c'è un punto diverso: vai a capire cosa vuol dire reciprocità e fissalo per legge. Non si rischia di costruire un meccanismo indecifrabile per gli investitori stranieri, tenendoli ancora più alla larga dall'Italia di quanto già non sia?

    Ferrara. Come finirà la battaglia interna a Generali? Sento dire che con tutti i legittimi incroci azionari fra i soggetti coinvolti, è ben difficile che non si arrivi a una composizione di sistema per linee interne.

    Calenda. L'ipotesi di un “rinsavimento” a breve termine è probabile, essendo questo paese fatto apposta per evitare rotture. Anche se qualcosa di importante cambierà, con molta probabilità si troverà un accordo, una mediazione. E' indubbio però che il panorama del capitalismo è cambiato, a partire – per esempio – dal fatto che con la leva della spesa pubblica molto depotenziata la politica dovrà avere un ruolo diverso; nel lungo periodo Della Valle è il soggetto di mercato che interpreta al meglio lo spirito del tempo.

    Meletti. L'esito della vicenda secondo me dipenderà soprattutto dalla sentenza su Geronzi nell'ambito del caso Parmalat. Se il presidente della Compagnia verrà condannato – per esempio a otto anni come si dice – uscirà di scena e la partita si sposterà su altri piani.