Rivolte di mercato

Marco Valerio Lo Prete

Non sarà sufficiente liberarsi di qualche autocrate qui e lì. Le rivolte che scuotono la sponda meridionale del mar Mediterraneo avranno successo soltanto se riusciranno a inoculare in quell'area alcuni fondamentali principi del libero mercato. Edmund Phelps, premio Nobel americano per l'Economia nel 2006, in una conversazione con il Foglio, fissa piuttosto in alto l'asticella che i rivoltosi dovranno superare per ottenere una vittoria duratura.

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    Non sarà sufficiente liberarsi di qualche autocrate qui e lì. Le rivolte che scuotono la sponda meridionale del mar Mediterraneo avranno successo soltanto se riusciranno a inoculare in quell'area alcuni fondamentali principi del libero mercato. Edmund Phelps, premio Nobel americano per l'Economia nel 2006, in una conversazione con il Foglio, fissa piuttosto in alto l'asticella che i rivoltosi dovranno superare per ottenere una vittoria duratura. Poi precisa che il suo ragionamento non si fonda su una deformazione professionale, da addetto della “scienza triste”, ma su alcuni fatti abbastanza evidenti.

    Il primo: “In Tunisia, per la prima volta da decenni, abbiamo assistito alla decapitazione di un regime autoritario da parte dei cittadini – dice Phelps – e non è un caso che le proteste in quel paese siano iniziate dopo che il giovane Mohamed Bouazizi, lo scorso 17 dicembre, si è immolato dandosi fuoco. Quel gesto estremo è arrivato dopo che il ragazzo, che vendeva frutta e verdura sulle strade di Sidi Bouzid, si è visto confiscare tutta la sua merce per mancanza dei permessi necessari. E' la prova, molto concreta, dell'asfissiante presa statale sulle economie dell'area”. In Tunisia, effettivamente, tutte le attività economiche sono sotto la supervisione del governo: “Licenze e permessi di ogni tipo sono venduti per fare cassa, per ottenere quel gettito che sarebbe impossibile ottenere aumentando le tasse o lasciando crescere il reddito personale. Anche all'interno della classe media chi è premiato con posizioni privilegiate è selezionato più per la sua fedeltà alle famiglie al potere che per la capacità di fare affari. Senza contare che in questo tipo di sistema, i governanti giocano un ruolo diretto nel controllo di molte grandi imprese”.

    C'è poi un altro indizio che ha convinto Phelps, direttore del Center on Capitalism and Society della Columbia University, a mettere al centro della sua analisi il modello del “capitalismo patrimoniale” così diffuso in medio oriente: da Hosni Mubarak in Egitto al re Abdullah di Giordania, da Ali Abdallah Saleh in Yemen a Muammar Gheddafi in Libia, passando per i reali dell'Arabia Saudita, non appena questi autocrati hanno visto sfilare la gente in piazza, la loro reazione è stata praticamente identica. Hanno tutti promesso di incrementare il salario dei dipendenti statali e annunciato ulteriori sussidi pubblici alle famiglie: “Così hanno dimostrato di capire poco quel che accade – commenta Phelps – a manifestare ci sono infatti molti giovani, spesso con un livello elevato di istruzione, i quali non chiedono una quantità maggiore di benefit elargiti dallo stato. Piuttosto preferirebbero lavorare, avere di fronte a sé sfide da superare e maggiori stimoli intellettuali. La mobilità sociale, in paesi in cui le maggiori società sono nelle mani del governo o di amici delle famiglie al governo, è ancora un miraggio. Ecco perché, se non muterà questa struttura economica non si potrà dire che le rivoluzioni avranno avuto successo. Se in Egitto, per esempio, caduto Mubarak, resterà la forte presa dell'esercito sull'economia, con essa sopravviverà pure la mancata inclusione di tanti cittadini nell'economia nazionale”.

    Farlo notare a un economista liberale come Phelps sarà azzardato, ma non si corre il rischio – sottolineando soltanto il carattere sclerotico delle economie locali come causa scatenante delle rivolte – di utilizzare uno schema interpretativo limitato, di stampo quasi marxista? “In Italia leggete troppo Karl Marx – scherza Phelps, che al nostro paese ha dedicato numerosi studi, l'ultimo nel 2002 (“Enterprise and Inclusion in Italy”) – Piuttosto i miei ragionamenti si fondano su ipotesi di pensatori liberali come Friedrich Von Hayek e John Rawls. Il primo sosteneva che la sola via per avere una carriera e una vita gratificante fosse quella di potersi muovere in un ambiente in cui c'è libertà di competizione. Per il secondo la giustizia sociale consiste tra l'altro nell'aumentare al massimo grado il numero di opportunità di tutti”.


    Né Phelps crede a un'altra tesi che reputa troppo deterministica, quella secondo cui le economie dell'area sarebbero fortemente statalizzate a causa della grande abbondanza di petrolio e delle rendite che ne discendono: “La situazione odierna non è colpa dell'oro nero. Il problema piuttosto è la direzione che prendono i proventi della vendita di petrolio – osserva il premio Nobel – Oggi questi regimi non utilizzano tali risorse per aumentare gli incentivi a investire o per migliorare le infrastrutture, ma per eliminare gli incentivi a fare alcunché, per evitare che i cittadini debbano lavorare. Con la nuova composizione demografica e sociale dell'area, questo schema non può funzionare”. L'unica strategia utile consiglierebbe di “smettere di sostenere grandi e inefficienti società statali, cessando pure di ostacolare l'iniziativa privata”, oggi è costretta a restare nel mercato nero.

    Quanto a un eventuale intervento dell'occidente, Phelps si sarebbe aspettato qualcosa di più dal Vecchio continente: “E' incredibile fino a che punto l'Europa sia rimasta a guardare. Eppure per creare le condizioni della crescita nei paesi arabi sarebbe bastato promuovere anche alla sponda sud del Mediterraneo quei principi che sono alla base del mercato unico. Ora è tardi, ma per un'eventuale ricostruzione siamo ancora in tempo”.

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