La rupe di Dio

Giuliano Ferrara

Il 30 novembre scorso un giovane che voleva diventare prete si è gettato giù, nell'ignoto giù di Friedrich Hölderlin, dalla rupe di Orvieto. Invocava Dio e si chiamava Luca Seidita e non ha fatto gran che notizia. Si è pensato a una storia triste, alla maldicenza che pare lo circondasse con accuse di inclinazioni omosessuali, a una immatura disperazione. Giorni di lutto per pochi, di bisbiglio per molti, e poi è arrivato il Natale. Ma una decisione ecclesiastica, la rimozione del vescovo di Orvieto, padre spirituale del giovane, ha sconvolto i cuori dei fedeli della diocesi e provoca tutti noi, anche chi è fuori della chiesa ma ama il cristianesimo e la casta meretrice in cui esso si annuncia da duemila anni, a pensare.  

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    Il 30 novembre scorso un giovane che voleva diventare prete si è gettato giù, nell'ignoto giù di Friedrich Hölderlin (1), dalla rupe di Orvieto. Invocava Dio e si chiamava Luca Seidita e non ha fatto gran che notizia. Si è pensato a una storia triste, alla maldicenza che pare lo circondasse con accuse di inclinazioni omosessuali, a una immatura disperazione. Giorni di lutto per pochi, di bisbiglio per molti, e poi è arrivato il Natale. Ma una decisione ecclesiastica, la rimozione del vescovo di Orvieto, padre spirituale del giovane, ha sconvolto i cuori dei fedeli della diocesi e provoca tutti noi, anche chi è fuori della chiesa ma ama il cristianesimo e la casta meretrice in cui esso si annuncia da duemila anni, a pensare.  

    Che cosa è davvero accaduto a Orvieto? La versione ufficiale è breve e asciutta. Le autorità ecclesiastiche competenti hanno deciso che l'ordinazione di quel giovane non era opportuna. Il sospetto di una immaturità sessuale nella chiesa di oggi, sconvolta dalla tempesta scatenata intorno ai peccati carnali del clero, non poteva che ispirare prudenza. Il suicidio, che la chiesa condanna sotto il profilo della teologia morale, dimostrava per molti che c'era in fondo qualcosa di storto, di amaramente inadeguato, nel percorso personale di quel diacono che mai sarebbe diventato presbitero. L'esclusione si era rivelata tragica, ma era legittima. Il vescovo si era acconciato a ridiventare a 72 anni un monaco agostiniano, aveva professato la sua obbedienza. Ma ha parlato, come diceva san Paolo, opportune et inopportune.
    La versione del vescovo in un punto era irriducibile a quella delle altre autorità. Un punto semplice. L'inclinazione al peccato è parte della natura umana, ma non è in sé una malattia, magari da diagnosticare con l'aiuto di quegli psicologi che oggi sono coadiutori dei superiori in tanti seminari, né un motivo di esclusione, di ostracismo sociale o religioso nelle due città, quella terrena e quella celeste. Sotto il profilo della legge civile esistono i reati, non i peccati. Dal punto di vista della città delle anime e dei corpi consacrati a Dio, il corpo mistico fatto di un popolo e dei suoi sacerdoti, il peccato è il core business, come direbbe un capitalista. E' l'oggetto della fatica, della cura d'anime, del dubbio di fede e di vita che attraversa il curato di campagna di George Bernanos o i diari di Madre Teresa di Calcutta, quel dubbio che rende grande la speranza cristiana.

    Il vescovo credeva giusto stare vicino a quel ragazzo precipitato dalla rupe, osservarlo apostolicamente come da missione episcopale, sostenere lo sforzo delle suore diocesane molto attive nell'aiutare le persone in difficoltà, e riteneva giusto accompagnare quella vocazione attraverso la difficoltà e il tormento che in ogni chiamata, sposata alla gioia di Cristo, si manifesta o si dissimula. L'autorità del vescovo voleva Luca prete, le altre autorità legittime non lo volevano. Ma alla base del contrasto, che sempre poi la chiesa risolve in obbedienza, com'è giusto per la sua tradizione e per le sue leggi canoniche, stava qualcosa di importante per tutti, anche per chi della chiesa non fa parte.

    Al giovane suicida che voleva diventare prete per un desiderio ardente, per una chiamata senza appello, non è bastata la garanzia di carità e di giudizio del suo pastore. La chiesa è in penitenza per i peccati del clero. Il Papa ha avuto parole magnifiche per istituire questa epoca di espiazione e di pulizia dalla sporcizia che si annida ovunque sia l'umano, anche tra i preti. Ma a questa dimensione spirituale grande si associa poi, nel governo di una istituzione insieme sacra e sociale come la chiesa, un fattore culturale che anche a noi laici appartenenti al secolo è lecito giudicare. Forse anche doveroso.

    Secondo il vescovo di Luca, che si appresta a finire la sua vita ricominciando dalla meditazione solitaria e dalla regola conventuale, questo fattore esplosivo è la “tolleranza zero” verso anche solo il sospetto di inclinazioni sessuali difformi, di un qualche ardore incompatibile con l'appartenenza a una società di maschi in tonaca o in clergyman. Giovanni Scanavino, questo il nome dell'ex vescovo di Orvieto, non è d'accordo. Al Foglio ha detto, in sostanza, che dell'inclinazione al peccato la chiesa si prende cura con discrezione, caso per caso, valutando le cose per quello che sono e non per i sospetti maldicenti che sollevano, e considerandole in una prospettiva di educazione, nella speranza del meglio, della infinita curabilità della persona umana e della sua anima.

    Molte grandi menti cattoliche non accettano una certa facilità con cui si parla di secolarizzazione, magari esprimendo la paura della dissacrazione della chiesa (e della fede) nel tempo moderno segnato dal “trionfo” della scienza e di una laicità intesa come confinamento della fede nel privato, come omologazione della chiesa alle istituzioni che nulla hanno di divino (la democrazia nella chiesa, le donne nell'amministrazione dei sacramenti, tutto secondo l'ordine e la legge della società civile moderna fondata sul bourgeois e sul citoyen). Eppure la scolarizzazione, in seguito a questa indecente campagna, e oltraggiosa, contro la cosiddetta “pedofilia del clero”, come se il peccato e il reato pedofilo fossero una esclusiva della gente consacrata a Dio, ha fatto con l'idea strisciante di una tolleranza zero un passo da gigante. Il più pericoloso, secondo me. Perché quel passo è compiuto dall'interno della chiesa, perché mescolato alla sua pratica pastorale e al suo diritto. Quando vedo i vescovi belgi impietriti e rassegnati di fronte alla profanazione delle tombe dei cardinali, quando vedo lo psicologo in convento, quando vedo atteggiamenti puritani in ambiente cattolico, penso che la chiesa penitente, la chiesa ferita, la chiesa boccheggiante rischia grosso.
    In una memorabile conversazione con questo giornale il compianto prete e amico Gianni Baget Bozzo, persona inquieta ma viva oltre la morte, rispose a molte domande di Mattia Feltri intorno alla questione omosessuale, che questo giornale “bigotto” cercava di sondare con amore e con curiosità umanistica in occasione del primo gay pride romano. Al suo ritorno in redazione, letto il testo della conversazione, suggerii a Mattia di domandare a Gianni se lui, personalmente, non fosse attraversato da pensieri omoerotici. E il prete politico, il teologo controverso, quell'uomo sincero e libero rispose che sì, certo, l'inclinazione omoerotica era anche una sua inclinazione, una variante che il catechismo definisce “intrinsecamente disordinata” della sua personalità di uomo e di pastore. In un'altra occasione, quando Rocco Buttiglione fu indegnamente escluso per il suo cattolicesimo dai ranghi della Commissione europea di Bruxelles, con uno scandaloso e illiberale processo stregonesco imbastito dalla famiglia allargata del liberalismo laicista dei Daniel Cohn-Bendit e dei Marco Pannella, sempre di omosessualità si era trattato. Buttiglione aveva citato la distinzione tra reato e peccato in Immanuel Kant, e aveva aggiunto che come cattolico pensava, poteva pensare, che il comportamento omosessuale fosse un intrinseco disordine della persona.

    Gli stessi che si dicono laici, e che si comportano poi da neopuritani, e che hanno salutato con fuochi d'artificio la decisione di Obama di ammettere chi affermi una identità omosessuale nell'esercito, quegli stessi sepolcri imbiancati ora non dicono nulla del vescovo di Orvieto, della sua testimonianza di fede e di cultura, e del volo di Luca dalla rupe. Non possono cogliere questa tragedia nella chiesa perché in modo falsamente laico, in realtà praticando e predicando una forzata secolarizzazione e omologazione della chiesa al mondo, devono attenersi al dogma antipedofilo che hanno imposto nelle diocesi americane, europee, africane come sostituto secolare del magistero di umanità e di cura d'anime che è l'essenza della chiesa di Cristo. Quelli che celebrano in modo petulante e insincero la cultura gay non possono soccorrere, per via dei loro stupidi pregiudizi, nemmeno la memoria di un giovane che voleva farsi prete e che si è immolato sull'altare triste della maldicenza e del sospetto di avere una storia problematica e forse una inclinazione omoerotica. Che i persecutori della chiesa cattolica, nel loro falso puritanesimo (lasciamo stare Calvino, che era una persona molto seria), non sappiano essere maestri di umanità, è appena ovvio. Che talvolta questo riesca difficile alla stessa chiesa, intimidita dai secolaristi, è una fonte di sofferenza intellettuale e morale. Non solo per i cuori degli orvietani, anche per la nostra mente fredda, e disincantata.

    (1) Ma a noi è dato | in nessun luogo posare; | scompaiono, cadono | soffrendo gli uomini | ciecamente | di ora in ora, | come acqua da masso | a masso lanciata | senza mai fine, giù nell'ignoto.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.